L'estensione e il pensiero, i due attributi conoscibili della sostanza spinoziana, trovano ne Il compito terreno dei mortali (Mimesis, 2010) di Flavio Ermini la vista e la voce quale modi privilegiati della soggettività, che rende conto della macerie terrestri proprio descrivendole nei particolari emblematici e visibili (la crepa, il sangue, le ombre, l'affiorare rasoterra ecc.), entro un tono di voce disincarnato, quasi provenisse dai miasmi ipogei, per sgorgare in superficie, oppure scendesse dal cielo, sempre grave sopra i mortali, che nascono "scostando di poco una pietra tombale", per declinare via via, come un ramo carico di foglie. In perfetta sintonia con l'assunto dominante ne Il moto apparente del sole (Moretti&Vitali 2006) dove l'uomo, vivendo, altro non fa che consegnare alla storia "la propria sparizione", attraverso continue mutilazioni e rinunce, Il compito terreno dei mortali qualifica la vita quale esercizio vigile della caduta, calcolo (computo-compito) del tempo caduco e lavoro di chi, in questo precipitare nel nulla, riconosce necessità ed etica all'impellente urgenza delle alture, degli spazi celesti: "Ha una direzione verso l'alto la materia corruttibile del corpo". Urgenza inscritta nella carne, ma egualmente illusoria nel risultato, ci dice Ermini poco dopo, facendo trasparire un pessimismo che forse nei libri precedenti rimaneva pudicamente taciuto o non ancora focalizzato appieno. Per cogliere (e sopportare) quest'eventualizzarsi dell'essere, privo di aperture risolutorie, di salvezza definitiva, e pregno invece di una circolarità senza escatologia, tanto che non esiste una storia dell'infelicità (come recita il sottotitolo del saggio morettiano), bensì un permanere dell'uomo nell'infelicità, Ermini sceglie la via oracolare del "dormiente", di colui che parla sotto narcosi, nella bellezza incantatoria e non ancora mortale, sperimentata per primo dal fanciullo Narciso, che vive fin quando riesce a non conoscere se stesso, a non escludere l'altro quale sostanza del sé. Capovolgendo l'assunto di Socrate, la cui secolarizzazione (l'esaltazione dell'io dominatore, del soggetto moderno) costituisce l'idea di salvezza laica, e radicalizzando invece la figura di un Narciso in armonia con il creato, che muore individuo per rinascere relazione, il mortale erminiano coniuga la non conoscenza di sé (di un sé singolare, espressione, appunto, di una parzialità violenta perché selettiva) con l'ascolto amoroso della voce-verità originaria, di quell'eco – di natura archetipica – che viene dall'"antro" e che la poesia lascia essere nelle pieghe del foglio bianco, come spiega Il moto apparente del sole: "Il foglio che teniamo tra le mani è la fessura attraverso la quale le voci della casa natale si insinuano". Vedere l'orrida bellezza della caducità, riconoscere in essa la voce, l'eco di una bellezza ancora più abissale, dove cielo e terra s'intrecciano in un abbraccio destinale, mi pare dunque siano il compito – per Ermini – cui l'uomo è chiamato a dare testimonianza anche attraverso la poesia. E vivere poeticamente, dunque, non significa scampare al pericolo, ignorandolo o additando la via d'uscita, bensì sentirsi parte di ogni cosa che è, sino a provare felicità "nell'abbandonarsi alla mano che ci abbassa con un solo gesto le palpebre".
Per i dettagli bibliografici e la lettura di alcune poesie vedi la Dimora di Francesco Marotta.
Splendida sintesi: volumetria di mille chiavi e di mille risonanze possibili, quante sono quelle che echeggiano e fluiscono, in natura di rivoli e percorsi, dal cuore stesso dell'opera.
RispondiEliminaComplimenti.
Ma tant', già 'o saje, che t'o dic' a fa'... :)
fm
:-) i tuoi complimenti valgono il doppio: perché sentiti e perché competenti.
RispondiEliminaUn abbraccio a Flavio e un grazie a Stefano. I complimenti a entrambi sono contenuti nel commento di Francesco: le mille risonanze del dirsi dell'opera.
RispondiEliminaA Stefano: quando cerco un poeta che mi interessa e vado nel tuo sito, so che c'è. Una bella sicurezza, per chi ama questo multiforme caleidoscopio che è la poesia, oggi.
M.
la caducità del tempo è un sottobosco al nostro viale, nient'altro che un autunno che ha perso tutte le foglie. non possiamo farci niente se non coglierne le sfumature. qui mi riferisco a rousseau.
RispondiEliminama quando ci si ritrova ad aver perso ogni foglia, quando si è arrivati al fondo di tutte le cose, se ci si gira a testa in giù ci si ritrova in cima; quindi, d'accapo. qui mi riferisco ad alice.
possiamo dire che c'è un equilibrio tra la caducità del mondo e il suo continuo rinnovarsi?
quando i positivisti assodarono che il tempo, il suo scorrere, è una freccia (la freccia del tempo, appunto) sempre dritta e puntata in avanti, che mai torna e mai ci consente la consolazione del passato, accadde che einstein molto dopo fece una scoperta eclatante - e apparentemente "inutile" ai fini del concetto di tempo": scoprì che una particella di luce può trovarsi in due posti contemporaneamente. chissà cosa ne avrebbero fatto i postivisti, a quel punto, della loro freccia capace di una sola direzione.
einstein scoprì la relatività del punto di vista dell'osservatore e la freccia del tempo (con la caducità cui siamo inesorabilmente destinati) divenne una realtà propria del tempo a tre dimensioni. si scoprirà poi che lo spazio è la quarta dimensione del tempo e allora tutto cambierà...
ma questa è filosofia pura. la verità di tutti i giorni è che le cose passano e noi non siamo capaci di trattenerle. i nostri corpi si sformano mano a mano che l'erosione mangia le montagne e sgrana le ossa.
ps. platone (quindi, socrate) parla dei dormienti che vivono in questa grotta buia (la "doxa") senza rendersi conto della luce fuori (l' "aletheia") - quella che heidegger chiamerà poi la vita autentica - e quindi in fondo la figura di socrate non viene poi così tanto capovolta, forse.
forse però qui l'aletheia non rischiara la notte, ma la rende più sopportabile in quanto notte. l'unica che abbiamo, bella come il giorno.
RispondiEliminaGrazie Marco e grazie Alice per gli interventi.
se in questo testo, se quest'uomo ha trovato il modo per rendere più sopportabile la notte, allora ha assolto molto più del compito terreno dei mortali. ed io lo ringrazio. e lo leggerò con molta cura.
RispondiEliminagrazie a voi. per le cose di eccezionale valore. e per le cose di tutti i giorni.
Non vedo l'ora di sentirlo dal vivo.. e di ascoltarlo leggere:
RispondiEliminaa Milano a Milano!
Maria Pia Quintavalla
sì, diciamolo: Mercoledì 6 ottobre 2010, ore 18, presso gli Amici della Scala, c.so Venezia 16, Milano, Carlo Sini e Vincenzo Vitiello presentano il nuovo libro di poesia di Flavio Ermini: "Il compito terreno dei mortali", con postfazione dello stesso Vitiello. Per partecipare all’incontro è necessaria la prenotazione: tel. 02.7601.3856 – mail: info@amicidellascala.it
RispondiEliminaGrazie Alice per l'entusiasmo che dfimostri verso Blanc. Spero di essere all'altezza delle tue richieste. Tieni conto che la salvezza ti cammina sempre a fianco e non chiede che la tua parola.
RispondiEliminaCaro Stefano,
RispondiEliminaè di una grande precisione la tua lettura. Puntuale, coglie gli
elementi essenziali dell'opera.
Bella la conclusione che rimanda a un gesto d'amore che noi possiamo
attenderci dall'Altro e non più dai Celesti, esclusi da questo mio
personale Geviert. Conclusione che rimanda giustamente alla decima
elegia rilkiana: "E noi, che pensiamo alla felicità / come ascesi,
avremmo l'emozione, / che quasi sgomenta, / di una cosa felice cadendo"
Ti ringrazio.
Un abbraccio.
Eppure...
RispondiEliminaun seme di eternità vi deve essere anche nelle cose effimere che partecipano agli attributi della sostanza , i quali sono eterni:"...Dunque l' idea di Dio nel pensiero,o qualcosa che necessariamente deriva dall' assoluta natura di un attributo di Dio, non può avere una durata determinata, ma in virtù dell' attributo stesso è eterna..."
Spinoza, proposizione XXI parte I
Ermini infatti non è Spinoza.
RispondiEliminaSembra una banalità ma invece: il finito è tale se lo incontri fino in fondo nel suo limite, nel suo stare in posizione sempre precaria, sempre in via di assestamento.
Quando leggiamo una poesia, si tende sempre ad uscire per parlare d'altro. forse è un destino della poesia stessa, forse un nostro limite.
Provi a rileggere i testi postati, a dialogare con loro. solo questo chiedono.
un caro saluto
Non si capisce niente. Scusate ma questi paroloni su questo Ermini che non so che dice,io non li capisco.Dov'è che s'incontra il finito?
RispondiEliminafRANCO fRANGELLA
vuoi dire che non si vede niente di già visto? vuoi dire che l'idea di "finito" che tu hai concide con quella di "definito"?
RispondiEliminaHo letto anni fa uno strepitoso saggio di V.S.Gaudio sulla poesia di Flavio Ermini, addirittura quel pazzoide geniale tirava dentro la teoria delle preposizioni di Viggo Brøndal, che ve la raccomando, e i tre tempi di Guillaume, che già aveva usato per Barberi Squarotti e Ripellino, l’I King con un particolare metodo per cavare l’esagramma-stile del poeta, l’archetipologia di Gilbert Durand, e Dio, ma quale?, sa cos’altro! E in più comparava la poesia di Ermini con quella di Camillo Pennati, Barberi Squarotti, Franco Cavallo…Cfr. La Poesia-Shi-ho. La poesia del morso che spezza e dell’acqua sui piccoli sentieri, in “Zeta”,rivista internazionale di poesia e di ricerche,nn.67/68, Campanotto editore, Udine luglio 2003.
RispondiEliminaOra, io dico questo: se proprio devi tirar giù saggi così pieni e con metodologie critiche tanto particolari, lo vai a fare per Ermini che, con tutto il rispetto, d’accordo, è bravo, lo sappiamo, ma a che ti serve? Vuoi mettere un Corrado Calabrò, che, sì, è vero, “fa chiangë iset fimminë i ‘rijûlë”, ma esce dall’editore governativo Mondadori!
Dài, V.S., basta con Ermini, Ginestra Calzolari, Ruffato, Pennati, Cavallo, Barberi, Giuseppe Guglielmi, insomma lo sai il teorema dell’antologista? Se non hai una raccolta(di che?) pubblicata da un editore “grande”, lui, l’antologista non ti caca nemmeno, e allora fatti furbo, no!? Butta giù, che so?, “La Poesia Ue Tsi. La poesia di prima del compimento” e scandaglia i “versi” di Corrado Calabrò da ambo i mari!…
Giovanni Chidichimo
lasciamo a Gaudio la risposta.
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