Emissioni sulla soglia: a proposito di Misura del sonno, di Federico Federici
«L’écriture
est une sorte d’usine. L’univers est sa première et dernière demeure. L’atmosphère
contemporaine de la Terre renferme une grande quantité de molécules et de mots».
Così afferma Federico Federici, fisico, artista concettuale e poeta visivo, in Biophysique Asémique (LN, 2021), testo cui affida alcune riflessioni sul linguaggio come entità spaziale: dotato di insorgenza spontanea, vorticante in unità subatomiche autogenerantisi, il codice di comunicazione tra le creature è anche ineluttabilmente determinato da precise sequenze genotipiche che, abitando l’oscurità, custodiscono memoria del vivente, e codificano per la parola. Tali temi, resi in forma lirica, espansi mediante la composizione parallela in più idiomi, concretizzati in iconografie multisensoriali sono alla base di Misura del sonno, magnifica opera poetica e verbo-visiva edita da Anterem nella collana Nuova Limina.
In questo
lavoro sorprendente, focalizzato sugli aditi a hypnos, il poeta riesce
ad accendere nel lettore sentori intimissimi, che attingono a recessi dell’attività
cerebrale normalmente non esposti all’indagine razionale. La forma di tale speculazione,
dovendosi fare strumento di segnali che si autoproducono nella materia, è essa
stessa elevata al di sopra dei canoni consueti della descrizione o del
ragionamento, e utilizza invece pratiche familiari all’autore, come la scrittura
asemica e la poesia visiva. In questi ambiti si prescinde dai significati
dichiarati e convenzionali dell’armamentario lessicale, per utilizzarne l’aspetto
grafico variamente lavorato, le risonanze sonore, le traslazioni in lemmi con
guaina semiotica affine; facendo forse più riferimento alle suggestioni
etimologiche, risalendo il corso fluviale del linguaggio fino alle radici della
sillabazione primigenia, laddove le fonti dell’emanazione verbale erano
profondamente congiunte all’espressione aurorale dell’essere.
Posto che alla
base della materia, dilatata in osservazione microscopica o, ancor più, nell’elaborazione
di modelli fisico-matematici di esistenza, la massa, nelle sue parti
infinitesime, può sfumare, a livello immaginativo, in realtà onirico spirituali,
allora dove sarà possibile, si chiede il poeta, identificare un confine di
transizione, registrandone le derivazioni? Corpo-anima, veglia-sonno,
parola-silenzio, emissione-quiete sono luoghi di frontiera, prossimi alla notte
del pensiero. Ma se c’è un limen in cui la materia diviene spirito,
allora può esservi altresì un eremo in cui il pensato è già figura: la concrete
poetry è creazione verbo-visiva che scioglie i vincoli, e porge al lettore epifanie
d’inchiostro: è segnale conoscitivo e percettivo insieme.
Nelle sue tavole Federici accosta scritture meccanizzate o calligrafiche a tracciati geometrici ripetuti o simboli ideografici, evocando la sensazione che la poesia visuale, grazie alla mediazione dell’artista, si autodefinisca sul foglio, secondo principi di casualità che, destrutturando l’enunciato, riproducono più fedelmente gli intendimenti liminari: ponendo in risonanza grafica la presenza atmosferica di elementi sonori e concettuali che gravitano nell’ambiente fisico come pulviscolo evolutivo, insieme a particelle, onde, molecole. In Biophysique Asémique l’autore afferma la presenza pervasiva di frammenti di linguaggio nell’ecosistema, aventi qualità proprie della materia e rispondenti all’andamento evolutivo dell’universo. Interessante a tale proposito è come anche il sonno-sogno, prodotto creativo dello stato fisiologico di assenza di veglia, abbia, secondo alcune teorie, nella sua genesi neurale, caratteristiche molto simili. C’è dunque analogia, in quest’opera, tra la forma artistica cercata, e la natura biologica del fenomeno stesso preso a oggetto: l’evento onirico, che si solleva da una concitazione elettrica basale, autoindotta in alcune parti dell’encefalo, e in particolare nel sonno di fase rem: «Notte – / un cardiogramma le onde / di balena addormentata».
Tale
attività intrinseca cerebrale, simile a un evento meteorologico, è indicata da
alcune teorie neuroscientifiche come preminente, al di là della storia
personale e affettiva dell’individuo, nella creazione del sogno. Nello
specifico, l’attivazione di alcune aree profonde, come tegmento pontino, talamo
e amigdala, solleciterebbe il cervello dall’interno andando incontro a uno
stato di autoattivazione neurale che, proiettandosi su prosencefalo e sistema
limbico, verrebbe elaborato in contenuti onirici mediante funzioni quali recupero
della memoria, costruzione della trama del sogno, assetto spaziale e
partecipazione emozionale al vissuto: «Dagli angoli disabitati, viene / colui
che ti accompagna mormorando / e che confonde le parole / come chi, parlando, /
ne trattiene il chiarore. / Nei vuoti di memoria / non smette di frusciare / un
bosco di betulle. / È là che si nasconde / quando ti sorveglia attentamente. /
Protetto dal sonno / ti si para sempre / davanti alle palpebre serrate, / guida
attraverso i venti d’autunno».
La forza primaria fisiologica che produce l’immaginato onirico è identificabile, originariamente, in un’operosità neurale pontina, determinata genotipicamente; in particolare durante il sonno Rem, per la presenza di una responsività corticale rapida, vi è una maggiore disponibilità all’attività cognitiva e all’organizzazione linguistica delle icone ricevute in sogno, poiché è massima l’efficacia dell’encefalo nell’elaborare i dati fenotipici derivati dall’esperienza in modo aderente alla matrice genotipica. Così la vibrazione spontanea delle presenze ambientali genererebbe una fraseologia, che è necessario per il poeta raccogliere e ripristinare sulla carta, quanto più è possibile: «Parola in una bocca buia / nido nella tenebra di un ramo / che si fa albero, bosco, / montagna, mondo».
In generale,
il messaggio multiforme che Federici propone nei suoi lavori non è mai univocamente
interpretabile, perché proveniente a volte da moduli danneggiati – si pensi all’opera
Transcripts from demagnetized tapes – o da lingue sconosciute (A
private notebook of winds), o dimenticate (L’opera racchiusa), il
cui alfabeto è dato da vibrazioni presenti al paesaggio, non decodificabili attraverso
le strutture della ragione. Un’ontologia fenomenologica, un accudire ciò che si
eleva dalle «fessure» che aprono «un varco» sull’eterno, un restituire l’annuncio
come esso si mostra ed emerge, adottando un avvisare ripensato in modo
decostruttivo, come forse possibile evoluzione creativa anche delle meditazioni
derridiane. La poiesis si rende ora esperibile dai sensi, e lo fa tramite
una scrittura che a tratti si emancipa dal ruolo di significante, per effondere
tremiti e ronzii di cui il poeta si fa ripetitore, e che si addensano in quei
luoghi-soglia tra il conosciuto e l’inesplorato – «il varco di Tiresia» – tra l’essere
e il non-essere: «Sono chiuse le pietre / l’invisibile impenetrabile. /
Sentiero di pietra nel buio, / l’inconcepibile».
Nel venire alla luce dell’oggetto, o del pensiero, o nel suo ritornare in anfratti amniotici di buia immobilità, intrisi di non-espressione o di non-esistenza, l’emanazione di messaggi luminosi, sonori, energetici sulla riva dell’intuizione si mostra come un avamposto sottilissimo di ricerca: l’uomo che indaga sé stesso e il cosmo laddove svanisce ogni avviso fenomenologico, e si disarticola il reticolo spaziotemporale, a favore di una risonante assenza: «Sbocciano / gli occhi dal sonno / gemme dopo il temporale / domande / alla soglia dello spirito / dove attecchisce il mondo».
Il poeta
accenna e amplifica, si lascia attraversare dalle ondulazioni delle più segrete
e sterminate concavità, dove l’intelletto fluttua disciolto nell’incoscienza,
immemore di sé stesso: «Prendine nota: / reali il vuoto e / il vento /
pulviscolare / che attira la luce / nella fessura. // Vorticano astratte /
miniature di astri / insetti / spiriti / e universi ventosi / agli angoli delle
stanze».
Forse
proprio a sottolineare il valore allusivo intrinseco del segno grafico e del
suono, precedente il valore concettuale che lo appesantisce e lo aggrega in
linguaggio strutturato, l’autore affida inoltre la sua locuzione artistica a
diversi idiomi (inglese, tedesco, francese, oltre all’italiano), che, a suo
dire, oscillano in efficacia parziale intorno all’asse della resa perfetta,
senza raggiungerla mai; si genera un profluvio espressivo, da ricevere con
facoltà uditive, visive e razionali, per esperirne l’annuncio sonoro,
iconografico e semantico insieme.
Della primigenia pulsione alla comunicazione, la scrittura è la dimensione principe in cui ogni sostanza si commuta in notizia, a ragguaglio dell’interrelazione stratificata tra gli elementi: impensabile l’interpretazione capillare, il decriptare univoco con la sola umana logica. Non un nichilismo del comprendere, piuttosto una postura di relazione al complesso, un rispetto dell’autenticità del narrato, in cui è il poeta a farsi mediatore, in una tensione mai esaudita al non influire, non modificare, essendo esso stesso in irrimediabile esistenza, percezione, trasmissione: «Di chi le palpebre / sbattono e sbattono / sopra soglie di luce? // Di chi più profonde / ferite, le porte / che sempre di più / sbarrano il passo? // Un leggero morire / accarezza la cosa pensata».
Il trascendente
meditato, che l’uomo cerca di applicare al reale, sembra dire Federici, corre
il rischio della forzatura, e impedisce l’accesso alla metafisica vera, che si
genera costantemente nell’oscurità retrostante la materia: «Ciò che non si
afferra / dà corpo al vuoto / finché resta solo / movimento senza traccia».
Ogni ampiezza, da quella macroscopica delle foglie percorse dal vento nel
bosco, a quella cellulare, finanche alla subatomica o elettromagnetica, emette
informazioni a livello biochimico e biofisico, movimenti, fremiti, corpuscoli,
onde sonore, fasci luminosi, catene polipeptidiche, in un continuo movimento
che oscilla tra quiete e caos, tra assenza e presenza, tra silenzio e
asserzione.
Se l’intervento ermeneutico tende a flettere i significati secondo i paradigmi mentali di homo sapiens – creatura eretta, condannata all’autocoscienza, che non può non interferire con i contenuti puri, silenziandone alcuni aspetti, deformandone altri, soverchiando alcune grandezze – la ricerca verbo-visiva e la poesia asemica sono un tentativo di destrutturazione governata, nell’intento del poeta-artista di farsi trasparente all’eterna trasmissione, alla vibrazione perpetua: «Si addensa il silenzio all’orecchio / del mondo che si dichiara udibile / mondo indistricabile / delle cose mai dimostrate, taciute».
Laura
Caccia, accompagnando l’opera con parole avvedute, sensibili, cita Paul Celan;
ed è a una riflessione attenta che appare disvelato quanto i piani di attinenza
siano molteplici; il primo e più immediato è la lingua tedesca, che è uno dei
codici che l’autore ha scelto qui, per il suo dire: dunque i termini, le
sonorità teutoniche, echeggiano come affinità tra i due poeti; ma c’è in comune
molto di più: a partire dal cognome di Paul, che s’agglutina nei suoi fonemi
definitivi dopo esser stato anagrammato e ancor prima trasfigurato attraverso
gli idiomi ebraico, yiddish e rumeno; lui stesso poeta migrante attraverso
nazioni e repertori linguistici, sospinto da vicende umane dolorose.
E ancora, Paul
Celan poeta guardiano; anch’egli sulla soglia, custode della memoria, a
esprimere l’indicibile; avendo cura di ciò che emerge da una notte «messa alla
catena / tra oro e oblio», con «parola sorvolata dagli astri, / sommersa dai
mari». Il parallelo tra sonno e memoria è evidente: due sponde appaiate, nella
vastità, nebulosità, difficoltà esegetica di ciò che le abita, lambite dal rischio
d’amnesia, localizzate in quello stesso brulicante vuoto che, per la memoria, è
centro al cerchio della storia, per il sonno è centro al cerchio della
coscienza.
E infine Celan
poeta arcano e fluttuante, che fa del suo canto una sponda accidentata e
voluttuosa, in cui significati plurimi, intrecciati e sovrapposti nel torrente
sensitivo, convocano un’intensa risposta emozionale a completamento di quella logico-deduttiva.
Anche in Celan la comprensione piena è sempre lontanissima, ma calandosi nelle
profondità del testo si è inebriati dai diversi livelli di possibilità
interpretativa, o anche solo dalla pura evocazione cromatica o acustica: «Nel
mare è maturata la bocca / le cui parole qui la sera ridice / al cospetto dei
suoi paesi. / Mormorando essa la ridice / con labbra rosse di tempo».
La parola, anche in Celan, insorge dalla natura: «ciò che albeggiando vuol crescere / insieme ai giorni»; detiene traccia della ferita dell’accaduto, e risorge a testimonianza, laddove la poesia si presta come territorio di ricezione e restituzione, flusso intuitivo ed elaborativo: come le aree encefaliche corticali, che ricevono e hanno cura del messaggio che proviene da ambiti sommersi, celati ma non sopiti, così il poeta-artista ha cura dell’avviso, con lealtà: «Guarda, le nostre labbra si fanno turgide, / anch’esse rosse di tempo come la sera, / mormoranti anch’esse – / e la bocca sorta dal mare / già emerge / al bacio infinito».
Nelle parole
radicate di Federici, nel verso breve ma saldo, e nelle sue impronte
verbo-visive, l’evocazione è potentissima: a volte una parola scivola nell’altra
per assonanza, o somiglianza del tratto, prescindendo dal carattere semantico
dell’oggetto: un portato poetico sensoriale, offerto a un visitatore che s’invita
a essere percettivo, e non puramente o segnatamente intellettivo.
La parola,
non solo nelle tavole, ma anche nei versi, sembra rapprendere per elettroforesi,
aggregandosi in fraseggi e significati – spesso frantumabili o riassemblabili –
che sono lo specchio e l’emanazione di un cifrario genetico; sequenza
primordiale ma ardente, che continuamente si riconfigura, proiettando dal buio
dei secoli il vissuto del creato, la sua reminiscenza spirituale e biofisica, insieme.
Il codice asemico, in quest’ottica, è l’unico che può tentare di captare il
senso energetico e molecolare che trema nel cosmo, e la parola si spoglia fino
alla propria struttura primaria, diviene pura trascrizione del conio desossiribonucleico
che l’ha generata.
È così,
mediante questo linguaggio disciolto nell’universo, che il poeta propone un
modello di relazione cognitiva tra il soggetto come entità fisica e i corpi
che, nel reale, lo circondano, sul margine dell’antro del sonno.
In Appunti
dal passo del lupo (KDP, 2019), Federici scriveva: «Hai portato il cuore
dentro il bosco, un uccello in gabbia, frastornato dalla grazia dei fruscii e
dai gridi in volo tra i rami, pieni del dolore della libertà. ora ha il peso
del silenzio la parola – soffio di una fiamma, sola nel suo inferno; sbarra a
cui si lega l’ala // giunti alla fine, il passo calpesta l’ultima foglia e non
entra in un altro paesaggio. l’aria intorno al silenzio rallenta. giunti sul
punto, al seme del mondo».
Il contatto
tra armatura intellettiva e libera rivelazione va in conflitto, ma l’arte può
indicare l’intonazione del trasmettere e del percepire, la via a quell’interminato
rovescio del mondo, che è sorgente e origine di ogni cosa.
Federico
Federici, da Misura del sonno, Anterem Edizioni, Nuova Limina, 2021
Ha piovuto e piove.
Piovere non cancella le tracce.
La pioggia forza i fiori
che il fiato non schiude.
Luce su palpebra
– dove s’illumina come pioggia.
Pioggia su bocca
– dove si agita come parole.
L’intera realtà
– una parola annegata.
Es hat geregnet und es regnet.
Das Regnen tilgt die Spur nicht.
Der Regen reißt an den Blüten,
die der Hauch nicht öffnet.
Licht auf dem Lid
– wo es sich wie der Regen erhellt.
Regen auf dem Mund
– wo es sich wie die Wörter regt.
Die gesamte Wirklichkeit
– ein ertrunkenes Wort
***
Gli sforzi della luce
sulla forma perfetta dell’occhio
e del regolo nero del sonno.
La luce si affaccia alla gemma
e la forza ad aprirsi, a soffrire
senza molte altre qualità
una forza e un impedimento
a formarsi in un’altra maniera
secondo il tempo infinito di una
foglia.
Les efforts de la lumière
sur la forme parfaite de l’œil
et de la règle noire du sommeil.
La lumière se présente face à l’œil
et la force à s’ouvrir, à souffrir
sans beaucoup d’autres qualités
une force et une impossibilité
de se former d’une autre manière
selon le temps infini d’une feuille.
***
Un respiro profondo.
Si tace.
Nessuno
scolpito
in questo silenzio.
Il filo del sonno
cuce cicatrici di luce.
Man atmet auf.
Man schweigt.
Niemand ist
aus dieser Stille
geschnitzt.
Der Faden des Schlafes
näht Narben des Lichts.
***
Nel fiato del sonno
oltre la soglia segreta
l’anima soffre
unica sillaba dell’intelletto
soffiata attraverso atrii ventosi.
Non la metà
né l’intero.
Im Hauch des Schlafes,
jenseits der geheimen Schwelle,
leidet die Seele,
die einzige Silbe des Geistes,
weht durch windige Hallen.
Nicht die Hälfte,
nicht das Ganze.
*
Esodo dal sonno terrestre:
fracasso di ferraglia
sotto i riflettori.
Sibila dalle narici
una cosa la cui lingua
trema sui binari
prima di forare
l’occhio vuoto del tunnel.
Frastuono del marchingegno onirico:
sordo rimbombo di parola
su cui cade ombra il pensiero.
Exodus aus dem Erdschlaf:
blecherner Lärm
im Scheinwerferlicht.
Aus seinen Nüstern pfeift
etwas, dessen Zunge
auf dem Gleisbett zittert,
bevor es das leere Auge
des Tunnels durchbricht.
Lärm der Traummaschinerie:
so rau dröhnt das Wort auf das
ein Gedankenschatten fällt.
***
Giorno d’inverno. Rabbuia.
Sotto le palpebre a un morto
becca una folaga
occhi
ancora celesti.
La cosa pensata
ben salda
al cervello.
(Il
cielo.)
Lo spirito
all’orlo del
cranio.
Wintertag. Es Dämmert.
Unter den Lidern eines Toten,
pickt ein Wasserhuhn
zwei Augen auf,
die noch hellblau sind.
Gedachtes
hängt fest
in Hirn.
(Der Himmel.)
Der Geist,
am Rande des
Schädels.
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