Il gran dispitto che c’è
(Cristina Annino)
Il
libro di Ugo Magnanti Il nome che ti manca, edito da peQuod 2019, si compone
di sette sezioni.
Già
il titolo è emblematico di un procedere narrativo ondulatorio che l’autore
manterrà sempre, sia che si tratti di dittologie sinonimiche o di ossimori. Ne
deriva così un andamento poetico curvilineo, il quale tradotto in termini
visuali dà l’idea di un uomo che cammina con una spalla curva, come fanno i
marinai, oscillando tra il dire e il suo contrario, e già contenendo in sé
quell’immagine di mare molto presente ovunque in queste pagine. L’acqua
stessa trova sostanza visiva in tali emistichi o autocensure, e potremmo
continuare all’infinito definendo tutto ciò che egli deliberatamente non
definisce, proprio perché tale andamento genera immagini fisiche
extratestuali. Potrebbe essere un processo inverso della PoesiaVisiva.
L’immagine del muro, altro esempio, quella grande striscia di dipinto
murale in cui si incastra perpendicolarmente il poemetto più lungo, per poi
farci tornare all’orizzontalità delle ultime sezioni. Ed è esattamente tale
parte (L’Edificio Fermo) che
traghetterà il senso dalla prima alla seconda ala del racconto poetico.
Perché
la visione di un murale? Anche e soprattutto perché Magnanti è
senza dubbio un poeta metropolitano, almeno quanto civico è il senso della
propria scrittura, della sua personale organizzazione del bello, cioè più
profondamente del pensiero. La sua proliferazione di immagini rimbalza
quindi su noi idee di visioni urbane.
Inoltre
Magnanti è un poeta complesso che mi piace definire folto fino
all’ebollizione.
Ma
procediamo con ordine.
La
prima parte ha per titolo Poesie del
santo che non sei; inizia così il disegno murario. Qui il poeta non parla
in prima persona: ci rappresenta un lui al bar, il suo numero
di scarpe, l’orologio giallo, quel lui che pianta una palma in
giardino, transita nell’orto, passa da una stanza all’altra della casa, e
così via… Ecco, ogni poesia sembra la rappresentazione di come sia mediocre certa
“realtà”, o certa quotidianità priva di
preoccupazioni che vadano al di là di ciò che viene compiuto al momento,
insomma un disegno del comportamento umano attraverso
individui occasionali, verso i quali lui senta un inconscio senso di “colpa”.
Colpa per esserne contemporaneo, oppure in qualche modo contaminato, se infatti
leggiamo l’esergo, si trova l’ammissione “i sensi mi spinsero a trascurare
la purezza […] mi davo da fare insieme agli alti, tutti venuti con me da un
ventre sanguinante”, oppure per ammettere che ogni azione, in fondo, è
solo una simulazione di gesti reali.
Siamo
già dentro al linguaggio forte di questo autore, linguaggio alquanto brusco, a
tratti persino cinico, come si può leggere nella chiusura della poesia a pag.
18: “empio! che si infettassero altri cento”.
Nel Battito Argentino, il poeta presenta la
propria fisicità, dalla rappresentazione generale dell’uomo passa al
proprio auto ritratto. Appare molto giovane e che abbia una
complicità col se stesso visto, poniamo, allo specchio. Si compiace di avere
l’“epidermide del corvo”, cammina e si agita e vive spavaldamente come
dentro una sonorità che io definisco ispanica, rappresentativa,
recitata di petto. Ora più niente sta sullo sfondo, quest’ironia è toracica.
Non ci sono figure femminili protagoniste, come quasi mai ne troveremo in
seguito, (nel senso appunto di presenze autonome) qui c’è solo la lanugine
di un atto sessuale generico, generazionale più che sentimentale. In questa
sezione abita il suo io “pallido o negro/islamita o cristiano/compare
delinquente/oppure onesto”.
Escludendo
l’Edificio Fermo, questa, tra le
raccolte di poesie brevi, è quella che preferisco, il linguaggio è pienamente
suo, le metafore forti, il dispitto con cui guarda la realtà
del mondo, da ora non lo abbandonerà più. Qui si potrebbe cautamente pensare a
una poesia ideologica, ma in effetti l’autore non prenderà mai una posizione
decisa rimanendo nella sfera di quel dispitto ripeto, di
quella insofferenza- espressa più o meno chiaramente- verso l’essere umano e
che diventerà più incisiva nel poemetto lungo.
Questo
costituisce la terza parte, la più importante, a mio giudizio, del libro;
giacché Magnanti è più poeta quando più narra, e ritengo quindi che questa
sezione illumini tutto il resto, abbia intendo, l’importanza che il cuore ha
rispetto ad altri organi del corpo. Qui parla un Io con cento teste,
addirittura sperimenta arie multiple, inventa toni diversi di racconto, si
allarga e si restringe, con malumore ormai cronico, cinismo, compassione, selvatichezza;
confida sensazioni che poi contraddice, sempre in bilico su emozionalità
differenti che unisce, scandendo con ossessione ossimori tenuti apparentemente
sotto un velo d’acqua. Con disincanto e a volte lieve crudeltà.
Si
potrebbe scrivere un saggio, indagando come un artista possa costruire su
tali slogature, o emozioni, anche se spesso non rese facilmente comprensibili,
un’odissea di immagini potenti.
Nella
sua scrittura raramente si trova passione per il genere umano.
Tale
dato emerge alla terza o quarta lettura del testo, allorché se ne possono
sezionare i vari centri emotivi e di contenuto: poesia, natura, conoscenza,
animali, vita, ecc.
Ritengo
questo un dato molto importante della sua poesia: la dichiarazione di sfiducia
verso una collettività che non ha più radici nella propria cultura, la paura di
perdere egli stesso il senso della storia. La paura soprattutto che non si
possa più costruire sull’Uomo.
Proseguendo
la lettura di questa sezione, troviamo il verso “la cosa che contò di più fu
vivere […] subito seguito dalla contraddizione, “Con ogni cellula sicura
della sua orgogliosa statica”. Dal quadro si è quindi passati al soggetto stesso:
ma i verbi, generano un’azione alquanto “riflessa”, giacché il motore primario è
rappresentato dal ricordo, oppure dall’invettiva: “la voglia/ svergognata di
stare ancora/ al mondo”,
oppure “finisca pure l’estate […] finiscano persino le parole, finisca la
poesia, che importa […] non avrò poesie
da stringere” (66), di
seguito “Non c’è un altro modo/ per chiedere un passato/ che possa
appartenerti”. Si può osservare inoltre che le uscite all’esterno del
metaforico edificio, a volte sembrano spostamenti da fermo, come succede nei
sogni o nel desiderio: “questo in ogni/ caso sono io, /su un marciapiede, /
e quello è un thermos/ sotto il sole alto […]”. A p. 58 batte un vitalismo spezzato a metà lirica,
quindi, p. 60 “se ho sbagliato qualche/ verso, per caso o per abuso […]
perché tutto si muoveva /dentro l’edificio fermo”.
Dunque agìti,
tentativi, ricordi, che potremmo chiamarli anche oblio quale
coscienza dell’io protagonista, per il fatto che sempre manca una volontà
attiva la quale sostituisca il ricordo con qualcosa di attuale, o che sia
diretta contro qualcos’altro.
Nessun
dinamismo tradizionalmente inteso,
insomma, come dicevo sopra, a dominare è quasi un’omissione di
chiarimento, o un oblio quale
sopravvivenza al disincanto del presente.
Concluderemo
allora che ricordo e oblio sono sinonimi, due
facce cioè della stessa sostanza temporale quindi non contrarie tra loro. Non è
detto infatti che l’oblio cancelli; io penso che l’oblio sia un protettore di
ricordi, un contenitore di essenze esistenziali. Non è dimenticanza
o tanto meno cancellazione, bensì esso memorizza a sua insaputa valori
radicati nel profondo dell’uomo. (Ed è, aggiungo, una componente molto
funzionale, anche al procedimento creativo).
Concluderemo
soprattutto: che questa assenza di dinamismo, intesa come volontà di affermare
il proprio pensiero, la riteniamo comunque una vistosa, importante risposta
all’epoca nella quale il poeta si trova dispettosamente ad
esistere. “Abbiamo
scritto un’epica […] ma già assaporandone la triste esumazione”, si
legge a p. 61. Come se l’attuale conseguenza storica
fosse di restare fermi nell’attesa di un inesorabile declino fisico e
spirituale, senza poter più agire, appunto, dentro la delusione di un pensiero
compresso tra l’irrealtà di tante filosofie sociali storicamente vissute da una
generazione o più generazioni, fino alla società aperta vagheggiata da Popper, dominata da programmi e
diplomazia.
Torniamo
al presente, alla poesia a p. 15, alla contrapposizione cioè tra scimmia
e rosa.
Allora
l’irrisione del poeta, la sua negazione, il disdegno, e le antinomie,
costituiscono le sue risposte passive, sono la propria opposizione
personale, giacché sempre confronta il suo sé di adesso con quello che
culturalmente è stato. Del resto non è sempre vero che la vitalità, o lo
spostamento e persino le azioni anche convulse, diano movimento a
ogni spirito. O uguale senso di libertà all’animo di un uomo. A volte questi
spostamenti sono copie di copie che si rinviano
l’una all’altra in un processo infinito, diventando alla fine simulacri.
Il platonico Magnanti non vuole la ripetizione in quanto essa
è copia dell’idea, quindi essa simula, e per questo il
poeta si cala nella dimensione dell’oblio che appunto non cancellando, può
essere un modo di rivivere, almeno dentro di sé, l’idea originale,
cioè l’avvenimento autentico.
Quale
controcanto- Magnanti mostra una decisa dolcezza nei confronti
della natura vegetale e animale, nature consolatorie, genuine perché non
ripetitive, e mai degradate. Gli animali soprattutto, col dono appunto della
continuità caratteriale e morale di cui è priva la natura umana, dispensano
persino oblio, nei due sensi attribuibili a tale sostantivo. Per la
prima volta a p. 41 compare la speranza, prolungata poi lungo tutta la
vertiginosa pagina 42 che inizia: “tra quelli che sperano/ ci sono anch’io”.
La
sezione termina con l’alleggerimento dei versi, p. 76: “spudorato e già
pronto a ritornare vivo […] il tuo desiderio non è fatto per morire”.
Nelle
sezioni seguenti incontriamo un Magnanti “tra la gente”, come se per un attimo
si fosse spaccata la superficie del mare. Poesie brevi, addirittura distici
nella parte VI che si intitola appunto Canti distici;
l’agitazione del poemetto centrale si snellisce in uno sguardo stretto su
quel che vede e niente gli appare bello: il moscone, se stesso, il prato, la
luce del giorno falso, l’ovvia scala in attesa, sono versi pungenti
rivolti ancora una volta, anche se più lievemente o saggiamente, a una sgradita
umanità; “ho dovuto aspettare che un tale con la bocca spregevole prima ne
dicesse il possibile male per comporre poesie con la rima”, scrive a p. 117. A p.
110 era spuntata l’idea di un sorriso triste, dove parla del piccione
schiacciato da una biemmevù, e nella poesia seguente ritorna un’altra macchina
guidata stancamente, che ripropone l’immagine della scimmia sovrapposta al
guidatore peloso, anzi la scimmia è diventata, senza alcuna progressione di
genere, il guidatore stesso dell’auto. Pensabile è un larvato darwinismo senza
però evoluzione.
Nelle
parti IV, Al nudo specchio e la parte V, 20 Risacche, si rivela meno l’ossessione di
un io multiforme e
presentato direttamente, dove la presenza del mare da metaforica diventa reale.
Il mare sembra addirittura dentro di lui e genera sesso “ventre contro
sabbia, negando l’evidenza della copula” e anche il “vento in casa penetrò dal mare”, verso dove il sostantivo vero è il
mare, non il vento. Onde, conchiglie, scogli, barche, il mare è dappertutto
anche non nominandolo direttamente, e il mare comprende tutti mari: marocchino,
siculo sardo; insomma la geografia si dilata, l’edificio ha definitivamente
rotto i suoi muri. Sono composizioni di notevole abilità stilistica, più simili
all’acquarello che al murale dipinto con la vernice, ma ugualmente
incisivi, anche se si è persa la rabbia o quel disincanto che emotivamente
intrigano, tenendosi più vicino l’autore.
Il
libro termina con Barlumi di un’America intuita da un’Italia e
per poco, a tratti o per niente, ma almeno un po’ mascherata o di lato, la sua
amarezza, acrimonia, viene come tradotta fisicamente. L’America non è lontana
né vicina, ma c’è (ironia e contrarietà che emergono nei 4 righi di prosa a p.
121) “patrie, le più belle, torbide miscele [.] per essere per sempre
una bestiola disonesta”.
Entra
una realtà più moderna, coi campi da gioco, grattaceli, studenti. Il ritmo
poetico è più disteso, non ricompaiono gli ossimori, le dittologie sinonimiche,
“il clima è scioccamente estivo”, ‘certo’, “una
giovane sorella va in giro per la questua”, si “stenta
ancora a credere alla reclame fondata su una faccia”. Sono sintomi,
questi, di una sistemazione a metà dell’uomo al posto dell’uomo che Magnanti
sognava: si è insomma negli sciocchi paesi lontani e vicini perché inquinati.
Perfetti magari! Come lo sono i bisonti, e splendidi quanto il Messico.
Le scarpe con il numero di sempre,
ovvio!; l’orologio invece comprato
un anno fa, giallo come un
insetto.
E il vecchio muro verso cui sei
sceso,
per metà uomo e per metà creatura,
a volte confessato dalla ruggine,
a volte dalla parodia: la ruggine…
fu anche più
aspra della parodia.
Tengo perlopiù
l’epidermide del corvo
forse più ombrosa
o forse meno ombrosa
ma pure declino dall’est
e approdo qui con l’Albania
e sono cereo e dorato
così
sia io pallido o negro
islamita o cristiano
compare per delinquere
oppure onesto
così
io proferisca con bontà
e scatarri sul mattone
o sull’asfalto.
Viene l’erba di febbraio
ed è un piccolo supplizio,
perché scopri che riluce
ma non vuole dire nulla,
anche se sul prato passa
un vento lieve, e le voci
abbandonate dagli ultimi
palazzi cantano la voglia
svergognata di stare ancora
al mondo, con la vertigine
che un po’ stordisce
e gialla piange, ma poi grigia
in ogni fibra non rinuncia
al gusto di essere ammazzata.
Pregano le ore che avevi
disprezzato, e si lasciano
incantare dalla faccia che
riappare per vivere più
forte, più lenta, più vorace,
rivelata come lo sciogliersi
di resine fiorite dentro
una pineta, quando tutto
quello che potresti dire,
si ferma prima che la bocca
ammaliata possa
dire.
Cinque esseri umani
che attraversano la
strada, un equipaggio
dalle braccia grasse
e rosse, che prova
a consistere in
qualche verità.
Nulla che non abbia
un nesso con le nuvole,
che non sia rappreso
come il giorno, nulla
che non sia cielo
disteso sulle fronti,
o che non abbia
smarrito l’occasione
di accadere in altri
modi: questo in
ogni caso sono io
su un marciapiede,
e quello è un thermos
sotto il sole alto, come
se non fosse aprile:
serve a mantenere
fresca l’acqua,
sfiorata da un
ciclista.
Ecco, solo adesso è certo,
sono stati rari i giorni
e poche volte si è visto
qualche istante svelare
a sé stesso il suo splendore.
Siamo stati stupidi
a scivolare via così,
malgrado fosse inverno
e un funerale radioso
si snodasse in ogni linfa,
malgrado il sole dei
sobborghi sconosciuti
sembrasse un ornamento,
fin quando il sesso ebbe
le ossa per spezzarsi su
un tappeto, e l’idea di essere
cenere attraversò come
un mito luminoso il buio
di un atrio verso la calura.
Più che altro, più che
vivere, abbiamo scritto
un’epica, neppure
d’accordo con noi stessi,
ma già assaporandone
la triste
esumazione.
Ugo Magnanti ha pubblicato diverse
opere di poesia, tra le quali, più recentemente, Il nome che ti manca, peQuod, con due note di Carlo
Bordini e Rino
Caputo, 2019; il poemetto in ‘stanze’ L’edificio
fermo, con prefazione di Antonio Veneziani e una nota di Cristina Annino,
FusibiliaLibri, 2015; e la plaquette Ciclocentauri, con tavole di Gian
Ruggero Manzoni, FusibiliaLibri, 2017. Fra le curatele Quanto non sta nel
fiato, tutte le poesie della poetessa serba Duška Vrhovac, prefazione di Ennio
Cavalli, FusibiliaLibri, 2015; Sogni di terre lontane, di
Gabriele D’Annunzio, prefazione di Pietro Gibellini, Scoprirenettuno, 2010. Fra
le tante presenze a manifestazioni di poesia, nel 2012 ha partecipato al 49° “Festival
internazionale degli scrittori di Belgrado”. Ha ideato e diretto numerosi
eventi letterari e ‘azioni poetiche’ in varie città italiane, con centinaia di
presentazioni, incontri, rassegne, letture. Nel 2010 ha ideato e diretto
“Nettuno Fiera di Poesia”: poeti, libri di poesia, piccoli editori nel Lazio.
Lavora come insegnante di materie letterarie in un istituto superiore.
Testi audaci e elegantemente grezzi, è chiara la voce e la sicurezza della voce, ci spiazza perché il poeta ha saputo rispettarla senza che il mestiere s’intromettesse. Ma resta il fatto raro e prezioso che quella voce esista. Probabilmente lo stupore nostro di lettori lo condivide anche lo scrittore, come se alcuni versi gli arrivassero da non sa nemmeno lui dove. Tanto è il potere della coesione tra conscio e inconscio in chi veicola realtà senza imbrogliare. Sagace in prosa e utilissima la visione dell’altro poeta che di i scrive. It takes one to know one. Corro subito ad ordinarne copia.
RispondiEliminaGrazie Pietro per il commento.
RispondiEliminaUna poesia è piena di secondi, tutti insieme, e qua li vediamo nello stesso pensiero.la realtà va oltre...
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