lunedì 4 aprile 2016

William Stabile

Uscirà prossimamente il libro di William Stabile La forza degli schiavi (Dot.com Press Edizioni, di Fabrizio Bianchi). La prefazione è mia. Ne posto una parte (l'intero si potrà leggere sul libro, ovviamente, ma anche sul volume due di Blanc de ta nuque)


La biografia di William Stabile si sovrappone, nello spirito, con l’abito del poeta, al quale – in un intervista in rete rilasciata a Luigi Metropoli nel 2007 –  attribuisce la passione per “la ricerca, la lentezza, la solitudine, la difficoltà nella quale egli si forma e si rigenera”. Un concetto simile sta nella citazione di Rafael Alberti in esergo a questo suo nuovo libro: “Un hombre alejado, solo, / forzosamente alejado, / que ve ponerse la tarde, / con el temor de la noche”. A questa postura esistenziale occorre sommare la formazione culturale del poeta italiano ora residente in Cile: l’idea che gli opppressi, gli “schiavi” di ogni latitudine, abbiano ragioni e logiche ferree, un piano individuale e collettivo – per quanto inconsapevole –  che è loro precluso, che siano insomma soggetti di un potenziale programma innovativo, capace di confrontarsi con il capitalismo dominante. A fondare questa ipotesi sta la convinzione che il popolo sia un ente sano, soprattutto quando esso si costituisce nella pluralità culturale, quando, come scrive Stabile in Contrappunti e Tre poesie Creole (Fara, 2007) sia connotato dalla “creolità” ossia da una natura che “esalta le differenze e si scontra con l’uniformità e la standardizzazione imperante”. La stessa cosa fa il poeta, ci dice altrove citando Alfonso Gatto, convinto che la poesia appartenga agli uomini che non si difendono, che passano nella vita, lungo tutta la vita, senza appropriarsene, amandola anche per gli altri che credono di averla spesa o di poterla spendere senza mai riuscire nemmeno a destarla.”

Leggere La forza degli schiavi significa dunque portarsi sulle spalle questa complessità, che è di formazione e biografica, frutto di letture spesso lontane dalla tradizione italiana e di una scelta stilistica che vorrebbe togliere la distanza fra popolo e scrittura, laddove appunto popolo non sia gregge, bensì soggetto attento al cambiamento, partecipe alle scelte, ente maturo di una democrazia ancora tutta da costruire.

Per entrare nell’opera in questione, vorrei citare parte dell’analisi che feci al suo primo capitolo "Dr. Livingstone, I suppose", uscita l’anno scorso sul mio blog Blanc de ta nuque. In quell’occasione invitavo a leggerlo come se fosse un blues, con i suoi tic tematici (e il suo ripetitivo giro di accordi): l'io che dialoga con Dio, che Gli racconta del lungo viaggio spaesante per conoscere se stesso e il mondo, del perdersi e del trovarsi tra le Sue pieghe, sempre con un leggero senso di colpa, in parte risolta con un'autoironia giocata in punta di lingua. William Stabile, su questa tessitura nera, ricama tuttavia una biografia bianca, dentro una realtà tardo-moderna dove ognuno cura il proprio orticello, e prende il taxi e gioca a sudoku, senza soluzione di continuità. Il procedere versale scarta rapidamente di lato, così che le scene, in questa preghiera infinita agìta dentro un capitalismo crudo, si succedono come le avventure dell'Orlando furioso, che qui, in apertura, si presenta sotto le mentite spoglie del Dr. Livingstone, che a propria volta sembra il doppio di Kurtz nel Cuore di tenebra conradiano. Tutto questo racconto senza rive, plurilingue, potrebbe essere letto come l'allegoria della scrittura, nostra pratica quotidiana dentro le tempeste e gli acquitrini della vita. La citazione di Plinio il Vecchio "Nulla die sine linea", posta verso la fine del canto, serve a ricordarci che il viaggio nella parola non ammette chiari di luna, bensì pretende esercizio costante, che non porta – pare dirci l'autore – in alcun luogo sicuro, ma ci tiene nel mondo, in una vigile presenza. Ed è questa la "nostra rivoluzione" non armata, pacifista”.

Il poeta infatti, ce lo ricorda nell’intervista precedentemente citata, “è un provocatore, un duende lorchiano”, ma il suo “mitra è un contrabbasso” direbbe Demetrio Stratos, ben sapendo che violenza genera violenza e compito dell’uomo è abitare la terra, quella terra-natura pervasa da Dio: ce lo racconta nel secondo poemetto, “Ulisse”, in cui domina un panteismo spinoziano (Deus sive Naura), ma anche il tema del ritorno e la difficile conciliazione tra qui e altrove che costituiscono l’essenza identitaria, la nostra natura di stanziali mai domati dal primitivo nomadismo.

[...]

Su Blanc la prima poesia del libro.

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