foto di Dino Ignani
L’osservatorio (Moretti
& Vitali, 2011) di Francesco Dalessandro è un unico, lunghissimo poema
diviso in capitoli, che hanno al centro due fuochi: la città di Roma e l’esercizio
del guardarla vivere, fluire come sangue o fiume. Non c’è quasi anima viva che l’attraversa.
Scorrono invece, a cascata, particolari stagionali e fatti di natura, segnati
tutti da un dolore, sentimentale più che eroico, che partecipa allo sguardo
dolente dell’osservatore.
La poesia proemiale,
condensata nell’invocazione alla musa, sintetizza lo spirito del libro, sia nella
scelta stilistica (“ho bisogno di un verso / liquido che fluisca naturale / con
forma e suono acconci che narri districando / il groviglio dei sensi, di un
senso / semplicemente chiaro nemmeno verità / ma ipotesi del vero che sia /
ricco di effusione e scarno senza / povertà”) e sia nell’atmosfera crepuscolare
in cui si avvolge, fra languori, foschie e sudari, con rari guizzi nel colore.
Capita, per esempio, quando la città si popola con la coda automobilistica del
rientro serale, “bava / brillante di lumaca più che corso di luminarie / nella
notte” (si noti il lavoro sugli accenti che danno forza all’allitterazione in
a, e la paretimologia di lumaca-luminaria).
L’inattualità
dell’ispirazione deriva dalla cronistoria del libro, composto fra il 1985 e il
1993 e le successive revisioni, ma anche, mi sembra, dalla sua contiguità con
il poeti di “Prato pagano”, in particolare con Gabriella Sica. Ne recupera la
meraviglia verso il creato, il senso pagano di appartenenza alle forze ctonie
(declinato da Dalessandro in senso sentimentale), il valore sacro
dell’amicizia, la ricerca di un verso disteso, musicale e tendenzialmente
endecasillabo.
La sua originalità,
rispetto a quell’esperienza, che risale ai primi anni ottanta, risiede
nell’impeto sequenziale della strofa, monolitica eppure fluida, tesa a seguire
il succedersi delle variazioni di luce, come nelle ninfee monetiane, ad
assecondare la visione, che si posa dolcemente su ogni evento, condensato da
nome e aggettivo, concrezioni tuttavia non imperiture, ma destinate a svanire,
come presenze di passaggio sulla superficie del Tevere. Dentro questo apparente
en plein air, si nascondono tuttavia,
e si amalgamano, una miriade di citazioni, esplicite (e rintracciabili in nota)
e implicite, come l’incipit scopertamente dantesco de L’azzurro cielo: “Sandro, vorrei
che tu Bordini e io”, che inaugura un viaggio amicale bagnato dalla
pioggia, dentro una “pasqua [che] passerà senza resurrezione”, in compagnia
degli echi non detti di altri poeti, primi fra tutti D’Annunzio e Leopardi. (Sandro è Alessandro Ricci, un
poeta d’origine piemontese ma vissuto a lungo a Roma, di cui le Edizioni d’Arte
hanno appena pubblicato un’antologia postuma con un saggio di Stefano Agosti
dal titolo I colloqui di Elpinti.
Carlo Bordini è poeta assai diverso da Francesco Dalessandro, nella misura in
cui contamina i registri, usa con più frequenza il pedale della metafora, si fa
attraversare dall’urgenza autobiografica messa in scena con tragica ironia com’è
ben evidente ne I costruttori di vulcani.
Tutte le poesie 1975-2010, Sossella, 2010).
L’osservatorio
contiene due “amichevoli testimonianze”, l’una di Attilio Bertolucci, l’altra,
più interessante, del compianto Gianfranco Palmery, che nel 1989 rileva, in
quel flusso strofico di cui accennavo sopra, la vena barocca di Dalessandro,
esorbitanti come sono l’andatura ritmica e verbale, che non lasciano “spazio a
una pausa. Questa colata metrica – continua Palmery – […] dice l’orrore del
vuoto [che] è orrore della morte”. In contrappunto e per compensazione, Palmery
ci legge “la precisione descrittiva e nomenclatoria” dello spirito classico,
con vocazione al paesaggio italiano. Condivido pienamente, a conferma di una
linea sensuale ma non estetizzante della poesia italiana, di una carnalità
della visione che si organizza per immagini sequenziali, nel cui accumulo si può
riconoscere un pensiero, non concettuale bensì emotivo. Il riferimento alla
tecnica cinematografica di Alfred Hitchcock, che troviamo in esergo al primo
capitolo, sintetizza la questione. Scrive infatti il regista inglese, a
proposito del suo La finestra sul cortile:
“Questo rappresenta la più pura forma di cinema, ciò che si chiama montaggio:
pezzi di film messi insieme per disegnare un’idea”. Lo stesso fa Dalessandro,
montando il suo poema con frammenti che appartengono alla sfera del sensibile,
a comporre non un giudizio sul mondo, ma l’effetto di questo sulla coscienza, nella
consapevolezza di essere giunto alla fine dell’Occidente, con la possibilità
che non ci sia più niente da dire per salvarlo.
L’OSSERVATORIO,
Moretti & Vitali, 2011
da I - L’OSSERVATORIO
1
Torna,
Musa, coi mattini brumosi e torbidi d’autunno
coi
vapori dai fossi dalle forre
fumiganti
gli odori aspri i colori
densi
del parco la luce come il cuore
intermittente;
torna con lo scialo
dei
platani sui viali coi voli di passo sull’oro
delle
foglie; torna con la foschia –
tenue
sudario disteso pigramente
sopra i
tuoi colli, mia mortale
città,
sull’acqua fosca dei tuoi fiumi
letali
– col sole temperato di settembre
che la
scioglie; torna, ritorna col passo
frettoloso
che guida ai sottovia
della
metro all’aria aperta col primo
nubifragio
di fine estate – code
e
ingorghi inestricabili di traffico
impazzito
–, con l’ansia la pazienza
ai
versi necessaria col loro lineiforme
stratificarsi,
frecce scagliate dritte
al
bersaglio
«ora non posso, se mai
fu
possibile prima, esaurirmi in un fuoco
di
lirica passione sfolgorare
in un
brillio di breve e fatale
intensità
(sebbene è vero l’esatta
misura
sia di dieci dodici versi
o
tutt’al più un sonetto come O dolce
selva solitaria
perfetto di Giovanni
Della
Casa), ho bisogno di un verso
liquido
che fluisca naturale
con
forma e suono acconci che narri districando
il
groviglio dei sensi, di un senso
semplicemente
chiaro nemmeno verità
ma
ipotesi del vero che sia
ricco
senza effusione e scarno senza
povertà:
questo m’è necessario»;
che ne sia
capace
o lo creda tu torna, mia Musa, col fresco
della
sera col rosa della rosa ottobrina e solitaria
tornata
a rifiorire nell’aiuola feconda del cortile
(dove
si godono il calore della terra le mattine
umide
due gattacci, l’indolente invecchiato fulvo maschio
e la
femmina furba giovanilmente inquieta che mi guarda
diffidando
e sfidandomi); col rosa fuoco torna
dell’occaso
la sagoma oscura del parco le luci
del
Forte, le prime a vedersi, e le finestre accese
su
Pineta Sacchetti – avamposto borghese popolare
di
Primavalle proletaria – dal fondo della curva
nascoste
dai filari verdecupi dei pini dalle spente
acacie
macchiaiole lungo i bordi del fosso e della
strada,
immerse nell’indaco notturno che spaesa
il
reale
–
infine, Musa, vieni con l’affanno del nuovo
o la
quiete serena che dà la tua franca
parola.
6
Invecchiando,
però, la stanchezza comincia a farsi sentire,
specie
nel momento in cui è appena passata l’ora di cena,
e per te non è cambiato niente…
Pier
Paolo Pasolini
L’ora
di cena è passata – non ha
cambiato
niente niente ci ha cambiati –
lo
scroscio dell’acqua della tempesta
nel
vento spietato che sbaraglia anche l’ardito
mattutino
pensiero – ma per poco ma solo
nell’ansia
che la resa al cuore umana
genera
angoscia e la rinnova e la riaccende
dolorosa,
che l’acqua dalla valle
venendo
e dai suoi boschi non potrà
lavare
– e lo sguardo smarrito che non trova
pace,
lo stocco muto e repentino della
folgore
sul parco e subito il rintrono
del
tuono rotolando lontano fino al fondo
cavo
del cuore tutto tutto che più
non sai
che più non vedi, il risparso
suono
ancora della pioggia contro i vetri
e le
persiane, il trepestio delle ruote sull’asfalto
viscido
e nel giardino angolo vivo
di
verde imo terreno, sotto l’edera
alla
base del pino le due tartarughe (le tue
tartarughe)
vicine dormienti – nonostante
la
pioggia battente – di tutto
ignare
e di se stesse di noi soli a diverse
sponde
guardinghi, mentre cuore torpido
e uggia
la città che non ha pace
paludata
ora spartiscono stigia dove si muore,
e la
stanza in cui astro non spande
luce,
ossidiana.
9
un
fuoco di rifiuti di cascami che non
può
dare calore ma solo una bluastra smorta
fiamma
che brucia bassa e nero fumo contro
il
cielo coperto (una nube ci minaccia) leva
acre di
quanto mal
si
degrada e consuma nel fuoco, rossa spiga
cresciuta
tra vapori e tronfie tenebre; gonfie
nuvole
presto, aria e terra adiuvanti, s’apriranno:
acqua
finché altro nuovo giorno si levi acqua
benefica
o letale cada stanotte sul parco
vuoto,
al cui fuoco nessuno si riscalda;
la
correntìa di luci lentamente esaurita s’allontana,
solo
ogni tanto un rombo cupo rantola ancora
giù
nella strada piana piano muore.
da II –
STAGIONI DEL BASSO MONDO
[...]
livida
acqua trascorrente vita ottobre
nel
limpido mattino
e
nell’ora al mio sguardo assonnato
destina
la
duplice visione: a pelo d’acqua
un armo
a due, voganti
cuore e
ragione, e sulla lenta
corrente
a galla un grosso topo
morto
scivola verso la sinistra
riva
dove un
vecchio barcone all’ormeggio
dondolandosi
culla chi ancora
in
queste prime ore
di luce
dorme e non sa che desolati
segni
con la sua cupa
acqua
il fiume rechi al giorno: fatica
e pena
nuove, sirene senza canto
risorte
al tardivo appena tiepido sole
d’inizio
autunno sulla piazza dove
Tritone
si erge a sfidarne lo sguardo
mentre
assistono al volo degli storni
(forse
solo avanguardia del grande
stormo
che al primo freddo i nostri cieli
oscurerà),
dei pochi che sui platani
del
Centro hanno dormito: verso l’assolata
campagna
romana li spinge l’istinto,
ma
ancora
indugianti
sui viali e le ormai spoglie
vette
intrecciano voli striduli richiami –
«non
guardarli, non sperare
che
anche per te s’aprano le gelide ma terse
vie del
cielo!»
per
altra via dovrò salire ad altri
approdi
conviene che mi porti, san Nicola
da
Tolentino, più terreni e riparati muti
di luce
in cui passare il giorno e assenti
gli
affanni non sentire non sapere mi sia
grande
ventura, ma prima permettimi
una
sosta da Pietro che sulla sua pietra
tintinni
il prezzo della prima tazzina
di
caffè, nel tepore del bar nel suo brusio
bevendo
e parlando lasciami preparare
all’ascesa
del giorno…
da III
– L’AZZURRO DEL CIELO
Dorme,
lei – lei che non dorme
mai
quando i suoi cattivi
pensieri
l’opprimono e inquieta
si gira
e rigira nel letto, rancori
profondi
ne turbano il sonno, ora dorme
forse
paga del pianto che la notte piange
dietro
la persiana abbassata la finestra
ben
chiusa forse invece sopraffatta
da una
stanchezza che perdona e addolcisce
anche
l’ansia, perduta in un suo sopramondano
sogno;
chi insonne soffre il proprio
dèmone
attende l’alba il lucore
di
un’aurora lontana che fra nembi
vuoti
trovi una via rischiari le borgate
più
remote le vie di popolari
periferie,
che a lei doni il risveglio
presago
di una domenica di pace
e di
lavori domestici, a me il sonno
torbido
e breve del mattino l’ozio
fra
tavolo e giardino la solerte
necessità
– sgocciola ancora acqua
dai
balconi più bassi e sul fogliame lucido
dei
lauri il sole ostenta la sua luce, nuovo
calore
sulla morta siepe dove il sangue
della
vite risplende rappreso («nemmeno
la
pioggia furente di stanotte è riuscita
a
lavarlo, ma goditeli il sole
e
l’aria frizzante sulle vele della tua
domenicale
indolenza») la calda luce svela
i suoi
maneggi nell’ombra della casa,
domenica
mattina di grazia e luce
nuove
trascorre nel domestico nostro
labirinto
di minute occupazioni, pulizie settimanali
restauro
di un ordine che l’incuria dei giorni
feriali
ha compromesso: imbustare
vecchi
giornali raccogliere gli aghi
di pino
strappati dal vento
notturno
– tra l’erba battuta le due
tartarughe,
godendosi l’ultimo sole
dell’anno
il calore dell’estate
di san
Martino, s’impegnano in sofferti
giochi
d’amore prima di un letargo
che ne
rigeneri gli istinti l’energia d’una vitale
volontà
– il sole scalda anche i miei
sensi
li accende il desiderio: non avrà
compimento
fino all’ora della siesta
dei
pensieri leggeri nella quieta penombra
della
camera da letto, velata euforia
dopo
pranzo ci prende ci perde al meridiano
fuoco
dei nostri corpi nel calore
del
letto («la minima appagante
felicità
facilità dei nostri gesti – la sua
mano
stringe e carezza – le mie dita
intente
nell’umido del nido sui bottoni
bruni
del seno...») e dopo il fuoco
la
brace di una paga
dissipazione.
da IV –
MARE DELLE PASSIONI
8 (Il
mattino)
Strane
voci nell’aria del mattino
festivo
destano all’ansia alla pietosa
luce
che scalda l’erba e i verdi lauri
del
giardino dirada le notturne
brume
scioglie la brina uccide i sogni
avviando
cuore e mente dal torpore
della
bassa pressione uscenti come
il sole
dai nembi a fatica l’albanella
dal
fitto dei rami – è il tempo incerto
dell’autunno
romano quando nei viali
maculati
di ruggine strepiti d’ali
e
richiami chiassosi di storni dalle chiome
ramate
dei platani levandosi a chi sosta
o
transita oscurano la vista l’azzurro
mattutino
mitissima procella sopra Monte
Mario
vaniente oltre le antenne e l’ocra
sporco
e vecchio dei Prati – mentre prende
vita la
strada e a poco a poco cresce
il
frastuono del traffico si anima la casa
si
scaldano voci e finestre, ma il rumore
ferisce
e risveglia il dolore sopito
di una
passata età che si credeva
sepolto
nel costato insieme a morte
passioni
acerbi inganni giovanili
e quel
dolore l’angoscia magra smania
di
perdersi nutre come i tiepidi raggi
novembrini
l’opulenta magnolia le sue
grasse
foglie ondeggianti alla fredda
tramontana,
così me tra desiderio
e
abbandono oppresso dall’inquieta
sedizione
del cuore nella nemica aria
fragrante
nell’amorosa luce di un sereno
sguardo
poi che ignaro di quanta
tenebra
offuschi il mio e i miei pensieri
incapaci
d’amore e vita ormai
fuori
da ogni partita che ancora
gioventù
nei lunghi giorni gioca
mentre
a me gli anni sono corti
e
difficili, incerti come questo mattino
maturato
con passaggi di nuvole
e paure
nel cuore nel cielo turchino.
12
(L’osservatorio)
L’osservatorio,
il punto
d’osservazione
è quello ma le cose
sono
cambiate (peggiorate) «forse osservi
da una
diversa prospettiva con avverse
condizioni»
anche l’età non è la stessa
«(l’età
o l’epoca?) aggiungi l’accentuata
imperfezione
della rima» quanta
quanta
acqua è passata sotto i ponti
di
questa nostra Roma appena sveglia
«sempre
uguale a se stessa» da quassù
da
un’altezza che la redime nella prona
misericordia
del sole ancora assorta
sonnolenta
e distante dalla trama
defoliata
dei rami da vertigine di curve
e
discariche appare (l’uomo curvo
sulla
rampa a restringere foglie ad ammassarle
per il
fuoco non vede non si accorge
di
quest’ora e questa brama, consueta
visione
dei giorni) come i sempre-
verdi
ancora a corona dell’oro gli alti
pini
(oh svettanti) nel mattino di gennaio –
chi
ritorna sulla soglia dei quaranta-
cinque
anni a discendere dolente, con la mente
formulante
congetture di un estremo
nuovo
inizio d’amore
«oh ridicole speranze
buone a
illudere non necessarie oh vergognose
lagne,
l’anima offesa nei suoi muti
giorni
piange sventura ah miserella
sognante
un corpo e una vita di beata
felicità
– quale inizio che sia servo
e
padrone di se stesso? quale insonne
verso
scritto in corpore vili? una celeste
mattutina
salvezza o il lagno muto
sull’aria
dell’Ermione: non sperare
sorte
amara (ti rivedo, ah ti parlo!) non farti
illusioni»
quei pini assiepati quei
frementi
pini
appena svegliati dal calore a un distretto
fortilizio
rassomiglia nell’azzurra
castità
del mattino che lo vede
allontanarsi
sospinto da una smania
dolce
da un’ansia divenuta impaziente –
e il
giorno cresce si fa più caldo
il sole
il traffico più intenso l’ora
e l’aria
maturano addolcite mentre spira
tra le
siepi e i rami spogli della vite
americana
dalle curve sulle foglie
tintinnanti
e sui volti un leggero
vento,
limpido il cielo ma sul cuore
pesa
una nube l’ansia dolce diventa
sottile
angoscia «mio dèmone domani mi dicevi
sarà il
giorno finita la clausura di cercar
ventura,
io consumo l’attesa passando
il
ponte e tu sei pronto a uccidere l’illusa
speranza
un’altra volta senza averne
pietà»,
negli occhi stupefatti è pura
luce il
fiume la città corpo segnato
per secoli
paziente si dispone al nuovo
giorno.
Francesco Dalessandro è nato
nel 1948, vive a Roma. Ha pubblicato i libri di poesia: I giorni dei santi di ghiaccio (Barbablù, Siena 1983); L’osservatorio (Caramanica, Marina di
Minturno 1998 e in seconda edizione Moretti & Vitali, Bergamo 2012); Lezioni di respiro (Il Labirinto, Roma,
2003); La salvezza (Il Labirinto,
Roma, 2006); Ore dorate (Il
Labirinto, Roma, 2008), Aprile degli anni (Puntoacapo, Novi
Ligure, 2010); Gli anni di cenere, (Associazione culturale ‛La Luna’,
Sant’Elpidio a Mare, 2010, con un’incisione di Michela Sperindio), e Primo
maggio nel Pineto (Stamperia d’arte Il Bulino, 2012, con disegni di Silvia
Stucky). Ha tradotto dal latino, dall’inglese e dallo spagnolo. Dall’inglese ha
tradotto e pubblicato alcuni importanti classici della poesia otto-nocecentesca
(tra cui George Byron, John Keats, Elizabeth Barrett Browning, Gerard Manley
Hopkins, Wallace Stevens); ha pubblicato di recente 42 sonetti di William
Shakespeare scelti da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Ladro gentile (Il
Labirinto, Roma, 2014). Cura il blog http://poesiesenzapari.blogspot.com/
Alcuni
siti consultabili per maggiori notizie o letture di testi:
Mi fa molto piacere constatare che Stefano Guglielmin nel suo 'prezioso blog' ci faccia dono di una così mirabilmente argomentata recensione a "L'osservatorio" di Francesco Dalessandro. poeta che conosco da tempo e di cui ho avuto modo di leggere e studiare anche le raccolte precedenti. Guglielmin sottolinea acutamente un aspetto fondamentale della poesia di Dalessandro: la cognizione del dolore, ma di un "dolore sentimentale, più che eroico", così come coglie l'atmosfera crepuscolare in cui la poesia di Dalessandro "si avvolge fra languori, foschie e sudari". Ripercorre altresì l'iter poetico del nostro autore, il suo sodalizio con poeti quali Attilio Bertolucci, Gianfranco Palmery e Carlo Bordini, poeta quest'ultimo cui mi sono avvicinata da poco il quale, anche a mio avviso, a differenza di Dalessandro,"usa, con più frequenza il pedale della metafora" e una disincantata tragica ironia.(Per inciso l'ironia è secondo me preziosa alleata della poesia). Ma, tornando alle riflessioni di Guglielmin, nella poesia di Dalessandro "non c'è spazio per la pausa", il ritmo è serrato e percussivo e aggiungo che l'elemento barocco, il fascino di parole inusitate,desuete,mi rimandano ad aspetti pregnanti della poesia di Beppe Salvia. Opportuno infine il riferimento al sodalizio con Gabriella Sica e ai poeti di "Prato pagano", come anche alla collaborazione con Giovanna Sicari quanto alla rivista "L'Arsenale". Tempi ormai lontani, ma sempre importanti punti di riferimento: quando la poesia è "autentica", attraverso vie misteriose e imprendibili, prima o poi ci raggiunge. Grazie Stefano anche per il valore alto della tua scrittura. Rosa Salvia
RispondiEliminaGrazie Rosa. In un primo momento avevo scritto anch'io il nome di Beppe, poi l'ho tolto per le differenze tra i due poeti. Tu ne sottolinei le somiglianze,e fai bene.
RispondiEliminaGrazie a entrambi. A Guglielmin per la bella nota che apprezzo e ritengo centrata; a Rosa della stima della mia opera e dell'accostamento a Beppe che, lei sa, era mio amico. Francesco
RispondiEliminaNaturalmente il commento non è redazionale. Me ne scuso. francesco
RispondiEliminaBel blog. Bella nota su Dalessandro, uno dei poeti più originali e non scontati della sua generazione. Complimenti a Guglielmin che ha saputo individuarlo e riconoscerlo.
RispondiEliminaSi nominano nella nota altri due poeti, Alessandro Ricci e Carlo Bordini che, insieme a Dalessandro e ai milanesi Giancarlo Pontiggia e Umberto Fiori, sono tra i più originali della loro generazione. In ognuno di essi l’originalità è del fare (poetico, s’intende).
In Pontiggia è originale la sua poetica classica e luminosa: chi altri ha un'idea così esclusiva e poi la mette in opera così convintamene?
Ricci è un classico fuori tempo. La sua classicità è nel pensiero, non di parole; che sia lontano anni luce dalla poesia ripiegata in se stessa che circola e che conosciamo pochi lo sanno.
Lo stile straniato fa l’originalità di Bordini: egli è spesso spiazzante; con le sue ripetizioni, piccole aggiunte e sovrapposizioni, ebbre e deliranti a volte, arriva al nucleo del discorso, a quel che vuole dire e coglie quasi sempre nel segno.
Fiori fa una poesia assolutamente fuori schema, una poesia dell’indeterminatezza dove i protagonisti sono degli anonimi metropolitani in una metropoli deserta di senso che egli rende con stile curato, essenziale e di sorprendente tenuta.
E infine il protagonista di queste note, Dalessandro, si rende originale in virtù della sua cura della forma, per quel flusso – che nota anche Guglielmin – ipnotico ma sorvegliatissimo, e per la circolarità del tempo poetico, per i suoi passi sempre in avanti: poesia fatta camminando, ecco.
Non sto dicendo che sono i più bravi (ma sono bravi poeti, non c’è dubbio), ma sto parlando di originalità, ripeto. E del resto mi rendo conto che dette così, senza una vera giustificazione critica che le avvalori, queste cose susciteranno più di una perplessità, ma – non avendo qui né lo spazio né il tempo, per proporne una – invito ognuno a rifletterci con attenzione e senza pregiudizi. Per quel che mi riguarda cercherò, prima o poi, di articolare questo giudizio.
Come si vede non si tratta di nomi altisonanti, né universalmente riconosciuti, ma –escludendo tromboni e tromboncini della neo e neo-neo avanguardia, la cui originalità è solo frutto di calcolo – sono certamente essi ad avere un’originalità stilistica inimitabile e inimitata.
Se certi poeti che vanno per la maggiore trovano tanto ascolto e vengono giudicati fra i migliori in attività, pubblicando con editori nazionali e ottenendo un’attenzione assolutamente sproporzionata alle loro capacità e alle loro forze, viene da dire, mentre poeti come Dalessandro lo apprezzano appena un manipolo di lettori, quasi tutti suoi amici e conoscenti, mentre lettori di poesia e critici (per quel che valgono) lo ignorano… be’, non c’è molto da sperare. Per non dir nulla di Ricci, del quale, credo la stessa esistenza, sia stata ignorata (e tuttora lo sarebbe, non fosse per la cura affettuosa proprio di Dalessandro).
Domenico
Grazie per il commento. Su Ricci conto di scrivere qualcosa entro la finedell'anno.
EliminaSui "tromboni" della neo-neo avanguardia, non semplificherei, salvando una poetica e negando l'altra. ci sono poeti bravi da entrambe le parti (per quanto la neo-neo avanguardia mi sembri sia una definizione tutta da verificare)
Sono completamente d'accordo con te, Stefano. Ciao! Rosa
EliminaNon posso che ringraziare Domenico che mi gratifica così ampiamente e mi accomuna ad altri poeti che stimo e apprezzo. Fa sempre piacere sentirsi dire che si è bravi, qualunque sia il mestiere che si fa. Se altri la pensino come lui, non so dire, ma ringrazio ognuno dei possibili lettori, miei e di questa nota di Guglielmin. Aggiungo solo che Domenico ha dimenticato Beppe Salvia, il quale sarebbe certo diventato il migliore di tutti, se non avesse deciso altrimenti. FD
RispondiEliminaDa più parti vengo sollecitato a dire qualcosa circa l'accostamento che Stefano Guglielmin fa fra me e Gabriella Sica. Premetto che è del tutto legittimo che Stefano individui fra me e l'amica Gabriella una - per dirla con Petrarca - somiglianza d'ingegno: in fin dei conti, c'è e non lo nego, anzi mi fa piacere che sia così. Tuttavia, all'epoca in cui i tanti amici di "Braci" e di "Prato pagano" (insieme a Gabriella, che allora conoscevo appena, Salvia, Scartagiande, Goroni, Damiani) io militavo - uso il verbo in senso improprio, perché nessuno di noi si è mai sentito un militare o militante, sia pure della Poesia) in un'altra rivista, "Arsenale", fondata più o meno negli stessi anni con Palmery, Magrelli, Sicari, Ricci e altri. La differenza fra le due riviste non era certo abissale, ma mentre "Braci" e "Prato pagano" erano impegnate in una sorta di restaurazione della lingua, noi di "Arsenale" la davamo per già fatta e andavamo in cerca di esiti che la avvalorassero, e non solo tra noi. Per semplificare, loro facevano una rivista di "tendenza", la nostra era interessata alla "conoscenza". Che di "Arsenale" pochi si ricordino, mentre di "Braci" e di "Prato pagano" si parli ancora, non è dopotutto inusuale: la ricerca suscita sempre un interesse maggiore. Eppure, su tutte e tre le riviste fecero il loro esordio poeti poi divenuti importanti.
RispondiEliminaFrancesco
Al di là della contingenza militante, se è vero quanto scrivo su Dalessandro, ossia che egli "recupera la meraviglia verso il creato, il senso pagano di appartenenza alle forze ctonie (declinato in senso sentimentale), il valore sacro dell’amicizia, la ricerca di un verso disteso, musicale e tendenzialmente endecasillabo", allora la vicinanza con la Sica c'è. Questo non significa che ciascuno declini poi la propria finitezza in modo differente. Non si tratta di epigonismo, infatti,
RispondiElimina