lunedì 28 maggio 2012

Marco Furia su "Il secondo bene" di Flavio Ermini



La scrittura dell’essere

Una continua metamorfosi, un’ininterrotta trasformazione: questo, a mio avviso, il tema dell’intenso volume “Il secondo bene – Saggio sul compito terreno dei mortali” di Flavio Ermini.
L’autore riconosce l’ampia portata dell’enigma, ma non si arrovella nella ricerca di una risposta, poiché il suo interesse è rivolto a qualcosa di più ampio, tale da comprendere il mistero senza esaurirsi in esso.
Nelle sue parole, nei suoi accenti scanditi con peculiare intensità, avvertiamo distintamente la presenza di un intimo e incessante movimento, capace di farsi ritmo, misura di una cadenza non rinunciataria, tenace.
La piena consapevolezza dell’impossibilità di porsi al di fuori del linguaggio non provoca scoraggiamento o silenzio, piuttosto è origine di un fecondo impulso a continuare, a porre in essere stili di scrittura e di vita.
La congiunzione “e” può qui trarre in inganno, poiché i due termini, pur differenti, sono strettamente connessi.
È possibile scrivere la vita?
Questa domanda richiede, più che una risposta, un atteggiamento, una prassi, un esserci assieme alla lingua.
Il poeta – saggista si accorge ben presto che l’arduo lavoro di distillazione delle forme verbali non è soddisfacente, che quell’attività per lui è soltanto propedeutica, preliminare.
Le parole, certo, vanno scelte ma, soprattutto, vanno vissute.
Vivere le parole è impresa priva di termine.
Il Nostro sa bene di poter raggiungere soltanto risultati intermedi, sa bene che le sue pronunce, per quanto perfette, non raggiungeranno mai una forma definitiva, sa bene, insomma, che l’uomo può conoscere, ma non può esaurire la conoscenza.
Non esiste un immenso contenitore di cui, col tempo, riusciremo a individuare tutto il contenuto, perché quel contenitore siamo noi che senza sosta ci modifichiamo.
Ogni istante muta un mondo mai delineato una volta per sempre.

“Il vivente che scrive si sposta al centro del fiume dell’esperienza inventiva senza perdere di vista i richiami di ciascun argine, pur nella consapevolezza che tali presenze sono sempre parziali definizioni dell’esistente, nessuna delle quali potrà aspirare all’assolutezza”.

Il Nostro costruisce il suo percorso passo dopo passo, proponendo sequenze verbali aperte, aliene da qualsiasi progetto di rigida definizione: non si tratta, per lui, di legare indissolubilmente tratti ad altri tratti, bensì di illuminarli durante la loro autonoma esistenza.
La responsabilità, nel suo caso, consiste nel non ignorare, neppure per un attimo, un vivido desiderio di libertà per nulla generico o superficiale, estremamente preciso, attento a ogni singolo aspetto eppure mai dimentico di un coinvolgente senso dell’infinito.
Il valore profondo della parola emerge così quasi spontaneamente per via di un vigile sentimento di scrupolosa affettività, capace di generare un racconto interno e nello stesso tempo esterno che, alla fine, non è nemmeno più tale in senso stretto, perché tendenzialmente è.
Non siamo al cospetto di un (complesso) lavoro di composizione e scomposizione, di un tipo di ricerca tipica di certi (pur affascinanti) giochi, bensì alla non facile
costruzione di un’entità linguistica che chiede al lettore un impegno almeno simile a quello di chi ha considerato lo scrivere, anziché una mera forma, un vero e proprio campo di vitale energia.
L’essere, ovviamente tale anche in virtù del suo contrario, è precipuo interesse di Flavio Ermini:

“Ha significato invece captare l’essenza metamorfica dell’esistente”.

                                                                                                      Marco Furia


Estratti da “Il secondo bene” di Flavio Ermini



  LA CASA NATALE
  
Le diverse età dell’essere umano sono custodite da case che si costituiscono da sole, una accanto all’altra. L’ultima, quella della maturità, è sempre la più imponente, mentre le altre vanno stemperandosi col tempo nell’immaterialità dei pensieri. Ma non tutte. La casa natale rimane inalterabile, tanto che la corda dei giorni si sfibra continuamente alle sue fondamenta senza mai spezzarsi.
  C’è un varco dal quale possiamo rivedere, in tutta la loro naturalezza, le nostre prime esperienze. Lì è ancora possibile opporre all’artiglio troppo penetrante della razionalità il diritto dell’immaginazione. Su questa soglia, ogni metallo che dapprima era forgiato in lama tagliente ora suona nella purezza dell’indeterminato.
  La casa natale è un seme inestinguibile, fonte di luci e ombre, di contraddizioni e turbamenti. È la casa in cui si torna per essere se stessi. Dove ogni colore è comparabile a un colore dell’aquilone.
  Ci ricorda la polvere dell’effimero. Sta davanti alla nostra meraviglia per aiutarci ad apprezzare le sensazioni che hanno breve durata, per invitarci a scendere a capofitto in una parte intatta del mondo.
  Queste emozioni sembrano dileguare nel nulla al solo battito delle nostre ciglia. Sembrano fatte per durare un istante, come i fiammiferi di Andersen.
  In realtà, tutto ciò che si era pietrificato ritrova voce. Il grido dal quale ogni felicità è caduta incontra un sussulto di felicità.




  L’IGNOTO
 
La spiaggia, l’entroterra, il bosco, le terre circostanti. Dopo il naufragio ci si inoltra in questi luoghi per tornare a smarrirsi nell’ignoto.
  Nelle terre circostanti ancora non s’intravede che a tratti il paesaggio urbano, avvolto com’è in una fitta nebbia.
  Per questo è giusto aprire alla nostra immaginazione la terra che grazie a un veliero abbiamo abbandonato. Quella del tempo in cui la vita elargiva sensazioni per coprire ogni cosa di polvere d’oro.
  Nelle terre circostanti l’urlo è uguale al silenzio e non coincide più con la voce dell’anima.
  Sottrarsi all’esilio per riconoscere la terra di cui non si ha memoria significa accostarsi a quel varco dal quale possiamo rivivere, in tutta la sua naturalezza, la nostra prima esperienza: l’ascolto della voce dell’anima.
  Normalmente evitiamo alla nostra coscienza di aprirsi a ciò che più profondamente la determina, e soprattutto le impediamo di riconoscere che quanto la distingue – e la spaventa – è dentro di noi, quale sfondo pre-umano da cui un giorno ci siamo emancipati, mettendo a soqquadro il mondo, anche se non per sempre e mai definitivamente.
  Non si ha memoria delle terre dalle quali si parte su un veliero destinato al naufragio; siano esse caratterizzate da un giardino o da pericolanti macerie; siano esse un fenomeno della realtà o dell’illusione …
  Sarà proprio l’avventurarsi del vivente dotato di parola nelle profondità interiori che renderà evidente la definitiva lacerazione tra l’io e il mondo.
  E non importa se da un certo punto in poi non ci sarà ritorno. “È questo il punto da raggiungere” asserisce Kafka. E pazienza se dopo rimarranno soltanto ceneri.




  GLI ECHI DI UN GRIDO
 
L’essere dotato di parola e la natura: la parola poetica si dipana come un tratto solare tra queste due entità, così distanti tra loro, e giunge a farci conoscere la fratellanza che – all’aurora del mondo – le univa, come accadeva a tutti i contrari.
  Lo annuncia quella luce che riesce a dislocare la natura  nel cuore della parola, tornando così a invadere i sensi dell’essere umano.
  In questo percorso è evidente il senso di vertigine in cui si articola la lingua poetica, che si sviluppa per continue aggiunzioni di frasi sospese, echi di un grido, ripetizioni avvolgenti. Molte curvature inseguono un pensiero che si sviluppa man mano nel flusso delle parole.
  Ci troviamo di fronte a una mobilità che può espandersi in ogni direzione, inseguendo la sorpresa di pronunciare una parola che fino a quel momento non si pensava. La natura si fa presente come evento prelinguistico che dà al pensiero da pensare.




  LA CRITICA SOCIALE
 
La tecnologia ci fa assistere a un movimento di spazi architettonici contigui, sovrapposti, in espansione, in attrito, in forte opposizione.
  Nell’osservarne il movimento si può parlare di antidialettica, di prevaricazione, di imposizione e appropriazione indebita; si può pensare a libertà puramente formali, a squilibri enormi.
  Spazi in pullulazione, spazi dilaganti, spazi preminenti, spazi soffocati: nulla è qui in vitale germinazione, ma in lotta per il raggiungimento di posizioni privilegiate.
  Un’invariante tonale aggrega le forme e le ottunde, confinandole in un’atmosfera di negazione.
  Rompere e respingere questa negatività, questo continuo illecito, è il compito di chi sente la critica sociale come una premessa all’azione: un vero e proprio insorgere che, una volta iniziato, dovrà essere perseguito anche se lo scontro sarà serrato e molto incerto nel suo esito finale.




  LA TERRA DI FRONTIERA

Ogni parola, se sappiamo ascoltarla, chiama dall’essere silenzioso della cose. Intorno al mistero del silenzio – e al sussurro che dal silenzio si leva a ogni inizio del tempo – tesse la sua frase e procede verso il dire.
  La frase è terra di frontiera tra le cose e il vivente umano. In questo “tra”, la parola non contiene più solo la parola, ma anche il silenzio, e le cose permangono nella loro originaria vitalità.
  Il dire è il luogo della coincidenza tra silenzio del possibile e sussurro, ma è anche luogo della metamorfosi, che si aggiunge alla creazione del mondo per sostanziare la vita.
  Essere chiamati alla parola significa dover dire per poter essere.
Ecco perché la via alla parola non conduce semplicemente da un luogo a un altro, da un senso all’altro, ma ci porta ad appartenerle.


Flavio Ermini, “Il secondo bene”, Moretti&Vitali, 2012, pp. 207, euro 18,00
                               

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