La scrittura dell’essere
Una continua metamorfosi,
un’ininterrotta trasformazione: questo, a mio avviso, il tema dell’intenso
volume “Il secondo bene – Saggio sul compito terreno dei mortali” di Flavio
Ermini.
L’autore riconosce l’ampia
portata dell’enigma, ma non si arrovella nella ricerca di una risposta, poiché
il suo interesse è rivolto a qualcosa di più ampio, tale da comprendere il
mistero senza esaurirsi in esso.
Nelle sue parole, nei suoi
accenti scanditi con peculiare intensità, avvertiamo distintamente la presenza
di un intimo e incessante movimento, capace di farsi ritmo, misura di una
cadenza non rinunciataria, tenace.
La piena consapevolezza
dell’impossibilità di porsi al di fuori del linguaggio non provoca
scoraggiamento o silenzio, piuttosto è origine di un fecondo impulso a
continuare, a porre in essere stili di scrittura e di vita.
La congiunzione “e” può qui
trarre in inganno, poiché i due termini, pur differenti, sono strettamente
connessi.
È possibile scrivere la vita?
Questa domanda richiede, più che
una risposta, un atteggiamento, una prassi, un esserci assieme alla lingua.
Il poeta – saggista si accorge
ben presto che l’arduo lavoro di distillazione delle forme verbali non è
soddisfacente, che quell’attività per lui è soltanto propedeutica, preliminare.
Le parole, certo, vanno scelte
ma, soprattutto, vanno vissute.
Vivere le parole è impresa priva
di termine.
Il Nostro sa bene di poter
raggiungere soltanto risultati intermedi, sa bene che le sue pronunce, per
quanto perfette, non raggiungeranno
mai una forma definitiva, sa bene, insomma, che l’uomo può conoscere, ma non
può esaurire la conoscenza.
Non esiste un immenso contenitore
di cui, col tempo, riusciremo a individuare tutto il contenuto, perché quel
contenitore siamo noi che senza sosta ci modifichiamo.
Ogni istante muta un mondo mai
delineato una volta per sempre.
“Il vivente che scrive si sposta
al centro del fiume dell’esperienza inventiva senza perdere di vista i richiami
di ciascun argine, pur nella consapevolezza che tali presenze sono sempre
parziali definizioni dell’esistente, nessuna delle quali potrà aspirare
all’assolutezza”.
Il Nostro costruisce il suo
percorso passo dopo passo, proponendo sequenze verbali aperte, aliene da
qualsiasi progetto di rigida definizione: non si tratta, per lui, di legare
indissolubilmente tratti ad altri tratti, bensì di illuminarli durante la loro
autonoma esistenza.
La responsabilità, nel suo caso,
consiste nel non ignorare, neppure per un attimo, un vivido desiderio di
libertà per nulla generico o superficiale, estremamente preciso, attento a ogni
singolo aspetto eppure mai dimentico di un coinvolgente senso dell’infinito.
Il valore profondo della parola
emerge così quasi spontaneamente per via di un vigile sentimento di scrupolosa
affettività, capace di generare un racconto interno e nello stesso tempo
esterno che, alla fine, non è nemmeno più tale in senso stretto, perché
tendenzialmente è.
Non siamo al cospetto di un
(complesso) lavoro di composizione e scomposizione, di un tipo di ricerca tipica
di certi (pur affascinanti) giochi, bensì alla non facile
costruzione di un’entità
linguistica che chiede al lettore un impegno almeno simile a quello di chi ha
considerato lo scrivere, anziché una mera forma, un vero e proprio campo di
vitale energia.
L’essere, ovviamente tale anche in virtù del suo contrario, è precipuo
interesse di Flavio Ermini:
“Ha significato invece captare
l’essenza metamorfica dell’esistente”.
Marco Furia
Estratti da “Il secondo bene” di
Flavio Ermini
LA CASA NATALE
Le diverse età dell’essere umano sono custodite da case che si
costituiscono da sole, una accanto all’altra. L’ultima, quella della maturità,
è sempre la più imponente, mentre le altre vanno stemperandosi col tempo
nell’immaterialità dei pensieri. Ma non tutte. La casa natale rimane
inalterabile, tanto che la corda dei giorni si sfibra continuamente alle sue
fondamenta senza mai spezzarsi.
C’è un varco dal quale possiamo rivedere, in tutta la loro naturalezza,
le nostre prime esperienze. Lì è ancora possibile opporre all’artiglio troppo
penetrante della razionalità il diritto dell’immaginazione. Su questa soglia,
ogni metallo che dapprima era forgiato in lama tagliente ora suona nella
purezza dell’indeterminato.
La casa natale è un seme inestinguibile, fonte di luci e ombre, di
contraddizioni e turbamenti. È la casa in cui si torna per essere se stessi.
Dove ogni colore è comparabile a un colore dell’aquilone.
Ci ricorda la polvere dell’effimero. Sta davanti alla nostra meraviglia
per aiutarci ad apprezzare le sensazioni che hanno breve durata, per invitarci
a scendere a capofitto in una parte intatta del mondo.
Queste emozioni sembrano dileguare nel nulla al solo battito delle
nostre ciglia. Sembrano fatte per durare un istante, come i fiammiferi di
Andersen.
In realtà, tutto ciò che si era pietrificato ritrova voce. Il grido dal
quale ogni felicità è caduta incontra un sussulto di felicità.
L’IGNOTO
La spiaggia, l’entroterra, il
bosco, le terre circostanti. Dopo il naufragio ci si inoltra in questi luoghi
per tornare a smarrirsi nell’ignoto.
Nelle terre circostanti ancora non s’intravede che a tratti il paesaggio
urbano, avvolto com’è in una fitta nebbia.
Per questo è giusto aprire alla nostra immaginazione la terra che grazie
a un veliero abbiamo abbandonato. Quella del tempo in cui la vita elargiva
sensazioni per coprire ogni cosa di polvere d’oro.
Nelle terre circostanti l’urlo è uguale al silenzio e non coincide più
con la voce dell’anima.
Sottrarsi all’esilio per riconoscere la terra di cui non si ha memoria
significa accostarsi a quel varco dal quale possiamo rivivere, in tutta la sua
naturalezza, la nostra prima esperienza: l’ascolto della voce dell’anima.
Normalmente evitiamo alla nostra coscienza di aprirsi a ciò che più
profondamente la determina, e soprattutto le impediamo di riconoscere che
quanto la distingue – e la spaventa – è dentro di noi, quale sfondo pre-umano
da cui un giorno ci siamo emancipati, mettendo a soqquadro il mondo, anche se
non per sempre e mai definitivamente.
Non si ha memoria delle terre dalle quali si parte su un veliero
destinato al naufragio; siano esse caratterizzate da un giardino o da
pericolanti macerie; siano esse un fenomeno della realtà o dell’illusione …
Sarà proprio l’avventurarsi del vivente dotato di parola nelle
profondità interiori che renderà evidente la definitiva lacerazione tra l’io e
il mondo.
E non importa se da un certo punto in poi non ci sarà ritorno. “È questo
il punto da raggiungere” asserisce Kafka. E pazienza se dopo rimarranno
soltanto ceneri.
GLI ECHI DI UN GRIDO
L’essere dotato di parola e la
natura: la parola poetica si dipana come un tratto solare tra queste due
entità, così distanti tra loro, e giunge a farci conoscere la fratellanza che –
all’aurora del mondo – le univa, come accadeva a tutti i contrari.
Lo annuncia quella luce che riesce a dislocare la natura nel cuore della parola, tornando così a
invadere i sensi dell’essere umano.
In questo percorso è evidente il senso di vertigine in cui si articola
la lingua poetica, che si sviluppa per continue aggiunzioni di frasi sospese,
echi di un grido, ripetizioni avvolgenti. Molte curvature inseguono un pensiero
che si sviluppa man mano nel flusso delle parole.
Ci troviamo di fronte a una mobilità che può espandersi in ogni
direzione, inseguendo la sorpresa di pronunciare una parola che fino a quel
momento non si pensava. La natura si fa presente come evento prelinguistico che
dà al pensiero da pensare.
LA CRITICA SOCIALE
La tecnologia ci fa assistere a
un movimento di spazi architettonici contigui, sovrapposti, in espansione, in
attrito, in forte opposizione.
Nell’osservarne il movimento si può parlare di antidialettica, di
prevaricazione, di imposizione e appropriazione indebita; si può pensare a
libertà puramente formali, a squilibri enormi.
Spazi in pullulazione, spazi dilaganti, spazi preminenti, spazi
soffocati: nulla è qui in vitale germinazione, ma in lotta per il
raggiungimento di posizioni privilegiate.
Un’invariante tonale aggrega le forme e le ottunde, confinandole in
un’atmosfera di negazione.
Rompere e respingere questa negatività, questo continuo illecito, è il
compito di chi sente la critica sociale come una premessa all’azione: un vero e
proprio insorgere che, una volta iniziato, dovrà essere perseguito anche se lo
scontro sarà serrato e molto incerto nel suo esito finale.
LA TERRA DI FRONTIERA
Ogni parola, se sappiamo
ascoltarla, chiama dall’essere silenzioso della cose. Intorno al mistero del
silenzio – e al sussurro che dal silenzio si leva a ogni inizio del tempo –
tesse la sua frase e procede verso il dire.
La frase è terra di frontiera tra le cose e il vivente umano. In questo
“tra”, la parola non contiene più solo la parola, ma anche il silenzio, e le
cose permangono nella loro originaria vitalità.
Il dire è il luogo della coincidenza tra silenzio del possibile e
sussurro, ma è anche luogo della metamorfosi, che si aggiunge alla creazione
del mondo per sostanziare la vita.
Essere chiamati alla parola significa dover dire per poter essere.
Ecco perché la via alla parola
non conduce semplicemente da un luogo a un altro, da un senso all’altro, ma ci
porta ad appartenerle.
Flavio Ermini, “Il secondo
bene”, Moretti&Vitali, 2012, pp. 207, euro 18,00
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