Nel 2010,
Interlinea ha dato alle stampe Opere, un volume meritorio su Giannino di
Lieto (1930-2006), punto d'arrivo di una riscoperta iniziata con il convegno
sul poeta campano che si svolse a Minori (prov. di Salerno) nel 2007, i cui
atti uscirono con il titolo Giannino di Lieto. La ricerca di forme nuove del
linguaggio poetico (Anterem, 2008). Nel saggio che apre Opere (già
incluso negli Atti), Giorgio Barberi Squarotti affronta le ragioni
fondanti di una scrittura – in particolare quella che di Lieto produsse negli
anni settanta – che nel complesso, dice, offre "un enorme, popolarissimo,
babelico museo", finalizzato a "esemplificare" l'inutilità del
tutto. Un'inutilità, aveva prima precisato, preesistente all'apocalisse di cui
siamo superstiti e che di Lieto descrive, come un Beckett italiano, mostrandosi
in conflitto non soltanto con il neocapitalismo, ma anche con la posizione borghese
della neoavanguardia.
Ci sono altre
possibili letture di questa operazione per accumulo presente da Punto di
inquieto arancione a Racconto delle figurine & Croce di Cambio;
gli Atti ne mettono in piedi alcune, spesso sostenute da critici
sintonici alla sperimentazione (penso, fra gli altri, a Ermini, Cappi, Lanuzza,
Ferri e Fontanella). La mia è la seguente: gli innumerevoli aggregati
linguistici, ibridamente organizzati e perturbanti, che paiono collocati nel
lato oscuro della luna, un lato ariostesco quanto pinkfloydiano, arcaicamente
ordinato eppure caotico, insieme pop e jazz, non mi sembrano una raccolta di
emblemi dell'invivibilità occidentale, bensì esistenze, enti che malgrado tutto
vivono, se non più con onore in terra, almeno con grande dignità nella
scrittura. Sono enti particolari, tuttavia, segni ordinati in sequenze (per
esempio: «nulla è dato ciò che avanza piomba in ballate da un soldo»), la cui
funzione vale, in prima battuta, per la forza reliquiaria del metro, che
diventa teca in cui si esibisce non materiale inerte, bensì, per via esemplare,
l'imprendibilità del discorso non ancora conformato, comunicativo. Poesia, in
questo senso, non dialoga esplicitamente con la tradizione colta né con alcuna
altro recinto, alto o basso che sia; semplicemente è la via più diretta per
mantenere viva una lingua nei suoi snodi pregrammaticali e preideologici. Così
come avevano fatto i dadaisti e i surrealisti, di Lieto salvaguardia quanto la
specie umana ha prodotto, il linguaggio, prima che diventi strumento di
persuasione e, dunque, di potere. Ce lo presenta come materia ostile, non
maneggiabile, e per questo indigesta alla lettura, che tiene alla larga il
consumatore frettoloso di messaggi, il cercatore di verità confezionate.
Giovannino di Lieto riporta dunque la lingua alla sua alterità, quella che
agisce sulle strutture subliminali, sul simbolico prima che sull'economico, una
lingua che esce dalle crepe del senso, impedendoci di riordinarlo, così
lasciandoci nella ferita che ci accompagna dalla nascita, nell'estraneità che
ci costituisce, agendo per noi nella forma della pulsione, del desiderio, della
mancanza. Come uno specchio, questi testi rimandano la nostra immagine
frantumata e la rimettono in movimento verso un'impossibile ricomposizione, mai
esaustiva. C'è molto Lacan in questo progetto, e Zanzotto. E la cultura
italiana più importante degli anni sessanta-primisettanta. Per quanto
alimentata dallo stesso autore (cfr. gli Atti, p.35: «Il "Gruppo
63" riconsegna anzitempo il gonfalone al "Palazzo"»), trovo
fuorviante la contrapposizione messa in opera da Barberi Squarotti tra
neoavanguardia e di Lieto, negando valore alla prima per esaltare l'autenticità
del secondo. E ciò al di là degli effettivi rapporti, pare non idilliaci, tra
il gruppo e l'autore. A me pare,
invece, che la relazione tra linguaggio e ideologia, la consapevolezza
autoironica tanto del Nostro quanto di Sanguineti, Balestrini e Giuliani,
l'idea che il lettore debba diventare soggetto agente anziché mero consumatore
passivo (di Lieto: «L'inconscio [...] riconduce l'altro, cioè il Lettore
alla sua ineliminabile 'parte' del fenomeno Comunicazione»), attestino
la vicinanza di questa poesia non soltanto con la neoavanguardia, ma con tutta
la tradizione europea che opera sul significante, per quanto appunto di Lieto
rivendicasse con orgoglio la propria inappartenenza consortile («questa poesia
– scrive in Processione impiegatizia dei concetti – non ha Padri, non ha
Modelli [...] non ha maestri, ripudia gli imitatori, non cerca adepti»),
ironizzando sui «Nobili codini al Circolo [che] parlano della prossima partita
di caccia mentre a Parigi assaltano la Bastiglia». Dello stesso parere è Luigi
Fontanella, nel saggio che chiude il libro, il quale allarga la rete di
relazioni nostrane, aggiungendo il lavoro di "Tam Tam" (non a caso Nascita
della terra uscì presso Geiger) e quello delle riviste campane e di autori come
Stelio Maria Martini e Luciano Caruso.
Quanto scritto
finora, se da un verso intende storicizzare l'opera di Giannino di Lieto
all'interno di una koinè in forte debito con la cultura antagonista del primo
novecento e in dialogo con le neoavanguardie italiane, apre a una questione
decisiva rispetto alla poesia italiana contemporanea: la possibilità di
praticare ancora oggi una scrittura che Fontanella descrive come un «intreccio
semiautomatico di ciò che [di Lieto] chiamerà 'correnti di esposizione', dove
la fuga-di-parole e le parole-in-fuga, insieme alla dimensione onirica,
determinano un turbinìo verbale al limite della sua stessa espressività». Tale
procedimento tiene in effetti aperti i canali pulsionale e ludico, ma soltanto
all'interno di una condivisione preliminare ed elitaria delle regole del gioco
tra autore e lettore; operazione necessaria negli anni sessanta e settanta,
quando i mass-media stavano impossessandosi dell'intero sistema comunicativo,
trasformando il popolo in pubblico, ma, oggi che il processo si è compiuto,
inefficace non soltanto perché non entra in nessuna crepa del sistema, troppo
organizzato per esserne scalfito, ma soprattutto perché avvertita ostile dagli
stessi consumatori che vorrebbero ritornare ad essere popolo o esserlo per la
prima volta. Detto altrimenti: lo sperimentalismo delle neoavanguardie, nel
quale inserisco anche il di Lieto degli ultimi trent'anni del secolo scorso,
sino a Le cose che sono, è stato senz'altro necessario per uscire dalla sacche del tardo-romanticismo ermetico, ma ora
mi sembra inadeguato ai bisogni del migliore pubblico della poesia che, in quanto tale –
proprio per aver scelto di essere pubblico della poesia – resiste
all'omologazione dei consumi, scegliendo appunto quei beni – i testi poetici –
capaci di approfondire autenticamente il senso del presente, pubblico e
privato. Per questa ragione credo sia oggi più importante un scrittura che sposti
la mira dal pulsionale all'emotivo-sentimentale (sfera inquinatissima dallo
stereotipo), dalla decostruzione del significante alla ricostruzione del
significato, accorta tuttavia del fatto che quest'ultimo non è mai dato a
priori, ma si organizza in un sistema fragile, dialogico, continuamente da
verificare, in cui pensiero ed emozione fanno corpo comune: soltanto così,
infatti, la violenza del dato, che si impone nella sua cruda e indiscutibile
presenza, si trasforma in non violenza dell'evento, che ha luogo all'interno di
una comunità democratica e perciò antagonista alla dittatura dei linguaggi del
potere totalitario (sia pure il totalitarismo dei consumi), una comunità dove
la poesia diventa palestra in cui nessuno, né l'autore né il lettore, tiene il
bastone. Ed è per questa ragione che trovo di gran valore alcune poesie tarde
di Giovannino di Lieto, rimaste inedite in vita, nella quali il discorso torna
riconoscibile, seppur franto, anzi necessariamente di grado differente sia dal
povero e falsamente integro frasario mass-mediale e sia dalla sua scarsa forza
immaginativa. La novità fu tra l'altro evidente all'autore, il quale, nelle Divagazioni
sul testo che precedono le poesie ora edite sia dagli Atti che in Opere,
rileva nel proprio fare una «Nuova Tendenza [...] fra pazzia visionaria e
l'apocalisse. Ma diversa, in nuce, non meno suggestiva di una prima maniera:
geometricamente precisa, quasi una concezione euclidea». Bene hanno fatto
dunque i critici e i poeti raccolti nei due libri citati a far conoscere questo
autore, il cui percorso – partito con un evidente, seppur talvolta originale,
epigonismo ungarettiano (cfr. Poesie, 1969) – ha arricchito ulteriormente la storia della poesia
italiana contemporanea, agendo con ostinato senso dell'integrità morale e
artistica, tanto da rimanere ai margini del sistema letterario.
Rilancio la sua
lettura su Blanc de ta nuque, sperando di contribuire alla sua sistemazione
storiografica e a tenere aperta la discussione sulle poetiche contemporanee.
Nel blog di Francesco Marotta poesie tratte dal libro e un'interessante lettura di Flavio Ermini.
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