Il riferimento è alle poesie (ne posto qui alcune) uscite sul .n.265 di "Poesia" (novembre 2011) a cura di M.G. Calandrone. La loro lettura ha suggerito a Giovanni Fierro il commento che segue. Lo ringrazio per il dono.
Dell’amore domestico e oltre
Commento
ad improvvisazione, in sette variazioni sulle poesie di Stefano Guglielmin
Trovo che in queste poesie, la trama di ogni testo, come in
ogni amore, cerca il suono.
Si muove a cercare una intonazione, una possibile chiave
sonora di aperture, un respiro da portare ed esplorare. Anche l’amore, come il
jazz, è improvvisazione.
Così, passo dopo passo, frase dopo frase, il tuo scrivere
stravolge ogni possibile significato, lo fa segno, per dire altro, per
esprimere.
Questa collezione è un paesaggio che si mostra, fatto di
foglie e presenze; dove le piccole cose che si smarriscono, poi a sorpresa
ritornano.
È un luogo di accoglienza, dove maschio e femmina sono
contenti, e per un poco si dimenticano della distanza della loro provenienza.
Qui la luce arriva dalle stelle.
E sotto un silenzio, che a volte è paura e a volte gesto di
coraggio.
Un qualcosa che incide il tempo.
Raccontare l’amore domestico, dopo che è vissuto all’aria
aperta, così in questi scritti non trovo le ‘grandi cose’, forse perché su di
loro c’è più spazio dove la polvere si può depositare, ma le piccole, anche
minute, che sempre per la loro piccolezza, essere miniatura quasi, conservano
pulizia e spazio colpito dalla luce. Ancora luce.
Qui c’è anche, e sempre, una infanzia, da difendere, proprio
dove chiunque altro chiede maturità.
Narri di una sostanza che sfugge al peso specifico, che si
fa peso di sguardo e immagine, con la tentazione di essere luce, o almeno con
la volontà di misurarla.
Così mi chiedo: quando finisce la carne, cosa rimane?
Da te arriva l’ammonimento, il consiglio: bisogna mantenere
viva questa aria, questo ossigeno che fino a che ci fa chiudere gli occhi, ci
fa credere ad amore.
Mi piacciono queste scritture, dove protagonista è lo scrivere
quello che non si capisce, il non significato, il dare forma a ciò che sfugge,
che non è più, già adesso, che già adesso è ancora.
Parole che sono lì, che sono qui, per aspettare il giorno
d’estate che non tiene alla promessa di sole, ed allora è pioggia, da godere a
casa, dentro, vicini, senza l’impegno del guardare il cielo. Ma solo gli occhi.
L’uno con l’altra.
E poi si rinuncia ai colori, li si lasciano andare, si cerca
il disegno, il contorno, il punto dove non tiene, la sbavatura, ecco l’incontro.
Che paura c’è, e si sente, dove il silenzio si lascia
scivolare via, e allora il punto fermo è la mancanza d’amore, che non si
sopporta. Doglia di uno strappo, a volte più semplicemente di una mancanza.
O una faglia, apertura che viene dal profondo, che separa e
fa saltare in aria, terremoto a temperatura alta.
Ma poi a chiudere, il respiro ritorna, magari solo per
essere trattenuto, per avere la coscienza di dire “questa è una preghiera, e
chiedo che sia, ogni volta ed ancora, una cerimonia”.
In limine
Mio amore e doglia e grano
mia faglia fuggita di qua, dal rovo
della bocca, dalla sua mora luce,
cos'altro poco resta da dire
se non di te, fiore del bene
e bianco, che cieca
e a nulla presa, come torto guasto
cadi?
Alla tua quiete salda come il pane
Comincio dall'albero tuo padre
e dal mio, dal lasco che ogni generazione
lascia alle mosche, dalla scucita bocca
che mi pianti sul petto baciandomi il sesso
che è mare e torba e serie infinita di svolte
o numero primo, talvolta. Comincio
da via Baccarini, dai tre mesi casti, torti
come la via infante del rivo o la tua prima vita
molle per troppa sfida al ramo grosso, che ti volle
ragioniera o spago dove stendere il cognome.
E se ti amo è anche per questa tua nascita seconda
per la tempra e l'olio a trent'anni fatti uovo, via maestra
nuova, con cui ora mi semini distratta, io che provo
a starti dietro, pulcino o macchina da terra, io che aro
queste sfinite zolle da infiniti anni e dico che io dovrebbe
spiantarsi, farsi cosa come te abile al frutto, e vera.
Comincio dai miei forse, dal grano della tua
quiete, ferita, sì, ma salda come il pane alla mia
fame, dallo strappo animale
che fa agile l'angelo quando risale
dove l'intero e il buono la bella lingua amano
e dalle donne, in cui mai cercai casa né prato
ma sprofondo e grido
e nulla compagnia che avesse torto in mezzo
dalle donne andate per monossido o corda fissa
come Sofia e Paola o per malattia, incendio, pozza
ago. Comincio scavando
in questo largo solido pozzo, dove aria nera condensa
il dondolio dell'amore, nostro guado e languore
nostro ostaggio, che voce libera
ai mille vicoli del mondo e benedice
il nulla che turba, il tutto chiaro delle parole
in aria, noi due stretti a questa pace tonda
dove cede anche lo strazio, infine
cede la sera.
Noi che per difetto siamo uguali
Tra i benedetti della Standa impari
l'apnea prima della vestizione, quella magrezza
anomala, che sguscia dal paesaggio
e prende quota. Siamo diversamente labili
lo sai, ma prede della stessa fame, grassa
di fughe verso il basso, noi che amiamo l'uno
per finta, mossi da piccole crune
terrestri, e per paura rallentiamo l'uscita
salutando.
Qui qualcosa di Giovanni Fierro.
“Siamo diversamente labili” – anche abili ovviamente – “ma prede della stessa fame”
RispondiEliminache è fame originaria da faglia-doglia (di nascita), dunque di aria
come mi pare osservi più volte Fierro, dandone la lettura anche di “ammonimento” o consiglio che da te arriva (“Da te arriva l’ammonimento, il consiglio: bisogna mantenere viva questa aria”)
fame, e lo dice bene Fierro, che ci fa credere -e tendere - ad amore: “questo ossigeno che fino a che ci fa chiudere gli occhi, ci fa credere ad amore.”
perché amore che è grano (ricchezza) e quindi farina (“fiore del bene / e bianco”) è pane
per la bocca e nella circolarità della bocca che mangia divide e di nuovo nutre di nuovo nascita;
rinascita anche, “nascita seconda” come dici bene di lei ad un certo punto, o di nuovo prima
dove il cominciamento: “Comincio dall'albero tuo padre / e dal mio”
(molto bello questo movimento del “comincio”, oltretutto bellissimo che sia ripetuto nella poesia ad indicare il due che è uno, tuttavia ancora divisibile, anche se unito nella intersezione dei versi,
dicevo molto bello il “comincio” ad indicare sia l’inizio dello scrivere che quello del proprio esistere, quasi a suggerire, perlomeno nel tuo caso, se non la contemporaneità, certamente la comunione delle due cose,
che poi le radici della storia da lì poi partono e gli alberi della narrazione hanno rami di grano lacrime e sangue
perché, e riprendo forse il verso che mi ha colpiao di più di tutti di queste poesie gran belle,
“cos'altro poco resta da dire /se non di te”, il nocciolo, appunto è in quel “poco” (di essenza d’universo che nell’infinitesimale si addensa).
Un grazie a Giovanni Fierro, un grazie a te
Un saluto a tutti
ma quanto brava sei!? Ogni volta che ti leggo, capisco qualcosa in più di me e del mio mondo. Davvero!
RispondiEliminaDue persone che stimo, a cui voglio bene. Nella lettura di uno dell'altro è bello vedere che in poesia non ci si incontra per caso.
RispondiEliminaFrancesco t.
è verissimo! un abbraccio a te!
RispondiEliminaEzra Pound hacía alusión a que no era preciso del todo conocer un idioma para captar la poesía en un determinado texto. Eso me sucede con lo que he visto publicado en este blog: lo que he leído sin entender me parece que tiene profunda sonoridad y musicalidad; la versificación, en general, muy viva y trabajada. Puedo decir que son excelentes poemas los que aquí se publican, tanto en esta entrada como en todo el blog.
RispondiEliminagrazie Kevork.
RispondiElimina