Propongo ai lettori di Blanc questo studio di Daniele Barbieri sulla presenza della paronomasia nella prima poesia di Tiresia, il poemetto recitante di Giuliano Mesa. Il saggio originale lo trovate in Guardare e leggere, il blog del critico bolognese.
I. ornitomanzia. la discarica. Sitio Pangako
vedi. vento col volo, dentro, delle folaghe.
vedi che vengono dal mare e non vi tornano,
che fanno stormo con gli storni neri, lungo il fiume.
guarda come si avventano sul cibo,
come lo sbranano, sbranandosi,
piroettando in aria.
senti come gli stride il becco, gli speroni,
che gridano, artigliando, facendo scaravento, in muta,
ascoltane la lunga parata di conquista, il tanfo,
senti che vola su dalla discarica, l’alveo,
dove c’è il rigagnolo del fiume,
l’impasto di macerie,
dove c’è la casa dei dormienti.
che sognano di fare muta in ali
casa dei renitenti, repellenti,
ricovero al rigetto, e nutrimento, a loro,
scaraventati lì chissà da dove,
nel letame, nel loro lete, lenti,
a fare chicchi della terra nuova,
gomitoli di cenci, bipedi scarabei
che volano su in alto, a spicchi,
quando dall’alto arriva un’altra fame.
vedi che vengono dal mare e non vi tornano,
che fanno stormo con gli storni neri, lungo il fiume.
guarda come si avventano sul cibo,
come lo sbranano, sbranandosi,
piroettando in aria.
senti come gli stride il becco, gli speroni,
che gridano, artigliando, facendo scaravento, in muta,
ascoltane la lunga parata di conquista, il tanfo,
senti che vola su dalla discarica, l’alveo,
dove c’è il rigagnolo del fiume,
l’impasto di macerie,
dove c’è la casa dei dormienti.
che sognano di fare muta in ali
casa dei renitenti, repellenti,
ricovero al rigetto, e nutrimento, a loro,
scaraventati lì chissà da dove,
nel letame, nel loro lete, lenti,
a fare chicchi della terra nuova,
gomitoli di cenci, bipedi scarabei
che volano su in alto, a spicchi,
quando dall’alto arriva un’altra fame.
prova a guardare, prova a coprirti gli
occhi.
Note
I. ornitomanzia. la discarica, Sitio
Pangako.
Nel luglio 2000, la più grande discarica di
Manila frana, seppellendo Sitio Pangako (“Terra Promessa”), una delle
baraccopoli che la circondano, e uccidendo centinaia dei suoi abitanti, che vi
sopravvivevano scavando tra i rifiuti.
Quella che trovate qui sopra (nota compresa)
è la prima sezione di un poemetto di Giuliano Mesa (che
io, tra parentesi, trovo straordinario). [...]
Lo cito perché mi dà l’occasione di portare
avanti il discorso già iniziato sull'allitterazione, passando a una figura retorica ad essa
piuttosto simile, la paronomasia, che rappresenta una componente fondamentale del discorso poetico di Mesa, in
questo componimento come altrove. Potremmo dire della paronomasia quello che
abbiamo già detto dell’allitterazione, cioè che si tratta di un indicatore di
poeticità che non paga lo scotto che pagherebbero le rime e altre figure
retoriche più legate alla tradizione. Ma non solo questa sarebbe (come pure per
l’allitterazione) solo una parte della verità, ma anche (in questo caso) una
parte piuttosto piccola. Mentre infatti l’allitterazione può riuscire a non
farsi osservare da un lettore troppo concentrato sul senso per percepire il
suono, nella paronomasia la ripetizione fonetica e il gioco sonoro sono troppo
forti per poter passare in qualsiasi caso inosservati. Quello che
l’allitterazione cerca di fare sottovoce, insomma, la paronomasia lo fa
ostentandosi, quasi gridando la propria presenza.
“che fanno stormo con gli storni neri”, ”nel letame, nel loro lete, lenti,” e poi ancora vento, dentro, vengono, avventano, nei primi
versi del componimento: sono tutte corrispondenze sonore troppo forti per
sfuggire persino al lettore meno attento. Certo, rappresentano per questo delle
marcature di rilievo molto decise, delle accentuazioni estremamente marcate –
ma sono talmente intense, in verità, da sfiorare l’eccessivo, da suggerire che
il suono possa essere più forte del senso, come una sorte di gioco alla
ricorrenza, di uso più sonoro che semantico della parola. È quello che succede,
per esempio, in molti lavori di Gabriele Frasca, che a quelli di Mesa
assomigliano proprio per un certo uso sonoro della parola.
Mentre però in Frasca il gioco sembra fermarsi lì, giustificando
una diffusa sensazione di manierismo, di dilagante nonsensicalismo, in Mesa, né
qui né altrove, si riceve mai la stessa impressione. Non c’è nulla che si fermi lì, in questi giochi
di parole: sia lo stormo che gli storni sono pertinenti, qui, e anche illetame a fianco del lete, e così via. Il
sospetto del gioco di superficie si trova fugato ancora prima di riuscire a
formarsi davvero nel lettore. E così, senza dubbio, le parole ci appaiono
drammatiche e pertinenti. Ma il senso di gioco sul fondo resta, non
scompare.
L’effetto complessivo è perciò quello di uno
scherzo amaro, dell’amaro confronto tra un desiderio di gioco e di sogno, e
l’ostentazione di una crudezza reale, di una tragedia effettiva. Le parole di
Mesa sono giocose e fantastiche mentre ci descrivono il male, ma non lo sono
per cinismo, o per superficialità: al contrario, sembrano testimoniare la
consapevolezza che è solo attraverso questi filtri che il male può davvero
arrivare sino a noi, superando le nostre difese naturali, il nostro naturale
rifiuto nei suoi confronti. Una scena troppo cruda e realistica può apparirci
insopportabile, ma ci può apparire anche banale, noiosa quanto tutte le altre
scene dello stesso tipo che conosciamo, prese dal vasto repertorio di verità o
di finzioni orrorifiche che abbiamo attraversato nella nostra vita. Per questo,
mostrare il male è così difficile: se te ne allontani troppo, esso diventa
irrilevante; se ti ci avvicini troppo, è insopportabile o noioso.
Le parole di Mesa scorrono come un flusso
musicale, una musica che sta nel suono quanto nel senso. La fitta rete di paronomasie,
allitterazioni, quasi rime, è certamente una dichiarazione di poeticità, e
quindi di distacco, ma è anche la costruzione di un ambiente sonoro, di un
ritmo di accenti e di suoni (questo succede qui certamente anche per
la destinazione musicale di questo testo – e tuttavia la situazione non è
diversa negli altri testi di Mesa, quelli che non prevedono un’esplicita
destinazione musicale). Lo si capisce dal modo in cui sono accostati i suoni di
parole simili, e persino dall’attenta costruzione metrica dei versi, che
scivolano in diverse occasioni verso la misura epica e tradizionale
dell’endecasillabo, quasi a fornire degli appoggi conosciuti alla melodia.
Nel frattempo, ci si parla di uccelli, del
loro volo, del loro avventarsi, combattere, “fare scaravento” (espressione
inconsueta, ma che certamente evoca un movimento alato che ha a che fare con il
vento); così che, poche righe più sotto, quando dall’alto dei voli si è passati
al basso dei sogni, la parola “scaraventati” si ritrova carica anche di quel
senso evocato poco sopra. Al male degli uccelli che si avventano sul cibo sbranandolo, sbranandosi, corrisponde l’altro
male, quello deirenitenti, repellenti. Al salire degli uccelli
corrisponde il precipitare della frana, e persino i sogni sono fatti di quella
stessa materia di immondizia, di cui si nutrono gli uccelli, incapaci di andare
oltre, di essere sogni di un mondo davvero differente.
Nella scrittura di Mesa diventa
particolarmente, acutamente evidente che la poesia è una sorta di musica del
suono e del senso, e così come la musica tout court possiede quelli che essa
chiama i suoi parametri (melodia, armonia, ritmo, dinamica, agogica…), anche la
poesia ha i propri: fonetica, accenti, silenzi, ritmi, racconto, senso. Non
leggiamo la poesia per ottenere il suo senso; ci sforziamo piuttosto di
sentirne il senso (insieme al suono, al ritmo, al racconto…) per arrivare alla
poesia, per essere portati da lei e con lei – e, in questo essere portati, per
trovarci insieme con i tanti altri lettori che possono ritrovarsi portati dai
medesimi versi. Succede lo stesso anche con la musica. Se davvero fosse il
senso quello che ci interessa, una buona spiegazione varrebbe più di qualsiasi
poesia.
Non il senso ci interessa, ma il percorso su
cui la poesia ci porta. Di questo percorso sicuramente il senso è un elemento
importante, ma non quello finale. Le paronomasie e le semirime aspre e chiocce di Mesa ci conducono attraverso le
volute di un male barocco, musicale, spettacolare, e insieme crudo, cieco,
nudo; ci conducono cioè al centro del contrasto tra la leggerezza e il dolore,
il medesimo contrasto di cui, in profondità, noi ogni giorno viviamo. Mesa ne
ha solo scambiato i termini: per questo, così facendo, lui ci permette di
vedere lucidamente quello che, proprio perché ci è troppo familiare, noi di
solito non vediamo più; ci permette di sentire aspramente, baroccamente, quel
male così profondo e incistato in noi che altrimenti non sentiamo più.
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