mercoledì 31 agosto 2011

Marina Corona


Questi inediti di Marina Corona, come per Ida Travi, nascono dalla bocca che li pronunzia, non dalla penna che li incide, e sono canti del prendersi cura e dell'invocazione: noi, dice, «medichiamo» e «mendichiamo» il ciclo crudele eppur necessario del dolore, tatuato nella natura, che tuttavia rimane madre e soprattutto alfabeto del destino di ciascuno, essendo tutti consegnati all'oblio, alla cancellazione del nome. Disseppellire i nomi; questo infatti è il compito dei mortali, ci insegna Corona, laddove la natura cancella tracce, per darne altre, in un proliferare che è ripetizione/dispersione.

Da Leopardi si esce così: benedicendo l'eterno anello del divenire, che incenerisce le cose dopo il dono di averle rese singolari. «Il sole slega», libera gli esseri dalla notte, li dissemina nell'esistere, lascia per esempio al ramo la responsabilità di dare agli uccelli ristoro, al tronco leggerezza, sostegno alle foglie. L'uomo civilizzato invece, afferma implicitamente la poetessa, è la creatura più fragile proprio perché nato dalla Storia, che è gelo e sradicamento dal tempo circolare; per questo, solo l'amore può rifondare il legame con il tutto: «Chiedo allo zenit di tenere saldo / più saldo l'amore». L'asse che lega il cielo e la terra, albero cosmico che trattiene l'oscuro e la luce, rimette l'umano dentro il cerchio del sacro, giacché, da solo, questi vive costantemente la precarietà, la casa piena di vento. L'amore traduce nella pratica quanto l'esserci ha inscritto ontologicamente sin dapprincipio (ma che la modernità ha rimosso): l'io è relazione, un di qua e di là della presenza, oscillazione che tracima e vive la pienezza soltanto essendo altro. Ma l'orrida bellezza del canto rinbaudiano qui non c'entra: Corona non cerca né di essere assolutamente moderna, né la parola estrema, assoluta, la soglia dalla quale parlare in nome di ognuno, possibile dopo il ragionato sregolamento dei sensi; più mestamente, lascia al mondo la sua fioritura, il suo inverno, e se ne prende cura liberandolo al proliferare delle differenze, negando semmai alla modernità alcun compito salvifico, alcuna aurea messianica: «dai da mangiare semi / alle stelle, alle foglie, alle fontane / tu che rispetti l’alba / la pietra inebriata che la contiene / lascia che ti divida tu e tu / e l’ombra non gridi».




**

Tu chiami la neve: neve, figlia
del dolore, dici:
“è caduta neve pallida fino
a sfinire e priva di radici”
noi medichiamo la neve
con la povertà nelle dita col fiato
che conosce sé si ferma a sé
non domanda
noi medichiamo la neve
cantando un canto corale:
“neve che cadi a fianco, compagna
che seppellisci i nomi
ricorda a noi le mani
che schermarono il viso
ricorda il cuore fermo sugli spalti
e che lo abitiamo mentre tu
la caduca bianca persona del cielo
ci segni labbra a labbra”.




**


Accanto al fuoco diciamo al fuoco:
“brucia con quieta fiamma”
nei cortili deserti
cerchiamo pietre minute
di un altrove che sbatte
contro di noi e ci chiede conto:
“la collina che hai custodita
si chiama morte piccola
lì si spegne la luce
gli uccelli chinano il capo storditi”
“dove ci porterà l’estate?” Dicevi
piegandomi il volto all’indietro
“dove la madre ardente che secca
la lingua?” E’ notte presso di te
chiedo allo zenit di tenere saldo
più saldo l’amore.




**


Tu vai nel grande vento
lasci la casa vuota
dove le imposte sbattono
e la luce vacilla
io mi nutro di piccole bacche
ma non voglio diventare selvatica
il vento che ci legherà sarà
amarissimo.

...........................Ora abitiamo case incendiate
...........................dove più forte più
...........................violento è il silenzio.




**



Notte d’occidente lama sottile
che dividi in due, solitario
più solitario dell’alba, il mio paese
................................gli uccelli dicono:
................................“rimango per quest’albero
................................questo ramo che la brina nutre
................................che il sole slega, rimango
................................per il canto delle radici
................................rimango e canto”
................................rapidissimi guardano il cielo
io lascio gli uccelli sul ramo
e che la luce segni il margine
fuori siamo io e te
amore dell’alba
che vibri nelle foglie
le pretendi fino all’appassire,
nella casa una fiamma
ci dice due: una culla e tu,
minuscola voce, acqua raggiunta
dall’acqua, bendata e fasciata, acqua
che regge la luce.

..............................gli uccelli dicono:
..............................“per tutti la casa è
..............................domestica la terra selvaggia
..............................il cielo se ti straripa straripa
..............................a te tra le mani, tieni il tuo amore
..............................come gomitolo dipanalo
..............................ora per ora parola per parola
..............................frammento per frammento nella gola
..............................non devi camminare
..............................ma sopportare gli astri
..............................la girandola infuocata
..............................dai il nome il nome
..............................reggili nelle mani
..............................dai da mangiare semi
..............................alle stelle, alle foglie, alle fontane
..............................tu che rispetti l’alba
..............................la pietra inebriata che la contiene
..............................lascia che ti divida tu e tu
..............................e l’ombra non gridi”

La luna la mercuriale la nave
delle navi la vergine dal volto
di cerva oltre i vetri
spalancati trascorrendo con tocco
regale, mentre nudi abbracciati
stavamo alla radice
dei sogni li lasciavamo
germogliare a misurare
l’inermità dei corpi
il grado di resa l’assenza
che nel respiro trabocca,
ci legò in nodo scindibile
e non scindibile e di verde
ti diede i riflessi che sono i toni
della verga che conduce e me
di blu mi fece come il cielo
rotondo e familiare
all’alba ci destammo
senza sapere dei colori andammo
fuori sfiorando le dita al saluto
ciascuno per una strada nell’aria
del mattino che non cancella.




**


Ho un canto annodato
un fiorimento stretto
in un angolo del petto per te
se tu lo slacci
se nastro dopo nastro
lo lasci volare
mentre gli alberi guardano altrove
e su di noi cerchiamo note, tracce
arabeschi e fuochi delicati
confidando nelle labbra.




**


Levami dalle tempie
la benda la tenaglia
che toglie la luna dal cielo
come una spenta camelia
e fammi tua acqua tua sabbia
per adagiarti e con la grazia
delle dita che sanno
chinati a consumarmi.




**


Occidente, sentinella d’avamposto,
acqua che ti nutre
bevuta e non bevuta
“dì all’Angelo il tuo vero nome”
raccolgo teneri frutti
li recido sotto stella pietosa
l’armigera, in questo fragore
quando mi sarò nutrita
te ne darò di quest’uva
maturata qui
lieve sole condensato
.................................e tu che mi cogli
.................................mi cogli dalla mia mano.



**


Tu stai dall’altra parte del fiume
e la terra ci nutre
con molliche brunite
noi cantiamo canti sbagliati
note distorte che il vento infilza.




**


Verrà un tempo più lieve
saranno meno ingrati
più garbati gli uccelli
più multicolori non grideranno
come quando dalla pineta
gli sparavano addosso i cacciatori,
da soli accenderanno
nella nebbia dei fuochi
con pochi legni raccolti qua e là
sulla terra che sgela
saranno i primi bagliori
i forti colori del giorno.




**


Mi porterai con te faremo un nido
vicino alle aquile tu dirai
“non è che una bilancia la luna
porta fortuna a chi ha occhi bifronti
capelli dal colore addolorato”
io dirò “quand’era una cicogna
perché non hai lasciato
che il candido piumaggio barbagliasse
sopra di te al tuo passo?”
Tu dirai “lasciamo la morte dormire
lei e la roccia sono la stessa cosa
anche la pioggia ha mani che sanno
l’alfabeto che ti insegno, l’ho imparato
dalla luna, puoi tramutarlo in acqua
se vuoi, sei regina tu dell’acqua
io ho roccia invece nelle gengive”
così si baciano i prometei.




Marina Corona è nata a Milano nel 1949, dal 1970 al 1994 ha vissuto a Roma. Nel 1990 ha vinto il Premio Internazionale Eugenio Montale per la sezione inediti e di conseguenza la sua silloge è stata pubblicata nell’antologia di Vanni Scheiwiller all’insegna del pesce d’oro. Nel 1993 ha pubblicato il libro di poesie Le case della parola (I quaderni del Battello ebbro). Nel 1998, L’ora chiara (Jaca Book, Premio Internazionale Eugenio Montale per la sezione editi, Premio Guido Gozzano, Premio Alghero - donna, Premio Circeo – Sabaudia,Premio Letterario Internazionale “Maestrale”- san Marco). Nel 2006 esce I raccoglitori di luce (Jaca Book, finalista al premio Lorenzo Montano). Ha tradotto per la casa editrice Egea il libro Dialogo con Heidegger di J. Beaufret e, per la casa editrice Jaca Book, la prefazione al volume fotografico Mariana Yampolski. Ha partecipato alla stesura del Dizionario filosofico per la casa editrice Garzanti e alla stesura del Dizionario del comico per la casa editrice Jaca Book . Ha curato cicli di presentazione di poeti e letterati contemporanei e letture di poesia presso il Circolo della stampa, Archivi del 900 e La casa della cultura di Milano. Il romanzo La storia di Mario è di prossima pubblicazione presso la casa editrice Antigone.

9 commenti:

  1. Marina Corona1/9/11 21:36

    Grazie caro Stefano per la visione che tutti ci riguarla sollevandosi al di sopra del mondo persona, che con tanta sapienza e acutezza hai saputo dare alle mie poesie

    RispondiElimina
  2. un inchino a questa penna, solamente!

    RispondiElimina
  3. cara Marina, contavo che ci fossero più commenti perché la tua poesia ha una tale forza, che non può passare inossorvata.
    Probabilmente, come scrive Anila, molti avranno letto e si saranno emozionati, senza avere la necessità di lasciare un segno.

    RispondiElimina
  4. sinceramente ho letto questo post almeno 4 volte dopo il mio commento.(la tua nota lo letta alla svelta Stefano, perdonami, ma amo avere le mie idee senza condizionamenti) è una poesia così viva che non solo emoziona ma trascina, è viva. poi la lingua italiana si presta così bene alla poesia, non c'è niente da fare. ha una musicalità permeata da una padronanza della metafora che lascia col fiato sospeso. adoro la poesia femminile italiana, mi ricorda anche un po' la farabbi questa poesia. trovo particolare la struttura della poesia e vorrei l'autrice magari spiegasse un po' la scelta della struttura. mi piace mi piace mi piace, non riesco a dire altro da un piccolo schermo dell'iPhone :) a rileggervi! grazie Stefano per questa proposta.

    Anila


    p.s. Sarei intervenuta in un altro post giorni fa ma avrei detto cose troppo contrarie agli altri e non volevo creare casini. :p

    RispondiElimina
  5. la tua nota l'ho letta !!!

    oh poveri noi che siamo in mano alla tecnologia....
    :)

    Anila

    RispondiElimina
  6. giusta la vicinanza alla Farabbi. lei è più lupa. Corona più uccello.

    RispondiElimina
  7. LA DOLCISSIMA MINACCIA SOSPESA
    di V.S.GAUDIO

    La poesia di MARINA CORONA mi riporta a un mio saggio su Rabindranath Tagore, pubblicato nel 1978 in “Galleria” , la rassegna bimestrale di cultura diretta da Leonardo Sciascia, Mario Petrucciani e Jole Tornelli e che dedicavo a Carlo Cignetti, il poeta torinese autore di Un gioco di carte, e a Silvia Zangheri, la figlia del sindaco di Bologna durante gli anni di piombo .
    Il rapporto di sinestesia e la contingenza dell’anima, il Tu non ha identità, il Tu rileva l’identità di percezione dell’Io, il finito esaurisce l’impersonalità dell’Assoluto, ossia :
    1) ”nella scrittura di Tagore tutto il movimento semantico si congela in quiete dell’identità di percezione” ;
    2) ”l’interazione con l’habitat è una sospensione temporale” ;
    3) ”l’immaginario(…) è il luogo della trascendenza dell’ego, solamente che, nel caso di Tagore, questa trascendenza ha la duttilità della quiete, chiasma che dona corpo al mondo” .
    In queste poesie di Marina Corona:
    a) il Tu ha un’identità;
    b) il Tu rileva l’identità di percezione dell’Io;
    c) il finito sembra che non contenga il significato del Tu;
    pertanto:
    1) nella scrittura di Marina Corona, il movimento semantico si congela sì in quiete dell’identità di percezione, ma il sintagma, a differenza di Tagore, non è sentenza, non è aforisma che contiene;
    2) ma, allo stesso modo, “l’oralità stessa della percezione, pur nella densità delle incorporazioni, è resa ad un tempo passato, quindi si raccoglie e si ordina in una identità di pensiero che cataloga le modalità temporali. Anche al presente, la percezione, l’interazione con l’habitat è una sospensione temporale” , cioè il punto 2) ha la stessa valenza sia in Tagore che in Corona;
    3) nella poesia di Marina Corona, la trascendenza dell’Io ha una sensorialità più inquieta, sembra che il tempo attualizzato non venga moltiplicato dal trasversale dell’interazione, ma la privazione dell’immediato attua quell’asimmetria su cui ci si interrogava per Tagore con questo enunciato: “la quiete dell’identità di percezione può correlare il sema movimento ?” .
    L’identità di percezione dell’io di Corona ha una sorta di quiete in movimento, la lasci volare mentre gli alberi guardano altrove,il passaggio che sembra leggerezza”:
    nel poeta bengalese, “il desiderio corre parallelo al godimento:
    la strada della libido scopre segrete similitudini affettive” ;
    nella poetessa romano-meneghina, la strada della libido non è ipotattica come lo è l’affetto, lo spazio non ha margine e l’alfabeto puoi tramutarlo in acqua e strutturi così atti, percezioni e riflessioni, perché non è che una bilancia la luna:
    il desiderio corre, ma la felicità, una dolcissima minaccia, è sospesa.

    RispondiElimina
  8. grazie per il contributo.

    RispondiElimina