Se l'allegoria del quarto stato, alla vigilia delle grandi lotte operaie, mostra corpi fieri di uomini e donne che avanzano verso il futuro, provenendo dal buio del passato, Co'e man monche di Fabio Franzin (Le Voci della Luna, 2011), alla fine delle grandi lotte, ci dà l'immagine di indumenti bianchi stesi al vento, camicie "monche di mani, come in una richiesta di aiuto [...] in una guerra persa". Tristi come "bandiere bianche di resa". Tra questi due pilastri c'è la storia del movimento operaio del Novecento, un ponte gestito da sindacati e imprenditori, dove di rado gli operai hanno deciso per conto proprio. E ancor meno lo possono fare adesso, visti i ricatti del capitale per mantenere il lavoro nelle grandi aziende: riduzione della pausa, flessibilità, sospensione premi produzione eccetera. Fabio Franzin non ci racconta l'iter contrattuale di una sconfitta, ma la disperazione che ne segue, nei suoi momenti concreti: il sentimento di disagio di fronte ad una vita da cassaintegrati (tra passeggiate senza meta, bar, tv e inadeguatezza nei lavori domestici, liti familiari) e la tristezza per il degrado in cui sprofondano le zone industriali, con "capannoni spenti", "ruggine" ovunque e silenzio cimiteriale, tanto da tratteggiare un morto reliquiario, non orto montaliano, ma reticolo della vita activa dove, un tempo, gli uomini hanno goduto e sofferto, per essere infine cacciati nell'inferno della vita inattiva, che è condizione priva di senso non soltanto per una cultura operosa come quella del nord-est, ma per tutta quella occidentale moderna. Restando legato alla propria esperienza, Franzin scrive "nord-est" spezzandolo, "nord / est", dando così evidenza all'irrimediabile rottura del fondamento che nutriva non soltanto i corpi, ma l'identità stessa di ciascuno, tramite i valori acquisiti (lavoro, virilità, denaro, sacrifici, famiglia, ruoli all'interno della stessa) ora venuti a mancare o a mutare. Quanto il poeta di Motta di Livenza ci fa conoscere è appunto l'anima infelice di un gruppo, omogeneo solo nella perdita, laddove, in piena attività, evidenziava individualismo e invidia: "adesso che forse / siamo per la prima volta davvero / una classe, così, incatenati alla stessa / sorte. Guardateci: ci siamo anche scannati / fra di noi, e azzuffati".
Più che classe, allora, direi popolo destinato al martirio da un potere inavvicinabile, con quella vocazione cristiana che permea da sempre la parola di Fabio, sta volta però priva di speranza, perché l'unità non è nel progetto, ma – paradossalmente – nelle coscienze lacerate, ora che l'ideologia passa sopra le teste, che occorre fare i conti con la sopravvivenza concreta e che l'operaio, si sente orfano, lasciato solo e incompreso persino dalla moglie.
Insieme a questa voce collettiva, testimone di uno sfacelo epocale, opera un secondo registro, in cui l'autore mostra le proprie piaghe e chiede che siano riconosciute nella loro autenticità. Entrambe le linee tracciano un disegno complessivo che non consola, non attenua la drammaticità della situazione, come in qualche modo succedeva in Fabrica. Per questa ragione condivido quanto mi scrive in privato Francesco Tomada, rilevando la superiorità di questo libro rispetto al precedente, in quanto è "capace di tracciare" non un manifesto della classe operaia, ma "la voce e il corpo della precarietà umana, che sempre più spesso affonda le radici in quella lavorativa". Non sono tuttavia sicuro, come egli teme, che il libro possa "incontrare resistenze in tutti gli ambienti – e sono tanti – in cui si ritiene che la poesia debba mantenere una distanza dalle cose, distanza che in Co’ e man monche è stata ridotta a zero". Ciò sia perché la distanza è ancora viva sotto il profilo emotivo, che tracima solo raramente nel sentimentalismo, mantenendo quasi sempre, invece, un timbro eroico nella voce del poeta, e sia perché, per la stessa ragione, il libro non è ideologicamente schierato né astratto, bensì procede per immagini concrete (che il dialetto rende ancor più materiche), capaci di visualizzare la crisi e di tradurla in suggestioni ricche di patos. Due qualità giustamente benvolute, in generale, negli ambienti della poesia italiana.
Su Nazione Indiana alcune poesie e su La fata centenaria alcune prose che chiudono la raccolta.
eccellente lettura Stefano.
RispondiEliminaA corollario, invito anche ad ascoltare la puntata dedicata a Fabio ed al libro su LA VOCE DI GWEN, per Radio Gwen, qui:
http://www.radiogwen.ch/radiogwen/podcast/la-voce-di-gwen/370-la-voce-puntata-6
bene.
RispondiEliminaFrancesco Tomada mi scrive:
RispondiEliminaSpero che tu abbia ragione, e che questo libro sia accolto bene per il valore che ha. Sarebbe un buon segno non solo per Fabio, ma per la poesia in generale.
Su tutto il resto sono d'accordo con la tua lettura, che trovo limpida e centrata, come sempre.
Una lettura puntuale Stefano. Condivido quanto aggiunge Tomada. Ho già
RispondiEliminaparlato del libro su Nazione Indiana, aggiungo solo che parlare di lavoro e
lavoro che manca nell'attuale momento storico è necessario. Un caro saluto.
nadia agustoni
Fabio in questo libro-di-carne entra sottopelle alla natura umana, racconta del più autentico sentire che porta l'uomo a essere solo con se stesso, a guardarne la miseria che viene dalla disperazione di sapersi lontano da tutto, nel luogo in cui niente è più soccorso.
RispondiEliminaNudo davanti a se stesso, Fabio ci dona l'uomo, privo di sentimentalismo, con lo sguardo colmo e limpido di verità.
un lavoro altissimo.
ciao stefano.
iole toini
Co'e man monche è un libro splendido, coraggioso, che svela l'anima nascosta delle persone, la rabbia soffocata, il dolore inespresso per quella sorta di pudore che ci porta a nascondere agli altri i drammi più feroci, vivendoli quasi come una “colpa”.
RispondiEliminaGrazie Stefano per la proposta e la tua attenta lettura.
Un caro saluto a tutti,
Stefania C.
finalmente è possibile commentare!
RispondiEliminagrazie a voi per le osservazioni puntuali.
Ringrazio Stefano, davvero di cuore, per questa sua lettura per me preziosa. E, altrettanto di cuore a tutti gli amici che ogni volta mi commuovono e danno un senso anche a questo periodo per me molto difficile.
RispondiEliminaFabio Franzin
buon primo maggio a tutti!
RispondiEliminaSì, buon primo maggio, con gli auguri più sentiti a Fabio di rientrare presto tra i protagonisti a pieno titolo di questa festa di una Repubblica ancora [per ora, nonostante tutto] fondata sul lavoro, anche se poi [matrigna colpevole e imbelle] non riesce a garantirlo ai suoi figli. Anche ai più meritevoli e devoti alle sue regole e leggi. Auguri a Fabio, sicuramente lavoratore ad honorem, per averne cantato il mondo e, con dolore, la sua mancanza, con le due raccolte più belle e incisive [assieme a quel Taccuino Nero mai apprezzato abbastanza di Nadia Agustoni] uscite nel primo decennio del secolo. Un vero monumento al lavoro, speriamo tutti non in memoria..
RispondiEliminafabrizio
e un augurio all'editore de Le Voci della Luna affinché ci regali un altro decennio di libri memorabili.
RispondiEliminaho letto la tua nota ottima (quando non lo è?) . In particolare il clou del tuo acuto rilievo sul "nord-est" scritto da Franzin come "nord / est", "spezzandolo. dando così evidenza all'irrimediabile rottura del fondamento che nutriva non soltanto i corpi, ma l'identità stessa di ciascuno, tramite i valori acquisiti "
RispondiEliminaAnticipo che Fabio, con questo libro, ha vinto il premio "Achille Marazza" per la poesia.
RispondiEliminaL'autorevole giuria: Antonella Anedda, Paolo Bignoli, Franco Buffoni (presidente), Giuliano Ladolfi, Fabio Pusterla, Fabio Scotto.
complimenti al poeta e all'editore
(e anche a me, visto che dirigo la collana :-)
Dunque avevi ragione tu, e io sono ben felice di essermi sbagliato!
RispondiEliminafrancesco t.
la rason xè dei mussi, si dice dalle mie parti :-)
RispondiEliminaComplimenti a fabio Franzin per il premio Marazza, se lo merita. Io non ho avuto modo di leggere "Co' e man monche", ma ho già letto "Fabrica" e... se tanto mi da tanto, non ci sono problemi sulla qualità.
RispondiEliminaMi spiace invece, che domenica 1° maggio, al premio "Aque Slosse" di Bassano del Grappa, Fabio non abbia ottenuto lo stesso risultato. Ma si sa, quando c'è la giuria popolare, è sempre difficile capire come vota. Se poi è "tanto popolare" c'è il rischio che apprezzi solo la poesia semplice e di sentimento.
Ancora complimenti a Fabio.
gentile Bertoncello, la ringrazio per questo commento. Condivido (anzi esapero) con lei l'idea che la "giuria popolare" sia il modo migliore per affossare gli autori meritevoli in favore dei più orecchiabili (leggi: banali)
RispondiEliminaCaro direttore di collana, come vedi, era giusta l’idea di pubblicare questo bel lavoro di Fabio nella collana Segni, dedicata alla poesia tout-court presentata assieme all’opera di un artista visivo (pittura/scultura/fotografia), facendolo uscire dall’altra collana Radici, dedicata alle opere in dialetto (dove avevamo già pubblicato il suo Mus.cio e roe), proprio per non rischiare di ghettizzarlo (anche se la collana non vuole proprio essere un ghetto: semmai un’isola felice). Onore anche ai giurati, che hanno dimostrato un’apertura mentale non comune, accettando la nostra piccola ma significativa provocazione, con l’invio di un’opera in dialetto ad un concorso rivolto e storicamente votato alla poesia in lingua. Credo che con Franzin continueremo a non rispettare la distinzione lingua/dialetto nei bandi maggiori. Nei minori, con giurie a volte meno illuminate, o le cosiddette giurie ‘popolari’, il rischio evidenziato dal bravo Nico Bertoncello di un confronto con il vernacolare ed il folklore più facile, certamente è reale e surreale il risultato. Ma sta a noi imparare criticamente a discernere tra premi e Premi. Un abbraccio.
RispondiEliminaFabrizio
sì, occorre insistere, anche perché le tue edizioni pubblicano sempre autori di rilievo.
RispondiEliminaNon a caso il primo è stato un certo Stefano Guglielmin..
RispondiEliminafabrizio
:-)
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