Epica dello spreco (Dot.com Press, 2015), di Laura Di Corcia, è un’opera prima in cui
l’enigma del titolo viene risolto a metà del libro, a pag. 35. Lo spreco
consiste nel coraggio di scontornarsi l’identità, di farla gelatinosa (come
scrive l’autrice poco dopo), tracimante, al fine illusorio di vincere la sofferenza,
che ci costituisce centralmente. È una vittoria di Pirro, in effetti, uno
spreco, appunto, ma vale in quanto segnata dall’azione, dal tentativo
prometeico (e forse sartreriano) di vincere il destino (sta in questa estrema
lotta l’epicità della sfida), che ci ha condannati al dramma dell’esistenza
esposta al non-senso e al dolore, noi che vorremmo salvarci, come ci spiega
l’ultima poesia, a costo di chiuderci “nel più piccolo dei microcosmi”. Il più
importante dei quali, allegoricamente parlando, è lo stagno, parola chiave del
libro, spazio chiuso, paludoso, antiepico, ma dove “puoi rimanerci un’intera
vita” senza rischiare troppo, perché è qualcosa di conoscibile, di
addomesticabile, specialmente se, per converso, sei attraversato nell’intimo
dal demone dell’eccedenza, dall’hybris: “Io nasco a vivere come bruto – scrive
la Di Corcia, capovolgendo l’Ulisse dantesco, negando al senso virtù e
conoscenza – e allora al mare preferisco
lo stagno”. Che diventa prigione volontaria, contenzione per sopravvivere alle
forze istintuali che la abitano.
L’evocazione
degli spazi chiusi domina il racconto, fino ad invocare la riedificazione del
muro di Berlino, organizzata tuttavia entro una cornice baudelairiana:
“Ridateci il muro di Berlino: // io non voglio lo sbocco sulla terra di nessuno
/ voglio che i vermi costruiscano attorno al mio corpo / una gabbia di pane,
una prigione che mi schiacci”. Immagine esemplare, sorella dello stagno, che
tiene l’altro corno della questione: il desiderio di sparire, anche immergendosi
in una storia d’amore totale, mortale: “Quel che cerco in te / se non lo hai
capito / è la mia morte”. Che amore e morte violenta stiano insieme sotto il
segno dello spreco di sé, Laura Di Corcia lo dice in più testi, ma non tanto
con l’intenzione di denuncia sociale o impeto romantico, bensì, appunto, quale
soluzione rapida e prosaica per porre fine sia all’agonia della vita, per
natura assassina, e sia al peso, in termini di equilibrio idetitario, per
sopportarla. Ciò spiega la scelta dichiarata di preferire il Tasso, uomo
travagliatissimo, all’Ariosto, aperto invece alla comunità, al gioco di corte,
al mare del poema cavalleresco dove nulla si spreca.
Riassumendo:
esiste, in questa narrazione di sé, un cortocircuito fra la natura ribelle
dell’io lirico (e lo spreco ne è l’emblema) e il desiderio di contenerla (lo
stagno, il muro), una tensione drammatica che diventa, quale via di fuga,
invocazione epica alla morte. Da questo punto di vista, Epica dello spreco potrebbe essere letto come un diario
psicoanalitico, dove il soggetto fa i conti con le proprie angosce (“Laura
sbrindellata, che scava e scava finché non trova un mostro / a cui dire, dai
fai schifo, dai faccio schifo”), ma anche le sopporta al modo di uno Zeno
Cosini, con ironia e autoironia, entrambe giocate nell’organizzazione
sintattica e semantica, che talvolta imita l’abbassamento di tensione lirica
tipica del parlato, oppure scaricando la violenza inconscia in frasi governate
dalla libido, come in questi versi: “Ho conosciuto poeti / che cantavano stelle
/ e nella vita erano troie gemelle”; o, ancora, con un’assertività nata da un
non detto esperienziale: “Il mare lo vedi azzurro ma è bastardo”. In
definitiva, Epica dello spreco è un
libro colto e naif al tempo stesso, capace di drammaticità, ironia e pensiero.
Un bel libro, insomma.
1.
Il confine fra chi sono e chi
non sono
è una palude larghissima,
una radura di acque di zolfo.
Di notte, se stai in
silenzio,
il gre gre di ranelle ti sale
fino in gola,
ti si appioppa nel cuore
come un colpo di pistola.
E provaci tu a tenerle zitte,
quelle mezze belve,
a sfibrare il loro lamento di
fango.
Tutto è di un liquido
che sfianca la materia
sciorina versi indecenti
da farti tremare di nausea.
Il fluido di stelle
è un mal di testa che non dico
un sogno di quelli
che puoi fare solo in aprile,
in mezzo alla notte,
come un sole d’agosto
che gli dici: no, grazie, è
troppo.
2.
Non è il tuo silenzio che mi
pesa
ma la mia presenza.
Voglio sparire, mio caro,
quel che cerco in te
se non lo hai capito, è la
mia morte:
la dimenticanza, l’oblio
vaporoso
che sia in mare o in lago,
non importa
se sarà il vento
ad aprire porte tra il sale e
il niente
o un mio controllato
tentativo – un impulso che mi sale da non so dove – il
trionfo sul brodo primordiale
– l’ego che buca il tempo
davvero, non cambia la
spiegazione razionale, non sfiora la sostanza – il fatto
che ci immergiamo, che
vogliamo che l’acqua ci riempia i polmoni – (che
scivoliamo)
Credimi, amore mio, mia
speranza, mia fede, proiezione di ansia infinita
– elastico di senso,
girotondo di girandole e voci, mia rosa di piombo:
è che siamo in attesa del
tuffo:
(patiamo il risucchio
dell’imbuto).
3.
Quanto sarebbe meglio, miei
fiori appassiti,
piccole parti di me che
lentamente decidono di accasciarsi,
seguirvi, verso i sentieri
fitti di nulla,
seguirvi, come macchie di
terra e impallidire con voi, piano piano
donarlo tutto questo sangue
che si attorciglia nelle vene,
che anela, come un pazzo,
nelle vene.
Eppure quando sei lì lì per
scegliere la caduta,
quando ormai ti ha in pugno,
ti ha risucchiato con i suoi umori di aria
(come voci leggerissime che
si levano dal plesso solare)
e dici, va bene, sono tua,
pozzo di mirto, verde bosco di pre infanzia,
ecco dunque che arriva una
promessa di azzurro,
lo scintillio della prima
risata, il forse dai, la mano dolce che ti riacciuffa.
Ce l’avevi quasi fatta, a
inginocchiarti alla preghiera dell’oblio,
ed ecco che ti rituffi
all’indietro (come se fosse tutto vero)
e subito dimentichi
il tamburo forte sul basso
ventre, quel raduno di lombrichi
che hai al posto della gola,
il rimbalzare del cuore, in perpendicolare,
per ogni no sbattuto sul
naso: per ogni indelicatezza:
per le distanze tra te e le
viole.
(Tutto allora sembra di
latte, come se non ci fosse mai stato nulla di diverso,
dall’armonia pura delle sfere
bianche, nulla che si discosti dal non colore,
solo aria di diamante e
zinco, zinco a piovere dal cielo – piccoli granuli
di madreperla da accogliere
sul fuso delle dita).
In un attimo, ti dimentichi
dei pieni,
e come niente, tradisci le
tue lacrime.
4.
La notte è un’ipotesi non
verificata
se cala di colpo sul tuo corpo di Modigliani
spingendomi a regredire a noi due
a verificare i nostri corpi dall’alto.
se cala di colpo sul tuo corpo di Modigliani
spingendomi a regredire a noi due
a verificare i nostri corpi dall’alto.
Ma ragazzo mio:
ci sono assiomi che stanno come vedette
respingendo ogni avvicinamento
(a loro affido il sangue di sangue delle mie vene
questi frammenti in rotazione
la mia sera senza senso).
ci sono assiomi che stanno come vedette
respingendo ogni avvicinamento
(a loro affido il sangue di sangue delle mie vene
questi frammenti in rotazione
la mia sera senza senso).
La legge del no non è la cosa
più crudele,
è il suo schiudersi in minima probabilità
il musino di senso che sbuca dalla rete
ad attrarre le nostre mani di pane
per umiliarle, fustigarle sulla schiena di schiave
nere.
Contro questo dobbiamo rivoltarci
con occhi di bile,
contro la nenia
resisti, vai avanti, spera.
è il suo schiudersi in minima probabilità
il musino di senso che sbuca dalla rete
ad attrarre le nostre mani di pane
per umiliarle, fustigarle sulla schiena di schiave
nere.
Contro questo dobbiamo rivoltarci
con occhi di bile,
contro la nenia
resisti, vai avanti, spera.
Molto meglio fermarsi su una,
seppur falsa,
verità:
il muro è muro
e non può non essere muro.
verità:
il muro è muro
e non può non essere muro.
5.
Eppure l’unica via di scampo
ce la dà la gelatina
un po’ meno del ghiaccio, un po’ più dell’acqua:
ed è questo è il difficile, permanere
in una forma che il mondo rifiuta, sclerotizzato
fra evaporazioni e sublimazioni,
un po’ meno del ghiaccio, un po’ più dell’acqua:
ed è questo è il difficile, permanere
in una forma che il mondo rifiuta, sclerotizzato
fra evaporazioni e sublimazioni,
su
pause di ritmo che sono questo e tendono a quello.
La materia, se la ascolti,
te lo dice, che la gelatina esiste solo in cucina:
che l’io tende a fermarsi su una rigidità,
perché ha paura del risucchio (lo teme, l’inferno: lo brama – sono le sirene dell’abisso, il pianto antico
La materia, se la ascolti,
te lo dice, che la gelatina esiste solo in cucina:
che l’io tende a fermarsi su una rigidità,
perché ha paura del risucchio (lo teme, l’inferno: lo brama – sono le sirene dell’abisso, il pianto antico
che da sempre ci appartiene come un
noi ma riflesso – vapore bianco –
come un noi ma vagante).
Il divenire è una legge
crudele:
quanto sarebbe meglio potersi fermare su uno stato!
crocifiggerlo a dovere,
quanto sarebbe meglio potersi fermare su uno stato!
crocifiggerlo a dovere,
proteggerlo
nella propria bocca calda di bosco.
E invece tutto diventa
cancrena, se si fissa:
allora va via, scappa, corre
smania di voglia di vivere
allora va via, scappa, corre
smania di voglia di vivere
diventa
il mostro energetico,
l’atleta
che non prende fiato: li
vedi i pollini come impazziscono nel vento,
li
vedi come scalpitano e esaltano l’aria di azzurra fanciullezza?
Ma tra forma e forma, non
sarebbe meglio
cercarne una non dico perenne, ma minimamente stabile?
La gelatina è la risposta. Ma non è facile
trasformare ciò che è osseo in mollezza,
redimerne la pretesa di esistenza,
trasformare il suo narcisismo in moto continuo.
cercarne una non dico perenne, ma minimamente stabile?
La gelatina è la risposta. Ma non è facile
trasformare ciò che è osseo in mollezza,
redimerne la pretesa di esistenza,
trasformare il suo narcisismo in moto continuo.
Ah, quanto sono brevi i moti
dei fiori,
come subito ti schianti, gloria del mondo! Come scende
la montagna, di botto, dal picco
del proprio sé puntuto.
E quanto sei difficile, porta
che stai tra essere e non essere,
vita minimale ma forte, forte di nulla,
imbevuta di morte e per questo duratura,
attenta a non essere attenta.
come subito ti schianti, gloria del mondo! Come scende
la montagna, di botto, dal picco
del proprio sé puntuto.
E quanto sei difficile, porta
che stai tra essere e non essere,
vita minimale ma forte, forte di nulla,
imbevuta di morte e per questo duratura,
attenta a non essere attenta.
6.
Chi l’ha detto che gli occhi
devono per forza girarsi,
chi ci dice che non possiamo
dimenticare?
Le cose possiamo lasciarle
senza contorno
senza l’abbraccio della
parola:
il diamante che fissa il
nucleo molle,
la violenza accecante della
tettonica a zolle.
7.
è nel più piccolo dei microcosmi
che puoi trovare la salvezza.
Non sai vivere se non sai
sprecare.
Laura Di Corcia, nata a Mendrisio nel 1982, ha conseguito la laurea
specialistica in Lettere Moderne, con una tesi sulla poesia italiana del
Novecento, occupandosi di Giovanni Raboni, Guido Gozzano, Umberto Saba, Giorgio
Caproni e Patrizia Valduga. Terminati gli studi nel 2007, ha iniziato a
frequentare il mondo del giornalismo. Dopo un paio di esperienze all'estero (a
Berlino e a Los Angeles) è ritornata nella Svizzera italiana dove collabora con
diverse testate, occupandosi soprattutto di teatro, cultura e servizi di
approfondimento. Oltre ad aver partecipato a diversi Festival, tra i quali Europa in versi e Topolò, ha curato la biografia di Giancarlo Majorino, uscita per la
casa editrice “La vita felice”. Di recente ha pubblicato il suo primo libro in
versi, Epica dello spreco, presso la
casa editrice Dot.com Press. I suoi testi appaiono anche nelle antologie Più non sai dove il lago finisca
(stampa) e Fil rouge (Cfr).
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