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giovedì 25 febbraio 2016

Laura Di Corcia


Epica dello spreco (Dot.com Press, 2015), di Laura Di Corcia, è un’opera prima in cui l’enigma del titolo viene risolto a metà del libro, a pag. 35. Lo spreco consiste nel coraggio di scontornarsi l’identità, di farla gelatinosa (come scrive l’autrice poco dopo), tracimante, al fine illusorio di vincere la sofferenza, che ci costituisce centralmente. È una vittoria di Pirro, in effetti, uno spreco, appunto, ma vale in quanto segnata dall’azione, dal tentativo prometeico (e forse sartreriano) di vincere il destino (sta in questa estrema lotta l’epicità della sfida), che ci ha condannati al dramma dell’esistenza esposta al non-senso e al dolore, noi che vorremmo salvarci, come ci spiega l’ultima poesia, a costo di chiuderci “nel più piccolo dei microcosmi”. Il più importante dei quali, allegoricamente parlando, è lo stagno, parola chiave del libro, spazio chiuso, paludoso, antiepico, ma dove “puoi rimanerci un’intera vita” senza rischiare troppo, perché è qualcosa di conoscibile, di addomesticabile, specialmente se, per converso, sei attraversato nell’intimo dal demone dell’eccedenza, dall’hybris: “Io nasco a vivere come bruto – scrive la Di Corcia, capovolgendo l’Ulisse dantesco, negando al senso virtù e conoscenza –  e allora al mare preferisco lo stagno”. Che diventa prigione volontaria, contenzione per sopravvivere alle forze istintuali che la abitano.

L’evocazione degli spazi chiusi domina il racconto, fino ad invocare la riedificazione del muro di Berlino, organizzata tuttavia entro una cornice baudelairiana: “Ridateci il muro di Berlino: // io non voglio lo sbocco sulla terra di nessuno / voglio che i vermi costruiscano attorno al mio corpo / una gabbia di pane, una prigione che mi schiacci”. Immagine esemplare, sorella dello stagno, che tiene l’altro corno della questione: il desiderio di sparire, anche immergendosi in una storia d’amore totale, mortale: “Quel che cerco in te / se non lo hai capito / è la mia morte”. Che amore e morte violenta stiano insieme sotto il segno dello spreco di sé, Laura Di Corcia lo dice in più testi, ma non tanto con l’intenzione di denuncia sociale o impeto romantico, bensì, appunto, quale soluzione rapida e prosaica per porre fine sia all’agonia della vita, per natura assassina, e sia al peso, in termini di equilibrio idetitario, per sopportarla. Ciò spiega la scelta dichiarata di preferire il Tasso, uomo travagliatissimo, all’Ariosto, aperto invece alla comunità, al gioco di corte, al mare del poema cavalleresco dove nulla si spreca.

Riassumendo: esiste, in questa narrazione di sé, un cortocircuito fra la natura ribelle dell’io lirico (e lo spreco ne è l’emblema) e il desiderio di contenerla (lo stagno, il muro), una tensione drammatica che diventa, quale via di fuga, invocazione epica alla morte. Da questo punto di vista, Epica dello spreco potrebbe essere letto come un diario psicoanalitico, dove il soggetto fa i conti con le proprie angosce (“Laura sbrindellata, che scava e scava finché non trova un mostro / a cui dire, dai fai schifo, dai faccio schifo”), ma anche le sopporta al modo di uno Zeno Cosini, con ironia e autoironia, entrambe giocate nell’organizzazione sintattica e semantica, che talvolta imita l’abbassamento di tensione lirica tipica del parlato, oppure scaricando la violenza inconscia in frasi governate dalla libido, come in questi versi: “Ho conosciuto poeti / che cantavano stelle / e nella vita erano troie gemelle”; o, ancora, con un’assertività nata da un non detto esperienziale: “Il mare lo vedi azzurro ma è bastardo”. In definitiva, Epica dello spreco è un libro colto e naif al tempo stesso, capace di drammaticità, ironia e pensiero. Un bel libro, insomma.


1.
Il confine fra chi sono e chi non sono
è una palude larghissima,
una radura di acque di zolfo.
Di notte, se stai in silenzio,
il gre gre di ranelle ti sale fino in gola,
ti si appioppa nel cuore
come un colpo di pistola.
E provaci tu a tenerle zitte,
quelle mezze belve,
a sfibrare il loro lamento di fango.

Tutto è di un liquido
che sfianca la materia
sciorina versi indecenti
da farti tremare di nausea.

Il fluido di stelle
è un mal di testa che non dico
un sogno di quelli
che puoi fare solo in aprile,
in mezzo alla notte,
come un sole d’agosto
che gli dici: no, grazie, è troppo.




2.
Non è il tuo silenzio che mi pesa
ma la mia presenza.

Voglio sparire, mio caro, quel che cerco in te
se non lo hai capito, è la mia morte:
la dimenticanza, l’oblio vaporoso
che sia in mare o in lago, non importa
se sarà il vento
ad aprire porte tra il sale e il niente
o un mio controllato tentativo – un impulso che mi sale da non so dove – il
trionfo sul brodo primordiale – l’ego che buca il tempo

davvero, non cambia la spiegazione razionale, non sfiora la sostanza – il fatto
che ci immergiamo, che vogliamo che l’acqua ci riempia i polmoni – (che
scivoliamo)

Credimi, amore mio, mia speranza, mia fede, proiezione di ansia infinita
– elastico di senso, girotondo di girandole e voci, mia rosa di piombo:

è che siamo in attesa del tuffo:
(patiamo il risucchio dell’imbuto).




3.
Quanto sarebbe meglio, miei fiori appassiti,
piccole parti di me che lentamente decidono di accasciarsi,
seguirvi, verso i sentieri fitti di nulla,
seguirvi, come macchie di terra e impallidire con voi, piano piano
donarlo tutto questo sangue che si attorciglia nelle vene,
che anela, come un pazzo, nelle vene.
Eppure quando sei lì lì per scegliere la caduta,
quando ormai ti ha in pugno, ti ha risucchiato con i suoi umori di aria
(come voci leggerissime che si levano dal plesso solare)
e dici, va bene, sono tua, pozzo di mirto, verde bosco di pre infanzia,
ecco dunque che arriva una promessa di azzurro,
lo scintillio della prima risata, il forse dai, la mano dolce che ti riacciuffa.

Ce l’avevi quasi fatta, a inginocchiarti alla preghiera dell’oblio,
ed ecco che ti rituffi all’indietro (come se fosse tutto vero)
e subito dimentichi
il tamburo forte sul basso ventre, quel raduno di lombrichi
che hai al posto della gola, il rimbalzare del cuore, in perpendicolare,
per ogni no sbattuto sul naso: per ogni indelicatezza:
per le distanze tra te e le viole.

(Tutto allora sembra di latte, come se non ci fosse mai stato nulla di diverso,
dall’armonia pura delle sfere bianche, nulla che si discosti dal non colore,
solo aria di diamante e zinco, zinco a piovere dal cielo – piccoli granuli
di madreperla da accogliere sul fuso delle dita).

In un attimo, ti dimentichi dei pieni,
e come niente, tradisci le tue lacrime.




4.
La notte è un’ipotesi non verificata
se cala di colpo sul tuo corpo di Modigliani
spingendomi a regredire a noi due
a verificare i nostri corpi dall’alto.
Ma ragazzo mio:
ci sono assiomi che stanno come vedette
respingendo ogni avvicinamento
(a loro affido il sangue di sangue delle mie vene
questi frammenti in rotazione
la mia sera senza senso).
La legge del no non è la cosa più crudele,
è il suo schiudersi in minima probabilità
il musino di senso che sbuca dalla rete
ad attrarre le nostre mani di pane
per umiliarle, fustigarle sulla schiena di schiave
nere.
Contro questo dobbiamo rivoltarci
con occhi di bile,
contro la nenia
resisti, vai avanti, spera.
Molto meglio fermarsi su una, seppur falsa,
verità:
il muro è muro
e non può non essere muro.




5.
Eppure l’unica via di scampo ce la dà la gelatina
un po’ meno del ghiaccio, un po’ più dell’acqua:
ed è questo è il difficile, permanere
in una forma che il mondo rifiuta, sclerotizzato
fra evaporazioni e sublimazioni,                                                                            
su pause di ritmo che sono questo e tendono a quello.
La materia, se la ascolti,
te lo dice, che la gelatina esiste solo in cucina:
che l’io tende a fermarsi su una rigidità,
perché ha paura del risucchio                                                                                             (lo teme, l’inferno: lo brama – sono le sirene dell’abisso, il pianto antico                 
che da sempre ci appartiene come un noi ma riflesso – vapore bianco –         
come un noi ma vagante).
Il divenire è una legge crudele:
quanto sarebbe meglio potersi fermare su uno stato!
crocifiggerlo a dovere,                                                                             
proteggerlo nella propria bocca calda di bosco.
E invece tutto diventa cancrena, se si fissa:
allora va via, scappa, corre
smania di voglia di vivere                                                                                     
diventa il mostro energetico,                                                                             
l’atleta che non prende fiato:                                                                                               li vedi i pollini come impazziscono nel vento,                                                               
li vedi come scalpitano e esaltano l’aria di azzurra fanciullezza?
Ma tra forma e forma, non sarebbe meglio
cercarne una non dico perenne, ma minimamente stabile?
La gelatina è la risposta. Ma non è facile
trasformare ciò che è osseo in mollezza,
redimerne la pretesa di esistenza,
trasformare il suo narcisismo in moto continuo.
Ah, quanto sono brevi i moti dei fiori,
come subito ti schianti, gloria del mondo! Come scende
la montagna, di botto, dal picco
del proprio sé puntuto.
E quanto sei difficile, porta
che stai tra essere e non essere,
vita minimale ma forte, forte di nulla,
imbevuta di morte e per questo duratura,
attenta a non essere attenta.




6.
Chi l’ha detto che gli occhi
devono per forza girarsi,
chi ci dice che non possiamo dimenticare?
Le cose possiamo lasciarle senza contorno
senza l’abbraccio della parola:
il diamante che fissa il nucleo molle,
la violenza accecante della tettonica a zolle.




7.
è nel più piccolo dei microcosmi
che puoi trovare la salvezza.
Non sai vivere se non sai sprecare.



Laura Di Corcia, nata a Mendrisio nel 1982, ha conseguito la laurea specialistica in Lettere Moderne, con una tesi sulla poesia italiana del Novecento, occupandosi di Giovanni Raboni, Guido Gozzano, Umberto Saba, Giorgio Caproni e Patrizia Valduga. Terminati gli studi nel 2007, ha iniziato a frequentare il mondo del giornalismo. Dopo un paio di esperienze all'estero (a Berlino e a Los Angeles) è ritornata nella Svizzera italiana dove collabora con diverse testate, occupandosi soprattutto di teatro, cultura e servizi di approfondimento. Oltre ad aver partecipato a diversi Festival, tra i quali Europa in versi e Topolò, ha curato la biografia di Giancarlo Majorino, uscita per la casa editrice “La vita felice”. Di recente ha pubblicato il suo primo libro in versi, Epica dello spreco, presso la casa editrice Dot.com Press. I suoi testi appaiono anche nelle antologie Più non sai dove il lago finisca (stampa) e Fil rouge (Cfr).

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