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martedì 18 dicembre 2018

Rosa Salvia su Beppe Salvia



Per le Edizioni Via Del Vento, nella preziosa collana di testi inediti e rari del Novecento a cura dell’editore Fabrizio Zollo, fresco di stampa è il volumetto n. 83 I pescatori di perle. Raccoglie un racconto già edito e due prose inedite di Beppe Salvia che ci consentono di conoscere ulteriormente il poeta lucano pian piano scoperto ed apprezzato solo dopo la morte.

Desidero proporre una mia nota di lettura prima di trascrivere la riflessione critica di Pasquale Di Palmo, profondo conoscitore della poesia di Beppe Salvia di cui si è occupato ampiamente anche in passato pubblicando con le Edizioni Il Ponte del Sale l’antologia “I begli occhi del ladro”.
Il racconto I pescatori di perle si apre con queste luminose parole: “I pescatori di perle di Porto Haye sono i più felici uomini al mondo. […] In primavera tutta la costa festeggia il raccolto delle perle. E le ragazze, piccole ma belle e chiare di pelle, sposano i ragazzi […]”.
Al contrario, i personaggi che seguono, primo fra tutti il napoletano Daniele, accennati, con pochi, rapidi tocchi e con eccentriche connotazioni realistiche, sono accomunati dal segno di una incompiutezza palese o nascosta, straniti nel mondo, malinconici o apatici. Ma al di là di questo voluto ‘chiaroscuro’, conta l’atmosfera, contano gli ambienti e la ‘fabula’, la stessa vicenda narrata, nel cui tessuto spiccano frammenti descrittivi di un iperrealismo allucinatorio, onirico. Salvia decostruisce la realtà, la notomizza, affonda nell’inconscio. Egli è consapevole di scavare nel profondo, e allo stesso tempo conserva una purezza ingenua. La sua esperienza estetica e la sua creatività lo spingono a restare all’oscuro, quasi in un cono d’ombra fra l’amore per la natura e la bellezza e la paura e il timore della morte che aleggiano negli uomini e nell’aria. “Così dunque s’annuncia la tempesta nei lembi scrupolosi d’una giacca appesa ad una seggiola in cabina, e nel vestito grigio di Destri, e nell’occhiale. Allora come un fosco silenzio prenatale cova e ribolle nelle viscere, geme e s’infuoca verso orizzonte. Il più lieto degli dei s’è assentato. E credo ci sia sempre qualcun altro nell’istante della morte estrema a spogliarci della nostra propria vita. Daniele non ha pace, va e torna e scende e sale, ma è così ed è un fatto. Ma è così e questo è stato fatto”.

Il giovane scrittore costruisce infiniti specchi nei quali raddoppia la sua immagine e vi si lascia fluire anche attraverso le due figure femminili, diverse nel nome (la bellissima moglie Ester che lo accompagna nel viaggio a Berlino e l’amica Bella nel racconto Inverno) ma fugaci e aleatorie nel mondo e nel modo nei quali pure Salvia è costretto a vivere.
“Dispensatore di perle”, come Pasquale Di Palmo lo definisce, Salvia sfugge all’omologazione, al conformismo, alla norma, al pensiero incastrato in abitudini, attraverso la scrittura misteriosa e necessaria che gli consente di comunicare con sé stesso e agli altri e ‘a nessuno’ la sua ribellione e la sua passione.
L’uomo Beppe si eleva, allo stesso tempo, differenziandosi, e trova la sua raison du coeur: esiste solo in quanto differenziandosi.
Appare al contempo un metafisico del cuore e del quotidiano.
Succede così che i virtuosismi e le preziosità della lingua servano a velare, con la dignità di una mediazione coltissima, le pulsioni più oscure e le situazioni più crude.
Nel racconto Berlino, vagamente autobiografico, lacerti del quotidiano, oggetti usuali riprodotti con maniacale precisione, acquisiscono, disancorati da riconoscibili coordinate spazio-temporali, significati tra il sempre uguale e il nuovo che appare e scompare. La profonda intimità del regard familier (Ester incinta, i soldi che mancano) si piega alla pochezza, del reale, ci conduce fin dentro l’indifferenza di una Berlino fredda e inospitale. “E a Berlino ci arrivammo in ottobre, faceva già molto freddo. E il primo dei nostri rifugi fu una cabina telefonica, in una strada buia di periferia. Là facemmo l’amore e un topo nel frattempo rosicchiò un angolo dello zaino. Lo rattoppammo in un caffè, dove passammo quasi un’intera notte …”; “Ester non si alzò dal letto per tutta la giornata, e anche per altri tre quattro giorni. Di giorno spostavamo il letto accanto alla finestra e lei guardava fuori per ore. Berlino l’immalinconiva. La notte mettevamo il letto contro la parete della porta, perché là dentro passavano i tubi del riscaldamento.”
Si proietta all’occhio una realtà tediosa e desertica. La voglia di dire sì alla vita urge, ma, allo stesso tempo, la stanchezza e la sfiducia le fanno da resistenze impietose: si crea allora, come anche nel racconto Inverno (nella raccolta poetica Cieli Celesti sono i bellissimi versi “Inverno dello scrivere nemico”, come precisa lo stesso Di Palmo), un susseguirsi incalzante di immagini ad un ritmo a corrente alternata in una sorta di specchio contro specchio a moltiplicare all’infinito.
In Inverno, ciò che fa da sfondo è il rigido dicembre prossimo alla malinconica fine d’anno del borgo natio in cui “la neve intorno, assenza d’ogni cosa, era incantata lavagna”.
Qui da ragazzo Salvia viveva i suoi giorni più belli, “non i felici tra i giorni ma le perenni ore del cuore”.

Il cuore assume allora forma di pendolo, oscillante nella dialettica fra il corpus femminile (la voluttuosa e fuggitiva Bella con la quale “Rimanevamo uniti sotto il cielo. E sulla terra provvedevamo a sognare il mondo che non torna agli uomini.”) e la mens maschile che prova a districarsi fra memoria, sogno e riflessione, attingendo ora a un più severo piano di negazione dell’io, ora a un amoroso e crudo faccia a faccia con la vita e con i suoi confini. “Ma noi prossimi al desiderio noi amanti sconosciuti l’uno all’altro dovevamo essere l’animale e il dio, passare le sbarre, crescere in noi la sapienza, la vergine forza che ogni volta genera in un mondo vuoto la vita.”

                    
   Dalla Prefazione di Pasquale Di Palmo a Il dispensatore di perle

I pescatori di perle è sicuramente la prosa più risolta ed elegante. Venne composta nel 1984, apparve postuma nel n. 36 di ottobre-dicembre 1990 della rivista «Nuovi Argomenti» e successivamente fu inserita nell’antologia, curata dal sottoscritto, I begli
occhi del ladro (Il Ponte del Sale, 2004). Il frammento Berlino e Inverno risalgono al 1981 e risultano inediti; Inverno è il rimaneggiamento di un testo allestito qualche anno prima e successivamente perduto, sorta di reminiscenza infantile sulla sua città
natale. Per la nostra edizione ci siamo basati suidocumenti messici cortesemente a disposizione dal fratello, il pittore Rocco Salvia: si tratta di copie di manoscritti e dattiloscritti che presentano qua e là alcune lacune o parole di difficile decifrazione.
Questo trittico ci permette di rendere omaggio, ad oltre trent’anni dalla scomparsa, ad un autore che seppe districarsi con estrema raffinatezza tra poesia e prosa. Il suo stile ha una compostezza di taglio classico, corroborata dal frequente ricorso ad arcaismi e termini aulici. Vengono in mente, a tratti i modelli delle Operette morali di Leopardi, non a caso citato nei Pescatori di perle, e di Landolfi, a cui Salvia dedicò una breve prosa, intitolata La cappella Landolfi a Pico, emblematicamente apparsa nello stesso numero di «Prato Pagano» in cui figura anche il racconto Un uomo buono le sue dolci colpe. Qui abbondano le descrizioni della provincia meridionale che ricorrono anche, con intenti palesemente dissacratori, nell’opera dell’autore di Rien va. Ci sono inoltre parecchie analogie con le tematiche presenti nei testi poetici, a cominciare da Inverno che non può non far pensare alla lirica e alla prosa eponime proposte in Cuore (cieli celesti) o all’Inverno dello scrivere nemico, come si intitola la sezione iniziale della stessa raccolta, quasi ad evidenziare una dimensione spirituale che rimanda all’explicit della sua lirica più famosa: «Sembra d’aver / qui nella casa un’altra casa, d’ombra, / e nella vita un’altra vita, eterna».

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