Pubblico, in due parti, una riflessione di Matteo Bonsante sull'essenza della poesia, mettendo in relazione la propria con quella di una tradizione legata all'ontologia.
Esiste una poesia
perennis come esiste una filosofia perennis?
Già da tempo
per la filosofia, come è ben noto, è stata coniata una locuzione che comprende
convenientemente tutto il senso della ricerca filosofica più alta. Di tutti i tempi e di tutte le
latitudini. E cioè la locuzione filosofia perennis. Espressione che sta
a indicare come essenzialmente le grandi filosofie di tutti i tempi e di tutte
le latitudini, confluiscano, tutte, verso uno stesso compimento (miraggio,
conclusione, utopia, verità etc.) che è quello detto della non dualità. In
sanscrito questo approdo è chiamato advaita. In termini semplici ciò
significa che tutti noi, con i nostri piccoli o grandi 'io', siamo distinti
solo apparentemente e solo in superficie. Ma nel profondo e nell'essenza siamo
tutti la stessa cosa. Noi e il Tutto siamo una stessa cosa, siamo
Uno. Advaita significa non dualità.
La stessa
sintesi – a larghe trame – crediamo si
possa operare per la poesia, creando in parallelo la locuzione poesia
perennis. Poesia capace di porsi domande finali tutte confluenti. O meglio
poetiche tutte tendenti verso una stessa visione (o quantomeno una stessa
tensione) verso il Tutto o verso l'infinito. Il che sembra essere la stessa
cosa. Naturalmente non arriviamo a dire che una differente poesia, cioè una
poesia orientata diversamente, non possa esistere. Esiste eccome! Un esempio
per tutti è la poesia di Prévert. Semplicemente diciamo solo che una poesia tendente,
nel corso dei secoli, al Tutto esista
e che possa formare quindi la cosiddetta poesia perennis. Tutto
qui. L'auspicio è che i lettori di questo blog che condividano questa mia
enunciazione (meglio forse dire tentativo), si mettano in gioco dando il
proprio contributo per rendere attendibile il parallelo che stiamo delineando
tra la filosofia perennis e la poesia perennis. A questo scopo ho
seguito il seguente criterio: scovare poesie, anche remote, orientate nel modo
detto ed accostarle a poesie recenti o addirittura a proprie poesie per
certificare la perennità di questo orientamento poetico. Propongo questo
criterio nella speranza che anche altri poeti, o semplici lettori di questo
blog, lo seguano. Con questo procedere coralmente, potremmo delineare in modo
credibile ciò che abbiamo chiamato poesia perennis.
Diciamo subito
che poesie idonee a puntellare il nostro tentativo si trovano in tutti i tempi
e in tutte le latitudini. A larghe falde possiamo affermare che poeti così
orientati si trovano in area islamica (Rumi, Omar Kajan …) in ambito indiano si
va dai grandi Rishi delle Upanishad a Tagore etc., in ambito estremo orientale
troviamo poesie taoiste e poesie zen. In ambito europeo: Dante, Leopardi,
Montale, Baudelaire, Blake, Hörderling, metafisici inglesi Pessoa e tanti,
tanti altri che via via saranno certamente segnalati da vari lettori. Crediamo
pure che generalmente la grande poesia sia comunque sempre rivolta al Tutto.
E cominciamo
subito a esemplificare comparando alcune liriche recenti con liriche remote e
meno remote, come sto per fare. E sono costretto però a citare la mia stessa
poesia sia perché è quella che conosco meglio, e sia per invogliare altri poeti
che possano, con i loro stessi testi, contribuire a rinvigorire questa mia
tesi.
Ed ecco, di
seguito, alcuni accostamenti (spero non arroganti. Non altezzosi).
Consideriamo
Leopardi e la sua poesia più nota l'Infinito. Su questa poesia non dico
niente perché è stato detto tutto e più di tutto. Avvicino a questa famosissima
lirica (absit iniuria verbis!) la mia poesia Cosmo di pag. 145 da
Zìqqurat, raccolta confluita nel mio libro ricompositivo poesie 1954 – 2004,
lirica che riporto di seguito:
COSMO
In
fuochi e bende, eterno deliqui di
neonato.
Ti tendi nell'esplodere di notturne
danze.
- Mi assorda il coro e il caos
dei tuoi infiniti numeri.
Sei
altalena, buio, vagito, estate.
Mente
che si sfrangia nel tuo ventre.
Esilio.
- la casa e il cane
in una visione sghemba del tuo
centro.
A un attento
esame, possiamo accorgerci che questa poesia altro non sia che il rifacimento
dell'Infinito di Leopardi, con una visione più moderna della realtà
cosmica. Posso onestamente affermare che, quando ho composto questa lirica, di
non aver tenuto presente – almeno coscientemente – la lirica di Leopardi. Dico
più moderna, solo per il semplice fatto che questo mio componimento è stato
scritto 150 anni dopo quello del recanatese. E quale è la differenza tra i due
sguardi sull'oceano infinito della vita? La differenza sta nel fatto che
Leopardi innanzi alla 'infinità del cosmo' dolcemente naufraga, con un
senso di abbandono religioso. (Di questi momenti lirici ce ne sono altri che
smentiscono il Leopardi filosofo), mentre nel nostro sguardo, c'è la
rivelazione e l'affermazione che il centro dell'infinito cosmico altro non sia
che la coscienza umana (la casa e il cane...), anche qui c'è un senso di
vaga religiosità capace di testimoniare e accogliere l'infinità, senza
naufragio dell'io. Un io che si sente poeticamente centro vivo e
palpitante dell'infinità. Del resto la fisica di questi ultimissimi tempi
attesta che l'intero Cosmo non è che co-creazione della coscienza umana. Ma qui
si aprirebbe un diverso sentiero che ci porterebbe molto, ma molto lontani, dal
viottolo che vogliamo percorrere].
Non so come
sarà accolto dai vari lettori del blog questo mio accostamento e questo mio
argomentare.
Adesso cerco di
precisare meglio quello che intendo, con un’altra lirica di poesia perennis
(inserita cioè in un alveo di comune tensione e ricerca). Tutti ricordiamo
il bellissimo ultimo verso di Baudelaire tratto dalla lirica Le Voyage, dai
Fiori del male:
A soi même
Ô Mort, vieux capitaine, il est temps ! levons
l'ancre !
Ce pays nous ennuie, ô Mort ! Appareillons !
Si le ciel et la mer sont noirs comme de l'encre,
Nos coeurs que tu connais sont remplis de rayons !
Verse-nous ton poison pour qu'il nous réconforte !
Nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau,
Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu'importe ?
Au fond de l'Inconnu pour trouver du nouveau !
Ce pays nous ennuie, ô Mort ! Appareillons !
Si le ciel et la mer sont noirs comme de l'encre,
Nos coeurs que tu connais sont remplis de rayons !
Verse-nous ton poison pour qu'il nous réconforte !
Nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau,
Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu'importe ?
Au fond de l'Inconnu pour trouver du nouveau !
Ed ecco la mia
poesia in continuazione, oso dire (anche qui absit iniuria verbis!, ma
di tutt'altro timbro, di tutt'altro tono e certamente più tenue e lieve, della
poesia di Baudelaire, tratta da Lapislazzuli
CFR edizioni 2011, pag. 124
Lasciarsi
andare... Attraversare
astri
e numeri senza più ancora
né
sostegni. Sibilare su giorni inabitati,
senza
indicazioni. Credere fortemente
che
in fondo all'Ora c'è la pacificazione
e
alto spazio e vanto. Non girarsi indietro.
Perché
il mondo e i suoi arcani
volano
con te. Circolarmente con te.
Verso
una più ampia tavolozza
di
giorni, di sogni e di colori.
A me sembra che
questa poesia sia il prosieguo della lirica di Baudelaire. Laddove Baudelaire tenta
il balzo nell'Inconnu, (scritto con la maiuscola), qui il balzo non solo
(poeticamente) è compiuto, ma è anche annotato, descritto, esposto direi. Reso
plasticamente percepibile. Il possibile lettore condivide? Chissà?!
E accostiamo
ora una poesia di Archiloco intitolata Eclisse
– un testo che risale a oltre 2700 anni fa circa – a una mia poesia che porta
lo stesso titolo. Poesia questa del nostro tempo e del nostro sentire, scritta
nei primissimi anni sessanta del secolo scorso. Leggiamo:
Archiloco
ECLISSE
Non c’è nessuna cosa
inattesa né scongiurabile né meravigliosa,
quando Zeus, padre degli
Olimpi, fece notte da mezzogiorno
nascondendo la luce del
sole che brilla. Il timore umido
scese sugli
uomini.
Dopo questo tutte le cose per gli uomini sono credibili e spettabili
Dopo questo tutte le cose per gli uomini sono credibili e spettabili
nessuno fra voi guardando
si meravigli, neppure se le fiere con i delfini
si scambiassero il pascolo
salmastro e le onde riecheggianti del mare
diventassero più graditi
della terraferma a loro, e agli altri inabissarsi nel monte.
Ed ecco di seguito il testo della ECLISSE diciamo dei
nostri giorni
ECLISSE.
Un sudore di paura ha imperlato
gli uomini.
Ormai tutto potremo credere
possibile.
Archiloco.
Nel raglio d’asino, carica di
festuche, la terra
si inarca nella sua eclisse. nel
fresco piegarsi
del giorno.
Eclisse.
Il vento si insinua radente
all’aprirsi del-
l’aria.
Restiamo sul bilico di un più
ampio respiro.
Eclisse.
Incontinenza tra cupole che girano senza domani.
E c’è odore di pietra, odore di
zolfo, odore
della forma più pura delle
altezze... su vasti tetti,
nella grande cisterna che – fucina
di sghembi balconi –
gira in vapori di assenzio e
giusquiamo.
Fiordi di pittosporo
illanguidiscono estreme
opalescenze.
E la pietra schiaccia la pietra. Il volto ricerca il
volto. La foglia d’acanto della felicità, chiusa nel
gelo
della sua purezza, ha forma e misura di domani...
Su vasti tetti.
Eclisse.
Sospensione del desiderio.
Maree notturne in schiocchi di scalmi hanno
squassato l’ufficio legale del
giorno. Nei soppalchi
di cristallo i guardiani del silenzio dischiudono
scalee nelle assenze. Il dito sulla bocca.
E tutto è immobile contemplazione
tra secchi ricolmi di bianco
latte.
– Riformuleremo nuove certezze sulla sintassi dei
cieli con nomi e sestanti d’alito?
Eclisse.
Il grande Tiresia – signore di molte stagioni – ricco
di squame, ha coperto con neri montoni le sue
meraviglie. Ci porge in dono la notte – il fondo
buio del cuore – e voci d’ombra.
E già i conciatori di pelli e i
cacciatori di tigri
gridano da riva a riva. Si
accalcano
i seminatori d’orzo. Squillano i metalli delle
ellissi e l’istante, lento e incombente (insondabile)
è tutto nel peso
della sua presenza... su vasti tetti.
Eclisse.
Scienza dell’anima.
Scivolerò con rude arte nelle piramidi di
un’antica cabala. Nella forma più pura
del sorgere delle stagioni. Più vaga della esalazione
del fiore nel suo marcire. Più fonda
della esaltazione dei venti sui loro fragili steli.
Tra sete e canto.
(Spore del desiderio – guardinghe
nella loro cipria –
si sfaldano in uve nere.
Arcipelaghi di corrusca
saggezza vagano in fiordi di
salgemma per formare
con le campanule del temporale il
cuore del corallo
marino). Il cielo è nelle acque.
Eclisse.
L’occhio del rapace squilla lungamente sui balconi
del mondo.
Si alza il vento.
Sulla terra.
*
A un attimo dal nulla il domani resiste.
Come è ben
evidente, il bellissimo testo poetico di Archiloco è volto tutto alla grande
paura e al grande sbalordimento che generava l'eclissi soprattutto in epoche
molto lontane. Nella mia poesia c'è generalmente questo senso della meraviglia
ma, prendendo le mosse da tanta meraviglia, si eleva (ripeto 2700 anni dopo, e
dopo la rivoluzione scientifica del 5/600 e quella del '900) a visioni molto
nuove e precorritrici di tante scoperte che sarebbero via via venute, come ho
già detto.
Questa poesia
giovanile è stata composta, nel lontano ahimè 1961, in occasione della eclissi
totale del febbraio di quell'anno. In questa poesia c'è l'apparizione e il
dispiegarsi di un cosmo in-percepito dagli stesso studiosi. I buchi neri, le
energie oscure, le masse oscure etc. verranno dopo).
Questa lirica
può essere ascoltata su YouTube digitando il mio nome e cognome nella barra di
ricerca di YouTube. Nel filmato n° 3 [a
3 minuti e 15'' dall'inizio].
E lasciamo ai
lettori l'eventuale commento di assenso o di dissenso a questo mio dire.
[la seconda parte Lunedì 14 gennaio]
Nessun commento:
Posta un commento