Autori inediti ogni tanto fanno bene a Blanc perché il blog recupera una delle sue ragioni: essere faro, sia pur modesto, per chi cerca uno scambio sincero, senza ipocrisia. Questo vale anche per chi, come Fiorella D'Errico, insegna italiano e dunque incontra la letteratura per professione. La scrittura creativa è infatti un'altra cosa, come ben ha sperimentato chi tenta di praticarla con umiltà. La pagina bianca fa resistenza, trattiene per sé le parole che vorremmo seminare, le assorbe tutte e resta bianca, spesso. La sfida è superare l'accecamento, avere il coraggio di donarle agli altri, purché – e qui entro in merito alla poetessa di oggi – siano lettori sinceri, belli come amanti, che non chiedano alle parole-spose che di lasciarsi avvicinare. Ciò che troveranno, ci dice la D'Errico, saranno i tremori, le domande, il corpo bello del testo in perfetta corrispondenza con la vita di chi le ha depositate nell'harem. l'immagine è esotica, e l'aspettativa molto femminile, vissuta tra l'attesa e il desiderio, due tensioni che qui trovano anche altri luoghi, inaspettati, sempre legati al corpo: la macelleria, per esempio, ma evitando vicinanze con l'intensa immaginazione erotica di Alina Reyes ne Le bucher, scegliendo invece la via interiore di un corpo esposto alla vergogna degli sguardi, denudato dalla morte e da un certo tipo di civiltà, nella quale i deboli sono appesi al "gancio". La mia poesia cerca coniugazione nella sensibilità del lettore ed io sono esposta al venti freddi dell'ordinario, sembra dirci l'io lirico della D'Errico, epigono di tanta letteratura moderna, il cui perno, direi, è l'inetto primonovecentesco. Forse di mezzo c'è anche un amore perduto, per cui la debolezza non è fisiologica o letteraria, bensì d'occasione; sta di fatto che queste poesie, prima di fare i conti con il genere, sono una voce che chiede accoglienza ad un lettore che abbia la capacità di guardare oltre le apparenze, di un "estraneo premuroso", lei stessa estranea, inetta, appunto, "martire", cui contrappone qualche raro passaggio autoironico ("voler assomigliare alla Merini") che non guasta in questo scenario teso. Ci potremmo chiedere se tutto questo basti a giustificare la poesia. Evidentemente no, malgrado, del poetico, siano ben riconoscibili alcuni tratti: un dettato discretamente asciutto, scolpito al punto da proporre una doppia interlinea, uno sviluppo grammaticale ma non monotono nella scansione, ogni tanto dominato dalla prosodia; tutte scelte che attestano la fiducia nella comunicazione, come appunto si diceva a proposito dei temi. La sua ricerca, tuttavia, non è ancora compiuta, nella misura in cui permangono ingenuità fonetiche (la facile rima baciata pelle-stelle; bella invece tutto-lutto) e una debolezza immaginativa, che preferisce prendere in prestito dalla realtà le immagini, limitandosi a descriverle, anziché crearne di nuove, più dense e analogiche. Si potrebbe rispondere che scegliere la realtà è già dichiarazione di poetica; tuttavia, basta leggere Verga per capire come l'invenzione sia fondante. Ho il sospetto, comunque, che certe soluzioni stilistiche si siano piegate all'urgenza emotiva, che siano state sacrificate in nome di una biografia da raccontare. Meglio sarebbe che fosse la biografia stessa a scriversi, a riscriversi nel testo, a rifarsi nuova e mai udita nella poesia, senza bisogno di un narratore esterno, che la imbrigli in figure note (è il rapporto tra chi scrive e chi è scritto in un testo poetico: vecchia questione che ogni poeta deve sperimentare in proprio e risolvere, se vuole trovare la propria voce). Ciò detto, e riconosciute consapevolezza e lima, invito Fiorella a non accontentarsi dei risultati raggiunti, a costo di rimanere senza parole da amare, a costo di lottare con queste spose, così che finalmente parlino malgrado lei.
dalla raccolta inedita Ciclotimie
1.
Come donne velate
in un harem
le mie poesie sono malate
di solitudine e fiabe.
Spose in attesa
della prima notte
chiara, senza vento
in cui spogliarsi di tutto
agli occhi dell’amore
a lungo immaginato.
2.
Mi sembra di averne tante di parole
eppure, ogni volta, frugando
non ho che polvere nelle tasche
cucite a pelle.
E non è di stelle.
Sono rimasugli
cose sfaldate
al sonno che mi insegue,
cellule invisibili degli eventi
che mi hanno fatta così
come sono.
Piccoli resti
da inanellare sul foglio
e legarci un discorso di vita.
4.
Ne resta il segno, vedi
quando sconfiggi il chiodo.
Nessuno nota
quel piccolissimo vuoto
a meno che l’occhio
sia un estraneo premuroso
trapassi le risate e scopra
quanto sappiano mentire i muri
per la pietà dei morti.
5.
In macelleria, impietrita dalla carne
rossosangue
ero misteriosamente attratta
non so da cosa
ancora me lo chiedo adesso
che sono anch'io un martire, pendente
al gancio nero dei muri
freddo e poi vivo
del liquido intatto.
Forse è il pensiero
di come apparteneva, quella carne
ora così insensibile alla lama
all'esposizione di sè
nuda dalla vergogna
quale il senso del lutto
mischiato ai ricordi, le piaghe, tutto
6.
Nel vuoto incuneati i corpi
nuotano sperduti e a un punto
si incrociano in assenza
di predestinazione
invenzione dei pensieri stanchi
alle fermate alle stazioni affollate
piccole passioni
dalla involontà divina
i biglietti le destinazioni
le improvvise agnizioni
sesso e soluzione
racconti
(eri tu il volto fratello
separato alla nascita, tu
sull’altro lato
dolcezza di sguardo
e un timido cappello?)
7.
E non schiara
questo fondamento scuro
di vergogna strana
che mi accompagna.
Se non quando il corpo
è tutto nel foglio
davanti a me bianco
poi macchiato dalla vita
libero di sé stesso
testimone solo.
9.
A gambe aperte
ogni mese del mese
del mese che torna
finché si pregherà
che non sia chiuso
il giorno
Questo grumo
corpo sempre uguale
monstruum meraviglioso
di buio e di luce
il cromosoma a croce.
Ma per un’ora
sapere cos’è dentro un uomo
bagnare al vento i muri
compenetrare
E un seme
un seme nel cavo
da asciugare.
10.
Il respiro manca sempre
come una riserva scarsa
trivello al fondo del torace
a fiati lunghi, ma
lo zampillo non ha altezza.
Mia madre direbbe
Sono le sigarette
Non ci credo
è la consapevolezza
voler assomigliare alla Merini.
11.
Alzando il collo
come per un miracolo di uccello
spostavo il piede sul confine d'alberi.
Già scritti alla gola suoni e suoni
nell'idioma del ventre, spiegavo a me sola
e bastava.
Poi vincono le cose giuste.
E camminare di sbieco
ombra delicata, la madre
usare i mezzi consentiti
la buona figlia senza voce
ingoiarmi fino a tardi
toccare i piedi con la schiena
bruciare la luce.
12.
Dal letto alla porta, sui piedi
colpevoli
lo spazio bianco i gesti
in camiciato verde - il respiro
perché ancora c'era?
Uno sfregio più alto
l'ho pregato alla mano
uno scavo più al fondo.
Mi aprivo ingolando
lo prendo io il male
E non avevi voce
e non avevi niente altro
che un sangue immondo di madre.
Fiorella D’Errico vive e lavora a Roma. Pubblica su web al seguente indirizzo personale: http://www.fiorelladerrico.wordpress.com/, e ha una sua pagina su Facebook.
Suoi testi sono apparsi sui blog letterari: La stanza di Nightingale, VDBD – Via delle belle donne, Rosso Venexiano, Vir – us.
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Grazie infinite a Stefano Guglielmin per questo prestigioso spazio, e per la sua recensione a dir poco completa e - per me- di grande incoraggiamento.
RispondiEliminaFiorella
Una scrittura viva, e concordo in tutto con quello che ne dice st.. Mi piace molto il fatto che, a differenza di molta poesia "femminile" di adesso, la fisicità non venga esibita ma vissuta.
RispondiEliminafrancesco t.
Grazie a francesco t.
RispondiEliminaF.
spero lo sia davvero. anche le parola di Francesco ti indicano una direzione.
RispondiEliminaRileggendo, mi ritrovo lontana e vicina. Ma soprattutto, in cuor mio ti ringrazio sempre Stefano :-)
RispondiEliminaCiao e ad maiora!