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martedì 26 ottobre 2010

Una risposta a Marco Giovenale / una parola sul "fondamento"


Rispondo prontamente ai rilievi critici mossi da Marco Giovenale in Slowforward a proposito della mia recensione a Prosa in prosa (Le Lettere, 2010) uscita sia su "Le Voci della Luna" e sia su Blanc de ta nuque (cfr. 15 settembre 2010).


 Partendo in medias res (e con un impeto che spero non sia irritante), dico: se, come ha scritto Tarkos, "to tell the truth, uh oh, that'll cause the revolution", allora voglio capire da ciascuno di voi che cosa intende per "verità" e per "nuovo" (implicito nel richiamo alla "revolution", ma anche caro a tutta la modernità, che lo pensa quale 'superamento con scarto positivo', e quindi riconoscendolo auspicabile a prescindere come sinonimo di progresso, avanzamento, crescita). Resi espliciti questi due fondamenti, posso distinguerli da quelli, per esempio, di Platone, Aristotele, Sant'Agostino, Spinoza, Kant, Hegel, Marx, Darwin, Wittgenstein, De Saussure, Heidegger, Popper, Deleuze, Derrida, e decidere con maggiore serenità se la posizione di GAMMM ha o meno una radice positivista.


Ancora, e cito Juliana Spathr quando afferma, a proposito di The fatalist della Hejinian, che in esso c'è la dimostrazione "how poetry is a way of thinking, a way of encountering and constructing the world, one endless utopian moment even as it is full of failures."; a parte l'evidenza che sono molte le tradizioni culturali che trovano una forte relazione fra poesia e pensiero, vorrei sapere, parafrasando Heidegger: ma che cosa significa, per ciascuno di voi, pensare? Lo chiedo anche per poter affermare che, quando si recensisce un libro collettivo, si pensa sempre in termini generali, sacrificando, per ragioni di spazio, il particolare: penso 6 e così tolgo le singole unità, che troveranno inevitabilmente ingiustizia in quel numero impersonale, che li rappresenta solo parzialmente (ma su Broggi e Giovenale ho già scritto altrove e spero di poterlo fare anche sugli altri, prima o poi).


En passant: pretendere dal lettore di conoscere l'opera dei padri per giustificare i figli, non è leale nei confronti di nessuno, e rischia di assomigliare proprio a quello che hanno fatto gli epigoni di tutti le poetiche del XX secolo. Se vogliamo misurarci con "la degradazione dei significati e l'instabilità fisiognomica del mondo" (Giuliani) oltre che con quanto di buono ci ha insegnato la grande tradizione neoavanguardista, che ha in Italia i più eccellenti pensatori (per esempio, senza Banfi e Paci non ci sarebbe l'Anceschi del "Verri"), la prima cosa da fare è "pensare", appunto, ossia confrontarci senza riparo con il naufragio che ogni azzardo porta con sé, con l'utopia della scrittura, che non è il senza luogo, bensì il luogo altro, da rifondare continuamente nell'adesso, da fare essere in quanto s-fondamento, rimando continuo al possibile, dialogo con un vero che è lo stesso inquieto oscillare del senso quando pensiamo, quando scriviamo poesia .Per me il dialogo fra "parole" e "langue" si istituisce quanto più siamo consapevoli di questo. Chiedo dunque a Marco: "la molteplicità lessicale", se attinta dall'infinito trattenimento che è l'archivio contemporaneo dei saperi, è davvero atto creativo del soggetto che si sa plurale, o rischia di essere attività poietica del soggetto che opera sulla natura del linguaggio così come il soggetto borghese agisce sul paesaggio, saccheggiandolo? Il ready made non ha questa ferita narcisistica dentro sé? Vero che tu distingui, nel denso commento espresso oggi su "Poesia 2.0" a proposito del saggio di Carlucci, tra ready made e sought object, considerando quest'ultimo quale voluntas, atto/scarto/scatto creativo; tuttavia, non è questa un' azione che compete a tutti i poeti degni di essere chiamati tali? Certo nel sought object non si pesca nell'indistinto o nell'"ignoto", come nella linea rimbaudiana, ma le due operazioni hanno uno scarto/salto/azzardo simile. Giusto poi ragionare sulle differenze, come tu affermi nel medesimo commento.


A proposito della semiotica e dello strutturalismo, non c'è polemica alcuna. Dico soltanto che è proprio di tali discipline concentrare l'attenzione su costanti e variabili testuali, focalizzando la verità del testo sulla natura misurabile dello stesso (il Nuovo paesaggio italiano di Broggi e Tracce di Bortolotti sono così lontani?). Aggiungo: il modello greimasiano è splendido, anche se, per ragioni di scientificità, è costretto a prescindere dalla massa oscura dell'identità autoriale e dall'imponderabile della ricettività nel fruitore, quell'opaco che, con grande ingegno, ci hanno fatto finalmente incontrare Barthes, la Kristeva, Lotman, sul versante sociologico e antropologico. Autori che amiamo tutti, ne sono certo. 


Infine: se dico che Prosa in prosa ha come referente critico la dominante lirica della tradizione italiana, non opero un accostamento arbitrario: 1) "prosa" è l'esatto contrario di "canto" (prosastico è aggettivo evidentemente antilirico pur se spregiativo, e canto, nella sua massima espressione – non solo etimologica - è lirico); 2) Prosa in prosa esce in Italia: non può dunque esimersi da un confronto con un dibattito che attraversa la nazione da almeno un secolo (dai Crepuscolari e dal futurismo?) e che ha proprio nell'elaborazione antilirica legata al Gruppo 63 e al Gruppo 70 un referente autorevole.


Sto parlando a dei fratelli, sia chiaro. Non dico: qui c'è qualcuno che ha torto; ma piuttosto: la ragione calcolante (e la dimostrazione, quale evidenza del torto altrui, ne porta il segno più dolente) produce guerra, nemici, silenzio rancoroso; pensare, che non è ragionare, implica invece il sentirsi parte di una rete di relazioni in cui ci muoviamo, nella quale il fraintendimento non è difetto, ma sano esercizio del prendere la parola, esercizio vitale che esemplifica il nostro essere gettati in un mormorio di voci che ci attraversano, con tutta la violenza che il 'prendere la parola' comporta. Una violenza, tuttavia, che strappa senso dalla verità in gioco e non dalla carne dei dialoganti. Sono convinto che anche su quest'ultimo assunto voi siate d'accordo.

8 commenti:

  1. ---prima parte----


    Gugl ti aiuto (essendo parente alla lontana di derivanti e derivati, gammici inclusi), sperando che anche tu riesca a lucidare lo scoglio del "calcolante" che smorza altre considerazioni di grande interesse.

    La distinzione a monte che appiattisce le posizioni pervicacemente sostenute soprattutto da Giovenale rispetto ad altri sbocchi su strade simili si deve a Chomsky e a Turing.

    Chomsky da un lato con la sua grammatica innata (a cui cerca di arrivare nella prassi Nigel Fabb con i suoi invarianti metrici) e Turing dall'altro con la sua macchina che ambisce a riprodurre di forza bruta l'infinita' delle combinazioni, grammatiche incluse.

    Entrambi -a livello software- sono conglomerabili negli studi medici neuroscientifici -a livello hardware- che vorrebbero fenomenicamente dire come funziona la mente umana. "Funziona", appunto.

    La critica di fare rigatteria, cosi' come la scelta di manovrare materiali essenzialmente di scarto, e' risolta da Giovenale in senso soprattutto politico: il soggetto scompare annegato in un mare di cose, quisquilie, ciarpame. Una risoluzione involutissima che obbliga il lettore ad un profondo sforzo di pazienza (con annesso sospiro), alimentata dal basso dai numerosissimi senza nome, senza storia, senza soldi e senza patria che fanno di quei metodi il loro modo di stare in rete. Modo numericamente consistente soprattutto in aree di provincia anglofona (i francesi li lascio perdere, la loro e' per me solo una posa).

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  2. --- seconda parte ---



    Un'operazione di senso diverso, che rispetterebbe molte delle premesse teoriche di Giovenale, la porta avanti Roberto Uberti col suo generatore di "poesie al minuto". Il trucco li' e' che la poesia non sono i testi in se', peraltro degnissimi e molto migliori di quelli di tanti poeti in carne ed ossa (migliori perche' purificati di tutto quello che per te Gugl fa poesia ed invece per Giovenale e anche per me e' solo pena, dolore e mancanza umana), ma la poesia e' il programma, il listato in linguaggio di programmazione e i suoi algoritmi.

    Da un punto di vista tecnico i lavori di riutilizzo di materiali in una qualsivoglia maniera possono tranquillamente essere meccanizzati, fatti fare ad una macchina stabilite le regole da seguire. E' una critica politica, appunto, peraltro vecchia di almeno 100 anni (Chaplin nei suoi film gia' mostrava tutto quello che Giovenale vuole mostrare e di-mostrare).

    Allora il punto diventa, ad una certa eta' e dopo anni alle spalle nei quali quel gruppo si e' man mano raffreddato (perdendo ad esempio Sannelli che cercava l'Altro, il femminile) e ha man mano allargato la sua influenza in certi ambiti del dire sia in rete che su alcuni giornali, il punto -dicevo- diventa politico. Ed in questo senso le tue critiche di epigonismo sono fondate. Critiche in un certo senso inscalfibili, con buona pace di rotoli e rotoli di enunciazioni, spiegazioni, dibattiti che in realta' sono ulteriori enunciazioni; perche' manca la materia viva, manca programmaticamente (e per limiti individuali dei vari componenti, non tutti siamo Sanguineti e nemmeno siamo Frasca) una linea guida, manca un progetto, manca una societa' alla quale aspirare.

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  3. --- ultima parte ---

    E' un tristissimo (detto oggettivamente, senza qualifiche di grado valoriale) riempirsi la camera di dagherrotipi, esperimenti, ciarpame. Lo fa anche Marina Pizzi nella sua fluviale ripetizione di stilemi, per dire, ma in lei lo scacco e' ancora uno scacco di vita, un patire. Con Giovenale siamo all' épater le bourgeois, ad un fintamente entusiasta e pervicacemente estenuato dilettantismo da primo novecento (tipo le strambe macchine o i bicicli-tricicli, le scatole nelle scatole) pre-fordizzato, pre-toyotizzato.

    Questa e' la reale fondanza di quel progetto: non poetica ma politica e soprattutto, come noti tu, italiana. Un rifiuto del bel canto, del bellettrismo e di tutte le buone cose di pessimo gusto da cui -poeticamente- quel tipo di operazione deriva nella nostra storia letteraria.

    La cosa grave -e qui chiudo- e' che il dilettantismo della critica (dai tuttologi di paese alla agli studentelli innamorati fino allo zdanoviano assenso dei sodali di lotta nelle condizioni materiali) non riesce minimamente a penetrare il traslucido al tungsteno -o al curaro- che quel tipo di operazione, pur epigonale, vuole significare in un dato tempo e in una data situazione come la nostra italiana. E dunque nei confronti di quelle robe scattano meccanismi che fondamentalmente inibiscono sia il pensiero (come lo dici tu, contrapposto a "calcolo" o "metodo") che il sentimento (che ritiene quei gesti insignificanti: ne' autistici ne' malati ne' salvifici, perche' non hanno al centro l'altro (e nemmeno se stessi)).

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  4. Caro GisCo, a bolte miattrivuisci cose che non dico. Ho tacciat odi epigonismo Giovenale? Ho detto che per me la peosia dev'essere così o niente?

    il cervello funziona, pare di sì. la poesia è un algoritmo, tavolta.

    e sulla verità, il nuovo, il pensiero che mi dici? Hai già scritto altrove, lo so. Come tutti noi del resto. Però: perché sparare sugli attori inziché sul teatro in sfacelo?

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  5. Non so Gugl, anche io del resto sono ormai privo della spinta di cui dicevo. E le lagnanze sul dilettantismo della critica toccano il problema della perdita di significanza della cultura, ma il teatro non e' allo sfacelo.

    Tu hai la tua storia, una comunita' e i tuoi libri, credibili oltre che validi. Cosi' li ha Giovenale. Questo tuo pezzo e altre considerazioni recenti sullo e dallo stesso autore hanno aiutato a mettere in forma commestibile alcune mie ipotesi.

    Ciao. GiusCo.

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  6. beh, allora ti ringrazio. (anche per aver capito che cosa ho scritto nel commento, con tutti quei refusi)

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  7. avverto una animosità in GiusCo.

    non gliene voglio.

    d'altro canto, temo non sia possibile replicare, trovandomi a svariati gigaparsec di distanza dal punto dove le sue annotazioni mi collocano.

    it's a long way home.

    e se io non sono Sanguineti (e me ne compiaccio), non vedo Pasolini in giro.


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  8. un nuovo saluto a Stefano, ringraziandolo dell'intervento, e confermandone l'uscita anche su slowforward domani mattina.

    :-) M

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