Pagine

venerdì 21 maggio 2010

Michele Obit


In debito con Luciano Morandini riguardo all'equilibrio tra intimismo e impegno, lui come tanti altri poeti friulani nati negli anni sessanta, come Francesco Tomada, Ivan Crico e Maurizio Mattiuzza, Michele Obit ne Le parole nascono sporche (Le Voci della Luna, 2009, pref. di F. Franzin) riconosce non soltanto la necessità di contaminare la lingua con la terra dalla quale nasce, ma, più in generale, l'impossibilità di una poesia pura, di un canto che non trattenga il sudore e il sangue della storia, la lotta per cui ci fa buoni il morire. Subordinando l'estetico per l'etico, il bello per il buono, appunto, Obit ritrae la contemporaneità sondandola dal fondo, dalle immondizie che la soffocano, ne segue il dettagli scabrosi, staccando lo sguardo solo per commentare manzonianamente il fatto, per renderlo esemplare. La coscienza civile guida la sua mano, e, per dirla con il Tasso, poco egli concede al fregio. Lo sostituisce una sintassi nemica del vezzo retorico, una voce antisublime che ci chiama all'ascolto, che ci vuole attenti e partecipi come di un progetto a venire, dove la felicità e l'affetto saranno di casa. Nel profondo dell'ispirazione, malgrado ci dica che le parole nascono sporche, egli crede ancora che l'origine incontaminata sia salva, che pulsi non nella lingua, ma in quel silenzio che ci tiene in vita, in quella "fragilità che c'è in ciascuno di noi", alla quale dobbiamo il desiderio di prendere la parola, di dire la verità. Il carattere schivo di Michele Obit ha radice culturale nella certezza che sia la creaturalità a testimoniare la salvezza, non le promesse, non le formule o le rime. Se scrive, è forse per l'assunzione di responsabilità del testimone, di chi, a nome di tutti, fa luce nella penombra delle opinioni, là dove l'inganno impera.





Le parole nascono già sporche


io pensavo avessero un loro candore
e che nel pensiero il feto
trovasse il tempo di liberarsi dalle scorie

le parole invece così non ci riunificano
in ciò che è - io non sono io e altro
non è altro - ma un conglomerato di io.

Io ero convinto che nel pensiero le parole
ritrovassero quel senso perduto delle cose
che oggi sta in una ciminiera fatta barcollare

(le microcariche non fanno esplodere
non qui - qui si cade di lato - pesantemente)
o nelle immagini di barche con uomini

alla deriva. La nostra vita quotidiana
è fatta di parole che nascono calpestate
prese a manganellate e violentate. Per

questo io speravo che almeno l'origine
avesse una discordanza con la fine.
Che le parole nascessero guardando la porta

di casa aprirsi o le mani timide di una figlia
o un pomeriggio fumoso davanti
alla finestra e al di là l'acquazzone

e le parole sentite gridare dentro
mentre lei condisce l'insalata
ed un sospiro si mescola con l'aceto

quelle parole io avrei voluto conservassero
una loro purezza - qualcosa che le avrebbe
preservate dalla ruggine e dalla mestizia.

Ma le parole oggi nascono ossidate
raccontano cosi la melma di questo tempo
il sacro distacco da ogni dovere

la ragione che non pretende ragione d'essere
le claudicanti verità degli avvoltoi
il dolce abbandono che ci aspetta.



**


Rimane lì a vedere come costruiscono
le case in una qualsiasi periferia - le chiamano
zone-cuscinetto - chilometri distesi
ad un passo dai monti e dalle

nuvole. Rimane ad osservare la ripetizione
quasi ossessiva di un paesaggio
- non carne secca e frutta agli
angoli - non la bella Juanita

che si asciuga il sudore con le pietre
e ringrazia - l'ossequio e le case
ed il mondo che circola nei cavi
e fuori la strada piatta e l'orizzonte.




**


Cosa tra canto e silenzio
concede più illusioni - assorbe
la circolarità immaginifica del tempo –
cosa porta una mano a scrivere

sul muro le parole voi siete
cosa porta ad aggiungervi dei puntini
e poi la mia famiglia e appoggiare
il gesso e saperlo per sempre.




Caiedo



Ancora non tocco il fondo - e può essere
non ci sia fondo - ancora non è il fondo
questo alzarmi ora dal mio corpo-letto
e spogliarmi del mio corpo-cella

e guardare da una finestra a forma di spillo
il mondo che si avvolge come su un nastro
centoventi minuti o una vita - un attimo
prima che si spengano i riflettori.

Ancora non esco da questa prigione
che ha strade ed alberi ed altalene
l'immondizia calpestata dalle auto
ormai impressa dell'odore dell'asfalto.

Vivere più di venticinque anni
è un'insensatezza - o è un'insensatezza
questo vivere - e fosse sufficiente
infilarsi le scarpe la mattina

sorridersi allo specchio ed evitare
che i denti stringano troppo forte
e con che coraggio cercare le chiavi per uscire
e l'ombra dei platani e delle betoniere.

Come chi scrive vorrei non andare a dormire mai
e quando dormo mai svegliarmi - un'irriverenza
forse - come un dirsi: è un'altra vita
e non questa e nessun'altra

che risucchia e concede spasimi
s'inebria e quatta quatta ti fa sprofondare.
Io allora ti mostro le mie mani legate
e ti dico il mio vagare appresso

così che potrai solo riconoscermi
mentre scendo e salgo lo scavo dei marciapiedi
mentre la rumba ha inizio - si ripercuote
s'infervora diventa frastuono lamento silenzio.



Andrés Caicedo, scrittore colombiano nativo di Cali (1951-1977). Ha scritto e pubblicato racconti e opere teatrali ed è stato critico cinematografico. È morto ingerendo una forte dose di barbiturici.




(zero punti in classifica)



Andate pure a vedere e capirete:
che Holan - che nulla aveva da mettere in mostra,
né il denaro né le scarpette di Saskia

che Thomas - che con la moglie stava in spiaggia
a pescare telline per la cena

che Vallejo - che a Dio confidò sarebbe morto a Parigi –
sostituendosi all'insostituibile - e indovinando

...................(e una candela vorrete poggiarla sulle ali
...................di farfalla di Silvia Anna Marina)

che Bialik - che tra le rovine del massacro
vide tutti i massacri - nominandoli uno per uno

che Hòlderlin - che dovette incontrare il falegname Zimmer
per scoprire la parola umanità - ed era già alla fine

che tutti loro non hanno mai vinto una partita
e che nessuna vittoria li avrebbe mai salvati dal vivere.



**


Le mutazioni del verde sulla tovaglia
spesso confondono la mosca
che pensava di trovarci il succo
della mela - invece è solo il suo cancro.

Così una parola un gesto ed il passo
e la fragilità che c'è in ciascuno di noi
reclamano agli occhi una minore velocità
ed un'altra certezza della memoria.

La mosca non ha trovato il senso
del suo abitare tra il lampadario
e la doppia finestra - ci sbatte contro e s'inerpica
e sulle volute trova il deserto del mondo.




Michele Obit (1966) vive a S. Pietro al Natisone (Udine). Ha pubblicato le raccolte poetiche Notte delle radici (Vattori, 1988), Per certi versi I Po drugi strani (Kellermann, 1995), Epifania del profondo I Epiphanje der Tiefe (Thanhàuser, Austria, 2001), Mardeisargassi (Moby dick, 2004) e Quiebra-Canto (Lealon, Colombia, 2004). Ha tradotto in italiano i più importanti poeti sloveni delle giovani generazioni, in particolare per l'antologia Nuova poesia slovena (ZTT-EST, 1998), oltre che opere in prosa di Brane Mozetic, Mina Mazzini ed Ales Steger. Dal 1996 organizza la sezione poetica "Voci della sala d'aspetto / Glasovi iz cakalnice" del festival "Stazione di Topolò / PostajaTopolove".

Nel 1999 ha cofondato il laboratorio di traduzione poetica "Linguaggi di-versi".

Qui il suo blog.

7 commenti:

  1. Ineccepibili le tue note, Stefano, per un lavoro che io trovo di una densità davvero rara, e che mi fa piacere vedere qui.
    Al di là del "mi piace-non mi piace" la scrittura di Michele merita un rispetto grandissimo per quanto si porta dentro.

    Francesco t.

    RispondiElimina
  2. la prima lettura tende a non accorgersi delle soluzioni stilistiche. poi però il lavoro del poeta si sente, e ciò differenzia Obit e te da chi ha qualcosa da dire, ma non sa come dirlo.

    RispondiElimina
  3. "Ma le parole oggi nascono ossidate
    raccontano cosi la melma di questo tempo"

    è una scrittura che si sporca le mani, ma lo sguardo che la origina è limpido, incontaminato, come scrive Stefano nella sua presentazione. Le parole sono quasi "costrette" a sporcarsi, come farebbero altrimenti a dire come stanno le cose, a mostrare agli altri le contraddizioni di questo tempo assurdo, senza senso?

    colpita in particolare da Caiedo, dice molto della ricerca di significato, spesso vana, perché non è sufficiente "infilarsi le scarpe la mattina"...

    complimenti a Michele Obit, e grazie a Stefano per la proposta.

    un caro saluto
    stefania c.

    RispondiElimina
  4. margherita ealla23/5/10 15:00

    “le parole nascono sporche”, nemmeno “il feto”, che si sta formando, trova “il tempo di liberarsi dalle scorie”, e allora, forse, questo significa che non può, così come, in generale, non si può,

    perché condizione specificamente umana è di avere la parola (tralaltro non di avere l'ultima...), dunque questa parola non può che essere duale (specchio) della propria natura (umana)

    ivi compreso quel nascere “sporca”, in una condizione che si configura come una sorta di peccato originale (ovvio non in senso religioso, ma del venire meno rispetto a quell' “origine incontaminata” che l'autore, “crede essere salva”, “non nella lingua”, ma nel “ silenzio che ci tiene in vita”),

    tanto che, se la parola concorre fin dalla sua nascita alla espe­rienza universale del male e del dolore,
    allora il suo “peccato” si prefigura di natura, direi, ontologica: tendere all'unità con l'essere, anche silenziandosi, e volerne però uscire, separando, disattendendo continuamente e in una Babele, proprio la riunificazione :
    “le parole invece così non ci riunificano / in ciò che è - io non sono io e altro / non è altro - ma un conglomerato di io.”,

    così che questo impatta, nell'esperienza e dell'esperienza comune di dolore, proprio la speranza/tensione al cambiamento (ad es. nei bellissimi versi):

    “Per questo io speravo che almeno l'origine / avesse una discordanza con la fine.”

    “che tutti loro non hanno mai vinto una partita/e che nessuna vittoria li avrebbe mai salvati dal vivere.”

    e, nello stesso tempo, però giustifica tale esperienza e non la rende vana
    (riprendendo gugl, che sto grandemente saccheggiando :), “ in quella "fragilità che c'è in ciascuno di noi", alla quale dobbiamo il desiderio di prendere la parola, di dire la verità.”)

    (E pazienza, se questo dire la verità, può suonare come una disattesa al senso squisitamente ontologico, ifatti:
    “La mosca non ha trovato il senso /del suo abitare tra il lampadario”
    ottima, e mia preferita fra queste del post, questa poesia)


    Grazie all'autore e a gugl della bella prposta, ciao!

    RispondiElimina
  5. ringrazio tutti per le note critiche finora avanzate. molto acute e che gioveranno senza'altro all'autore per approfondire la propria ricerca, maanche ai lettori che, di buona critica, hanno sempre bisogno.

    RispondiElimina
  6. Sicuramente mescolare quotidiano e riflessioni su zone iperurbanizzate e lo sporco delle parole, dei sentimenti mi fa venire in mente i bombardamenti di immagini a cui inconsciamente siamo sottoposti; metafore sottili, in mezzo a cemento o insalata che sa di aceto.
    E' una poesia forse scarna, ma che da un anno e mezzo circa ho imparato ad apprezzare.

    RispondiElimina
  7. fa bene un bagno nella parola povera, in effetti. povera anzitutto di arroganza o di esibizione ombelicale. penso ti possa aiutare, cara Vale, per trovare la tua voce.

    RispondiElimina