Uscita nell'ottobre 2006 su Universoposia, questa mia recensione a La Biblioteca delle voci. Interviste a 25 poeti italiani (Edizioni Joker, 2006) – libro che vede il contributo di A. Manstretta, S. Aman e R. Taioli e che contiene interviste fatte nel quinquennio 2000-2005 (alcune già edite ne “La Mosca di Milano”) – credo sia da rilanciare su Blanc, per l'attualità della riflessione messa in gioco nel libro curato da Luigi Cannillo e Gabriela Fantato. In esso, infatti, sono anzitutto evidenti i diversi orientamenti ideologico-progettuali che attraversano la poesia italiana oggi: 1) la parola governata dalla “tensione tragica che segna la vita”; 2) l’abbandono “al dato reale, fisico e concreto”, accompagnata, non di rado, “da disincanto e ironia”; 3) l’“adesione alla forze arcaiche che animano la natura” e l’interrogazione sui modi in cui il mito abbia ancora forza generativa; 4) lo sperimentalismo linguistico di natura etico, che sottende una critica alla civiltà della tecnica e dei consumi. Accanto a questo, e inevitabilmente (vista la provenienza di molti dei poeti intervistati), emerge un ritratto multiforme di Milano; ecco allora il piacere di Cucchi di camminare nelle sue aree più trafficate, e quello di Oldani, che sceglie la Milano invernale, della nebbia e del freddo, o il racconto di De Angelis, amante dei quartieri industriali dismessi: “Milano appartiene alla razza delle città distrutte... E’ una città di naufragi e di naufraghi”. Per Majorino, traffico e corpi in movimento sono la sostanza della sua poesia, mentre Roboni rilevò, prima di lasciarci, la radice illuministica della città, pur nel declino odierno, evidente anche sotto il profilo editoriale: si è passati, affermò, dal “vecchio patriarca” Mondatori alla gestione manageriale e senza passione di oggi. Rossi ha invece nostalgia per la Milano di un tempo e forse anche la Spaziani, che la visse, fra gli anni cinquanta e sessanta, come un’“oasi, una sorta di gioia piena di scoperte”, fra Sinisgalli, Quasimodo e, naturalmente, Montale.
Leggendo le interviste si ricavano scorci esistenziali e di poetica degni di attenzione, ne sottolineo qualcuno:
Antonella Anedda, alla domanda: quale lingua usare oggi?, risponde citando E. Bishop, là dove la poetessa americana racconta una realtà di sofferenza e di miseria, mantenendo “un equilibrio perfetto tra emozione e sguardo”. Inoltre ribadisce la natura terrestre del suo scrivere, geograficamente connotato (“vengo da una società molto patriarcale: sardo-corsa”) e perciò proteso alla ricerca dell’altrove. Interessanti le sue osservazioni sulla scrittura saggistica, mossa tra Mandel’stam e Maria Zambrano.
Franco Buffoni dichiara di voler difendere l’espressività di una lingua, non la purezza, la ricchezza lessicale, non l’asetticità, e approfondisce l’importanza della percezione in una poesia, come la sua, che cerca la trama, il racconto in versi. Citando Anceschi, ribadisce che la poetica non è mero esercizio formale, bensì la somma di “norme operative, sistemi tecnici, moralità e ideali”.
Giuseppe Conte premette: “io non sono un esteta, sono uno che ha riflettuto sulla tragicità dell’essere”; per questo, egli rileva l’obbligo di coerenza fra vita e scrittura, che ha da rispondere agli uomini. Ma la poesia, dice, è qualcosa di più che l’effetto di un progetto: essa è profezia. Sorprendentemente, esce un Conte più affezionato a Sbarbaro e Montale che a D’Annunzio, un Conte che rivendica l’appartenenza alla linea ligure (ma non cita Caproni).
Maurizio Cucchi sottolinea il proprio interesse per una “poesia delle situazioni lirico-narrative” che traduca l’esperienza, dando con ciò grande peso al realismo della narrazione, alla “parola del parlato”, alla “prosa anche frammentata e franta”. Si leggano poi le considerazioni sul “dissipare”.
Milo De Angelis infonde un grande lirismo all’intervista, ma non si esime da affermazioni perentorie sulla poetica: “È proprio nella frattura, nello spaccare il conosciuto che sta il fare poetico”; poesia è cercare un “telos di esattezza, di potente chiarezza”; “La poesia vive del tragico” ossia nella necessità della scelta improrogabile; “Scrivere è essere orientati verso qualcosa che ti chiama” e alla quale “devi dire ‘eccomi!”. Particolarmente interessanti le parti relative a Biografia sommaria e a Tema dell’addio.
Luciano Erba approfondisce il rapporto fra chiarezza e oscurità, con la convinzione –d’origine simbolista – che “la non trasparenza, l’opacità, sia portatrice di senso”. Racconta poi il proprio debito con Sereni.
Umberto Fiori centra la propria esperienza poetica nell’“imparare a stare di fronte alle cose”, per poi trovare una parola che parli a tutti, che diventi lingua qualunque (secondo un modello che egli non cita – ideologico, non linguistico - che fu di Gertrude Stein in The Making of Americans).
Jolanda Insana sottolinea l’importanza di essere nati sullo Stretto, tra Scilla e Cariddi, luogo di scontro, di correnti in lotta fra loro, come la sua lingua poetica. Nell’intervista emerge tutta la selvatichezza meravigliosamente tenera della poetessa siciliana.
Franco Loi approfondisce la relazione fra poesia, suono e la forza vitalizzante di quest’ultimo nella coscienza.
Valerio Magrelli fa subito emergere la propria passione per la filosofia, vissuta nel singolare connubio Heidegger e Wittgenstein. Da qui, egli sviluppa una riflessione che tocca il rapporto fra poetica e singolo testo, evidenziando l’importanza che hanno avuto gli oggetti nel suo percorso poetico: elementi della percezione, in principio, per poi diventare, sempre più, oggetti storici: da Ponge a Brecht, sintetizza. Chiude una nota sulla specificità della forma, in poesia: “A me interessa sapere in cosa si declina ‘l’esser-ci’: in settenari o in novenari?”
Giancarlo Majorino ricorda la suggestione che la forma–poema esercita sui poeti della sua generazione (Pagliarani e Roversi, per esempio), per parlarci, poi, di un suo antico e ambizioso progetto, lontano dall’idea poundiana di poema quale sommatoria di frammenti, che sarà ”composto da nove libri, in versi, ma con qualche inserto prosastico” (Prossimamente, Mondatori 2004, ne è prologo e anticipazione). L’intervista si conclude con commenti entusiastici su “la Casa della Poesia” milanese e sui progetti ad essa legati.
Roberto Mussapi, come Majorino, sottolinea l’importanza di recuperare il poema, la cui struttura complessa dà spazio al poeta-testimone, nel quale cronaca e visione s’incontrano, come in Coleridge e, sotto certi aspetti, in Dante. Particolarmente curiosi sono i retroscena che hanno permesso la composizione di Antartide, poema, appunto, visionario e, insieme, cronachistico.
Giampiero Neri ci fa partecipi degli anni della sua formazione, ricca di incontri decisivi.
Guido Oldani mette subito in luce la sua particolare miscela poetica, rispettosa della neoavanguardia, ma anche debitrice nei confronti di Rebora e di Pavese, che rinforzano la sua voglia di leggibilità e di comunicazione.
Elio Pagliarani ragiona sull’io lirico e sul suo superamento ne La ragazza Carla e ne La Ballata di Rudi. Le differenze fra i due poemetti, dice, sono legate alla perdita degli entusiasmi postbellici e ad una maggiore sfiducia nel futuro. Da leggere anche le sue osservazioni sulla genealogia merciologica di Lezioni di Fisica e Fecaloro.
Elio Pecora ripercorre gli anni settanta a Roma, tra la Morante e Bellezza, Moravia e la Rosselli. Amico di Penna, egli non può non sottolineare quanto sia importante accettare la vita nel suo darsi. Una vita aspra, che vuole la “sprezzatura” quale soluzione inquieta del verso.
Giancarlo Pontiggia evidenzia un’impostazione heideggeriana (data dall’uso di termini come “celare”, “custodire”, “ascoltare”, “rammemorare”), anche se la ricerca di una parola che tendi “all’assoluto”, mi pare metta in crisi l’assunto. Ad ogni modo, nell’intervista si chiarisce la necessità del mito nella poetica dell’autore: come la forma, in poesia, delimita la spazio sacro del canto, così il mito diventa metafora di ciò che non è “semplice presenza”, e quindi dell’essere stesso nel suo es gibt.
Fabio Pusterla, dopo una premessa sulla relatività del punto di vista conseguente alla crisi del concetto identitario, mette in luce l’importanza di Bonnefoy e Jacottet per la propria poesia. A proposito dello stile, Posterla prende a modello l’artigiano, che sa modulare scabrosità e levigatezza. La stessa cosa, dice, deve fare il poeta con la materia linguistica.
Maria Pia Quintavalla ci spiega la radice femminile del proprio versificare, definendo il “pensiero della nascita” quale forma originaria del pensiero al femminile (cita, fra le altre, H. Arendt, L. Irigaray, e S. Weil). Un importante tema attraversa l’intervista: la necessità di un dialogo fra generazioni.
Giovanni Raboni ci racconta la difficile giovinezza e la funzione della preghiera in lui, cattolico non praticante, e approfondisce le ragioni della sua scelta, temporanea, del verso chiuso quale forma particolare di “travestimento”. Torna spesso, nell’intervista, il motivo del travestimento, della messa in scena; confessa il poeta: l’obiettivo, per tutta la mia vita artistica, è stato proprio tentare di togliere questo filtro (questione che torna, sia pure in modi differenti, anche nella Valduga).
Tiziano Rossi ci chiarisce il nodo centrale della sua poetica: “lavorare sul banale senza distruggerlo”, e confessa la sua passione per i fumetti.
Giovanna Sicari, intervistata quando già la malattia l’aveva invasa, ci parla dell’ estasi, di quello stare gioioso fuori da sé, sia esso preghiera o erotismo; ci racconta di un “abbraccio cosmico”, che è “una dimensione pre-cristiana”, un “originario amore” già da sempre perduto e che ci tiene in esilio, ma che la poesia avvicina, tra sacralità e seduzione.
Maria Luisa Spaziani si sofferma sulla poesia d’amore e su alcune dimenticate figure femminili della poesia italiana; fra tutte, la più sorprendente è Nella Nobili, operaia a Bologna, poetessa di un unico libro, poi barbona a Parigi e suicida.
Patrizia Valduga ci racconta i propri autori preferiti (Pascoli, Manzoni, Rebora, ma, più di tutti, Gioachino Belli) e si sofferma a considerare la “citazione” come nascondimento di sé, in particolare in Medicamenta.
Cesare Viviani, osservando come sia cambiata la propria scrittura negli anni, riconosce, specie nelle poesie degli anni settanta, l’uso della lingua come mascheramento, atto pudico che mette in scena il movimento in seguito alla paura dell’immobilità. Da leggere le note autobiografiche e la doppia visione di Dio (entrambe presenti ne L’opera lasciata sola): da fratello e consigliere ad entità “indicibile e inavvicinabile”, sino al Dio-flusso, che crea e distrugge, de La forma della vita.
Naturalmente ogni intervista è molto più ricca di spunti. L’unico rilievo negativo che mi sento di fare a questo volume sta nella non perfetta cura editoriale delle bozze, che non ha filtrato almeno undici refusi facilmente individuabili.
come avere una sua mail, Guglielmin.
RispondiEliminasaluti.
Giampaolo
(era interrogativa)
RispondiEliminagrazie! a presto, g.
RispondiEliminaSplendida, e direi, inesplorata, nei possibili sviluppi, questa antologia, -o intervista, dialoghi intensificati,da riscoprire e tenere nella veste di mappatura e storia..
RispondiEliminaIo la porterei in giro, in Italia ..per suscitare dibattito,e sorellanze..
MPia Quintavalla
sono libri che fanno percepire lo stato della poesia italiana in modo diretto, senza filtri critici.
RispondiEliminasì, sono d'accordo con M.Pia Quintavalla! Potrebbe essere un bellissimo modo - aperto - di dialogare.
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