Ci dice Lina
Salvi, nella Nota che chiude il
libro prima della Postfazione di Elio Grasso: «Non sono mai stata per davvero
in un deserto», quasi a smentire il titolo e il tema del libro, o almeno a
rimuoverlo nella tranquillizzante zona della costruzione fantastica. Sennonché
alla lettura emergono non soltanto le numerose occorrenza testuali,
testimoniate dal frequente incipit «Del deserto» (6 occorrenze) e da numerosi
altri riferimenti tematici e lessicali, ma soprattutto le notevole variazioni
che fanno emergere il “deserto” come un simbolo o quantomeno una tenore
metaforico di diversi altri referenti. Concorrono, a questa potenza del
simbolo, anche la sintassi e la versificazione dell’Autrice, che si basa su un
forte nominalismo e su una sintassi prevalentemente paratattica, che lavora per
accumulazione e persino, a un livello appena sotterraneo, per gemmazione di
associazioni, rendendo i riferimenti molteplici, ricchi e discretamente opachi,
almeno se si cerca il riferimento puntuale in una storia, accadimento o evento
specie personale. Oscurità, reticenza, pudore?
Il “deserto”, di suo, è già una occasione
pregnante: luogo esotico, distante e quindi connotato come oscuro e misterioso;
luogo vuoto, senza direzioni come il mare, e quindi luogo di incontro ma anche
di perdita; luogo sterile e perfetto correlativo oggettivo della società
moderna. Da questo molteplice punto di vista, tutti siamo stati e siamo in un
deserto, l’abbiamo attraversato come confessa Lina Salvi parlando della propria
scrittura: «Lo scrivere è stato un vero viaggio nel deserto» (p. 47).
Non sarebbe però difficile scavare appena sotto
la superficie di questi versi attenti, parchi e misurati, per trovare
riferimenti a una “traversata del deserto” con cui si devono fare i conti,
anche se il livello confessionale – quello in cui si cade quando il troppo da
dire non trova uno sbocco artistico adeguato – non è senza dubbio l’opzione
scelta da Lina Salvi. Si parla di perdite, di morte, anche quando mancano i
riferimenti precisi, che pure esistono in
primis a livello di strisce sintagmatiche. Si legga l’ultimo verso, così
pudico, di p. 26: «L’ultima cosa che abbiamo guardato», un endecasillabo (come
i due precedenti) che emerge non casualmente anche in virtù della rima baciata
“prato / baciato”. Allora i testi saranno forse intesi «Per chi non può
guardare» (p. 30 e 31) come “riparazione della poesia”; si parla dei luoghi del
dolore (p. 35 e 44); si parla di perdite e ricordi (p. 37); si parla della
“bestia malvagia che avevi in corpo» (p. 39). E si parla della tremenda attesa che
«l’acqua si placasse» (p. 40) e della sensazione di «essere sul precipizio» (p.
42).
Non so
quanto la poesia possa cauterizzare le ferite, donare equilibrio formale allo
sbilanciamento sull’abisso che causa un dolore, il dolore. Mi sembra però che, con questo splendido libro, Lina
Salvi ci doni un alto ed irto tentativo di arginare la notte.
Mauro Ferrari
Lina
Salvi, Del deserto, Postfazione di Elio Grasso, puntoacapo Editrice,
Pasturana 2017, pp. 56, € 10,00 ISBN
978-88-6679-107-2
Del
deserto non ho voglia
della
sua violenza calma
cavalcate
ai margini del cielo,
nel
deserto già ci sono:
ahlan
wa salan*,
nel
deserto popolato di uomini
buie
città, annuvolate,
assediate
di ogni specie animale,
alberi
con rami tondi, bocche infuocate.
Della
tundra, nel polare,
che
dico? Se non quel volteggiare
in aria, terra, affondare
il
piede in una zolla
del
viaggiatore la sua ombra
così
lunga, così distante.
*(saluto
di benvenuto)
***
Del
deserto non ha voglia
la
signorina dolce- morte,
dissimula
un pungolo del sangue,
quel
sabato mattina sul monte
all’alba-tramonto,
a precipizio,
sul
sentiero gelato, sul Jebel Rum.
Si
raccolgono del bosco
alcune
spore, rami secchi,
gusci
scavati, vermi, misere
forme
di sopravvivenza, esistenza
del
nero adamantino.
***
Un
albero portami che ombreggi
una
casa, quel tronco caduto
che
teme il da farsi, mandami
rami
senza foglie, dalla terra
le
radici, e quelle parole tonde
dentro
i discorsi scambiati nel prato.
L’ultima
cosa che abbiamo guardato.
***
Guardo
per chi non può guardare
un
sentiero luminoso, offuscato
la
favole delle stelle, dei morti,
ad
uno ad uno infilati tre metri
sotto
terra, tre metri. Guardo
nel
campo delle meraviglie un fiore
che
esplode, uno stupido croco.
Sulla
strada battuta dalle case,
un
passo incalza in zona franca,
azzoppato.
***
La
bestia malvagia che avevi nel corpo
ha
fondato le sue radici in una terra lontanissima,
deciso
in gran segreto, nel letto del suo fiume,
nessuna
la vedeva, lei ci vedeva
sfociare
in un Mar Morto.
***
Non
mi staccherò dalle cime granitiche,
regine,
non mi staccherò dalla
finestra
del Rifugio Re Alberto ,
nella
valle il deserto si ostina.
Non
mi staccherò da ogni turbamento,
discesa
sul fiume ad aspettare
che
l’acqua si placasse e il vento,
il
vento tutto, onda, onda d’urto.
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