Recensione a:
Tiziano Salari, Essere
e abitare. Da New York
a Parigi. Dialogo sulla poesia e le metropoli, Moretti & Vitali,
2011
Quando la scrittura
si fa traccia dell'abitare da mortali il mondo, non conta il suo genere
d'appartenenza. Ce l'ha spiegato Benjamin, eleggendo la saggistica ad opera
d'arte tout court, la cui natura d'assaggio in profondità
va di pari passo con la frammentazione del reale, con il suo darsi per scorci,
per punti di vista che hanno rinunciato alla nominazione univoca del visibile.
Perso infatti il Sistema, quale forma ideale senza resto, conoscenza del
Principio che s'incarna nella Storia universale, rimane la problematizzazione
del medesimo Essere, non più evidente, e dunque razionale, bensì nascosto,
rarefatto, eventuale. In questa prospettiva, dominante nel Novecento e
che Salari assume pienamente, L'Uno è già conseguenza o semplificazione di un
differenziarsi inesauribile, che tiene aperta ciascuna possibilità del vivente.
Possibilità che ha luogo nel suo spazio abitabile, nella terra geograficamente
definita in cui la scrittura prende corpo. Ecco allora che scrivere
nell'America di Whitman non è lo stesso che farlo in quella di Ginsberg, né la
Parigi di Baudelaire corrisponde a quella di Houellebecq. Eppure, lascia
intendere Salari, questa verità lapalissiana, ottocentesca, fondata sull'idea
che la struttura materiale condizioni fortemente le forme e i modi della
conoscenza, mostra tantissime crepe, nelle quali s'intravede la sostanza, che
accomuna gli autori presentati in questo libro emozionante: per tutti "il
punto di partenza è il dolore", il quale non è solamente l'effetto d'un
disagio relazionale o dell'inferno metropolitano, ma il fondo dell'Essere, il
suo senso precipuo che si dissemina nelle singolarità, di apertura in apertura.
L'assunto muove sotterraneo nelle 28 serate che costituiscono Essere
e abitare, 28 appuntamenti con le capitali del mondo occidentale (New York,
Parigi, anzitutto, ma anche Pietroburgo, Trieste, Dublino, Praga, Berlino,
Londra, Vienna), seguendo il comparatismo
auerbachiano ma anche il metodo rizomatico dell'autore di Leaves of grass,
ossia imbastendo "percorsi che si intrecciano attraverso continui processi
di variazione e accumulazione ed espansione di vite e destini". In
aggiunta, ma l'effetto invero non è dirompente, Salari muove i fili con
"tre voci" (l'ontologica, la storica, la filologica), che aiutano il
movimento dialettico nel labirinto della conoscenza.
Gli scrittori amati da Salari ci sono
tutti, misurati nel loro dialogo conflittuale ma anche amoroso con la città
d'elezione, al fine di sondare, appunto, quel fondo che tiene in posizione la
parola allorché risponde anzitutto al disargine del tempo storico, alla sua
provocazione. Provocazione che già da sempre ci abita nella forma del desiderio,
che è dolore e tentativo di risolverlo attraverso il corpo dell'altro, vissuto
talvolta come corpo del reato oltre che del piacere, in un processo che
definisce, sempre in via approssimativa, l'identità. E' questo il nucleo forte
di Essere e abitare, la sua uscita dall'avventuroso emotivo – o "fenomenologia del poetico",
zigzagando con grande padronanza nelle ossessioni dei singoli autori e
intrecciandole con le metropoli, (l'arte "è speculare alla tecnica",
non ultima quella urbanistica e architettonica) – per mettere al centro della riflessione il corpo, "la
carne", l'impensato dalla tradizione occidentale sino a Baudelaire, la cui
carogna putrida diventa il luogo epifanico del vero, l'"Essere che
vale fra tutto l'Essere", corpo che talvolta "la scrittura"
stessa diventa, svelando perciò il rimosso, il barbarico, il pulsionale, quanto
insomma al simbolico o, peggio, al didascalico è precluso.
A perseguire questo compito, ci spiega il
filosofo di Verbania, a tenere sulla bocca l'evidenza del morire in una
concretezza capace di guardare negli occhi la Medusa, è la scrittura tragica,
che dilania la volontà degli uomini, sino a scoprire nelle loro
"viscere", come scrive la Zambrano, "la metafora che capta [...]
l'originario, il sentire irriducibile, primario, dell'uomo nella sua vita, la
sua condizione di vivente".
Essere e abitare è anche un libro di
viaggio archeologico, appunto perché ricco di informazioni su città oramai
scomparse, come la New York di Whitman, città invisibili che tuttavia
respirano ancora in quelle contemporanee, a saperne leggere le tracce. E questo
libro ci aiuta a farlo, sempre con uno stile denso eppure limpido, assertivo ma
convincente, così che il lettore s'acquieta in esso, sublima quanto il tema
mette in luce: la grande lotta dei viventi per trovare un senso al proprio
destino.
Stefano Guglielmin, in "Pagine" n.65, sett. - dic. 2011
DALLA PRIMA SERATA
Ma in ogni caso il
punto da cui dobbiamo partire è la presenza: presenza dell’essere, del reale,
del tempo. Non come totalità, ma nella sua infinita particolarizzazione. Questo
tavolo su cui sono appoggiati i nostri bicchieri. Questo istante in cui sento
abbaiare un cane sulla strada o in un giardino circostante. Il tavolo resta
fermo come mio punto d’appoggio, il cane tace, è sprofondato definitivamente
nel nulla, nel passato. L’essere è ciò che continua a vivere nel mio respiro,
nell’attualità, è un infinito scorrere, un naufragio che dura l’intera vita.
Non a caso è con la morte che cessiamo di respirare e finisce tutto. Morte ed
eternità sono la stessa cosa? L’eternità è dunque il venir meno del respiro?
C.
Derrida,
nel suo libro sugli amici defunti: ogni volta unica,la fine del mondo.
B.
Dunque, se rifletto
sull’attualità, viene meno la giustificazione della metafisica, anche della
metafisica spinoziana, la giustificazione del tutto, della Totalità. L’essere è
qualcosa che si polverizza facendosi. Per Severino (che riprende Parmenide)
nulla si perde di una cosa che è entrata nell’esistente. Un pensiero che
intende opporsi alla follia dell’Occidente, secondo cui il divenire è
annientante, e ogni cosa nasce dal nulla e rientra inevitabilmente nel nulla.
Nichilismo. Ma sono queste, veramente, due forme di pensiero contrastanti. Da
una parte la disperazione di una continua perdita, dall’altra la gloria di chi
tutto porta in salvo.
A.
Ma entrambe le forme
di pensiero sono sempre coesistite Il
problema di fondo è che oggi non ne facciamo più una questione di verità, nel
senso della matematica e della logica, ma una questione di bellezza e di poesia.
Rensi parlava di sinfonia per la filosofia di Spinoza. Quando la si
intende, dice, “si sente che quella sua filosofia, nella forma così impassibile
e gelida, è tutta un lirico inebriamento panico, come quella che talvolta ci
prende e ci avvolge, dandoci l’impressione di essere diventati uni con la
natura, nelle onde del mare sotto il sole e al vento, o tra le esalazioni e gli
effluvi di una densa foresta alpina. Allora s’intuisce che un grande poeta
potrebbe riprodurla in odi e un grande musicista in sinfonie”
C.
Quindi non abbiamo
più a che fare col concetto di verità come corrispondenza tra soggetto e oggetto. E che cosa può
essere una conoscenza che non ha più come obiettivo la verità?
B.
O nel senso del
prendere partito tra Parmenide ed Eraclito. Tutto permane o tutto scorre? Ma
non è il nostro stesso corpo, nel suo progressivo logoramento, nel suo
invecchiamento, uno specchio dell’oggettività del tempo? Nell’albero non sono i cerchi che si incidono un anno dopo l’altro nella
corteccia?Basti dire che la morte spazza via il mondo ogni volta e che legame
ha la morte con il tempo? La coscienza sparisce, ma il corpo a sua volta è
preda di un processo che a poco a poco lo porta a livello di carogna e così
via. E quello è un tempo del tutto esteriore rispetto al tempo interiore. Un
tempo oggettivo. E non è neppure la differenza di Bergson tra tempo meccanico, degli orologi, e
durata, flusso soggettivo del tempo. la madeleine
di Proust che ravviva la memoria involontaria. C’è qualcosa d’altro nel tempo
inerte delle cose abbandonate alla loro consunzione. Le onde del mare erodono
in continuazione la roccia dove battono. Giorno dopo giorno. Sono le onde del
mare il tempo che traccia le rughe e sgretola la roccia e , senza le onde del
mare, quelle rocce vivrebbero una vita beata
fuori dal tempo? Direi che la poesia cerca di trattenere per un istante,
sull’orlo dell’abisso, le cose che stanno per essere cancellate.
A.
Sarebbe bello dedicarci, in questo mese di vacanza, a
sottrarre al tempo qualche immagine di bellezza, dedicandoci alle forme
dell’abitare , così come è stato vissuto poeticamente, ricercandone non tanto
il senso, quanto quel soffio di vitalità o di morte che mantiene in vita le
differenze, e fa sprigionare, dal fondo di ogni situazione umana, “l’Essere che
vale fra tutto l’Essere”:la poesia.
B.
Partendo da due libri, che sono usciti entrambi a metà
dell’Ottocento, Leaves of grass di
Walter Whitman e Les fleurs du mal
di Charles Baudelaire, e che rappresentano due mondi poetici antitetici. Da
una parte, in Whitman, l’espansione vitale di un poeta che s’identifica con le
masse del suo paese, milioni di individui che
producono lo sforzo gigantesco di costruire un mondo nuovo,fino a vedere
Dio in ogni uomo e anzi di non capire che cosa possa esserci di più
meraviglioso dell’uomo stesso: dall’altra, in Baudelaire, la consunzione del
vecchio mondo e delle ragioni di vita fino a prefigurarne la carogna .
C.
Come
possiamo cominciare? Leggendo i loro poemi? Commentandoli? Frugando nella
bibliografia critica?
B..
Sì,
non so se queste riflessioni sulle forme dell’abitare metropolitano avranno a
che fare con la filosofia o con la poesia, o con una terza “cosa”, di cui
ancora non conosco il nome.Certamente non avranno niente da condividere con la
critica letteraria. Probabilmente la spinta iniziale potremmo prenderla dalla
lettura di Walter Benjamin e dai suoi studi su Parigi e Baudelaire. Ma
quello sarebbe solo l’inizio.
A..
Certo
non partiamo da un problema filosofico
moderno, la Soggettività trascendentale o l’Essere, il che ci porterebbe su un
terreno più rassicurante. Teniamo piuttosto la barra su Spinoza o Schopenhauer
e la sua cieca volontà che pervade
tutti i fenomeni, e insieme le Idee platoniche, da cui i fenomeni tutti
derivano.
B..
O
meglio, rinunciamo a un’idea di verità alla quale aprirci con un metodo fondato
su qualche epistéme. Piuttosto credo
che dobbiamo attraversare Nietzsche e Wittengstein e attestarci sul terreno della nuda vita, e da qui assistere alla
deriva della tradizione filosofica occidentale.
C.
Né
poesia né filosofia né critica letteraria. Sarei proprio curioso di sapere che
cos’è questa terza “cosa” e, soprattutto in che rapporto sta con le forme
dell’abitare..
A.
Non
ho dubbi che si tratti in primo luogo di una forma di percezione il cui modello
paradigmatico è l’interpretazione di Benjamin del sonetto di Baudelaire A una passante.Ricordate? “In velo da
vedova, velata dal suo stesso essere trasportata tacitamente dalla folla, una
sconosciuta incrocia lo sguardo del poeta. Il significato del sonetto è, in una
frase, questo:l’apparizione che affascina l’abitante della metropoli – lungi
dall’avere nella folla solo la sua antitesi, solo un elemento ostile – gli è
arrecata solo dalla folla. L’estasi del cittadino è un amore non tanto al primo
quanto all’ultimo sguardo”.
B.
Puro
residuo di romanticismo in Baudelaire, che fa presagire un mistero negli occhi
e nei passi di una sconosciuta. Ma anche in Benjamin, che parla di sublimazione
dello choc, che da Baudelaire si estende a tutta la lirica contemporanea.
C.
E Whitman? Non
hai detto che ci troviamo di fronte a
una forma diversa di poesia e di percezione?Che Leaves of grass e Les fleurs
du mal sono due mondi poetici antitetici?
Qui alcune sue poesie e la bibliografia
Nessun commento:
Posta un commento