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giovedì 15 ottobre 2009

Tomada legge Alborghetti


Ospito molto volentieri la lettura critica di Francesco Tomada all'ultimo libro di Fabiano Alborghetti, Registro dei fragili 43 canti (Casagrande 2009). Posto alcuni canti, utili a dare un'idea della scrittura di Fabiano più che a supportare la lettura di Francesco.


"Nel 2006, in un paese di provincia, una madre uccide il proprio figlio: da questo fatto di cronaca trae origine e spunto il nuovo lavoro di Fabiano Alborghetti, Il Registro dei fragili – 43 Canti (Casagrande), che racconta non tanto l’avvenimento in sé, quanto il percorso familiare che alla fine ha assunto la forma di un gesto così tragico. Come era già accaduto per L’Opposta Riva, il lavoro di Alborghetti si nutre prima di tutto del vissuto: infatti l’autore racconta di avere a suo modo studiato il soggetto, non solo ricercando e raccogliendo materiali legati alla cronaca, ma seguendo e osservando numerose famiglie nei centri commerciali, nei supermarket, nei ristoranti, infine filtrando e restituendo le impressioni attraverso la lente della propria esperienza individuale. Poesia-reportage, la definisce acutamente Fabio Pusterla nell’introduzione, sottolineando però come nell’opera di Alborghetti ci sia molto di più di un – per quanto profondo – documentarismo, in quanto egli scava alla ricerca delle cause, dei meccanismi umani e di coppia che hanno condotto verso l’epilogo da cui è partita la sua ricerca.


I protagonisti dei Canti sono quasi sempre i genitori del bambino, una famiglia normale verrebbe da dire, sufficientemente benestante e in apparenza senza problemi evidenti. Il padre è un uomo che ci appare arrivista ed arrivato, e riversa sul figlio, che vorrebbe un figlio-uomo, aspettative che derivano più da un desiderio di affermazione personale che da una speranza per il futuro del bambino; la madre è invece una donna che, fallita sul nascere l’ipotesi di una carriera da velina, vede la propria vita spegnersi nel matrimonio ed il proprio corpo trasformarsi come conseguenza della maternità. Entrambi finiscono con l’addossare al figlio la colpa del vuoto che progressivamente si approfondisce tra di loro, opprimendolo con il peso di rivendicazioni che quando sono non-dette diventano ancora più difficili da affrontare: non bastavano i robot a difendere lo spazio: messi in circolo a vegliare / messi intorno alle lenzuola // non distanti dalle mani…

Utilizzando scelte metriche scandite da una ritmica cadenzata e talora volutamente ossessiva, la poesia di Alborghetti racconta una famiglia e attraverso di essa una drammatica crisi di valori, dove bastano i ritagli le riviste che comprava in settimana per sapere / della vita. Bastano, però, soltanto in apparenza, perché nella realtà non è vero che il prodotto è un senso primo / colma fitto ogni altro smarrimento; arriva il momento in cui il senso di fallimento diventa più evidente ed a farne le spese, appunto, sono i Fragili (genitori e figli, tutti sono fragili). Tutto il libro vive del proprio restare sospeso in un equilibrio difficile da sostenere – ma Alborghetti lo fa, e questo è un suo grande merito - tra tensioni apparentemente opposte, fra il racconto freddo e quasi distante dei fatti ed il senso di compartecipazione che necessariamente i protagonisti suscitano, fra il rigido susseguirsi del pattern degli accenti e la comparsa di improvvise aperture e fratture che rivelano il vero cibo di cui il reale umano si nutre, fino a trasformarlo in poesia.

Se da un lato dunque Il Registro dei fragili è un gesto ultimo di compassione per questa famiglia, dall’altro – e soprattutto - il suo significato si allarga al concetto di “normalità”, perché le famiglie che Alborghetti ha seguito e a suo modo studiato non sono state al centro di nessun fatto di cronaca, né i luoghi, né i gesti come fare la spesa, andare al cinema, ospitare gli amici, che qui vengono descritti: si tratta di azioni in cui è fin troppo facile riconoscersi almeno in parte, in quanto appartengono ad una quotidianità largamente condivisa e abituale. Il senso di disagio che il Registro dei fragili lascia non è per gli altri ma per sé, per tutti coloro che, pur non condividendo - a parole o per istinto - i valori dei protagonisti (protagonisti: so di usare un termine quasi cinematografico, ma la raccolta procede spesso per fotogrammi, proprio come un film), finiscono poi per assumerne di fatto gli stessi atteggiamenti, o quantomeno comportamenti simili. La poesia di Alborghetti dunque, oltre a rendere in qualche modo giustizia alle vittime, evidenzia come questo potrebbe accadere a chiunque, se solo la vita si producesse in un piccolo-grande scarto di lato, imprevedibile ed inatteso ma non impossibile, e davanti al quale la certezza dell’ultimo verso, questo a noi non può accadere, lascia il passo a quei dubbi che è sempre meglio porsi in anticipo, prima che le conseguenze di ciò che abbiamo ignorato finiscano per sopraffarci".




Canto II


Occorre l’ordine al vestire, occorre la coerenza
per l’inganno. Cosi ripeteva mentre a mani lisce tutto il bordo
della giacca a risalire, i risvolti, la camicia intonsa attorno al collo

troppo stretta eppure esatta per l’immagine allo specchio.
Un ampio gesto, un ritocco anche ai capelli
già perfetti nell’assetto e tutto il resto: perfezione ripeteva

offrirsi certi come il volto di quell’uomo imparato alla tivù.
Sono meglio a ben vedere, anche più vero:
guardava gli occhi nel riflesso, l’adesione

dell’immagine per il verso che voleva…
Anche la pelle era esatta nel colore, con il tono preso a tempo
nel solarium dietro casa. Perfezione ripeteva

e si mostrava sulla porta alla moglie già vestita.
Mano a mano senza dire. Non dicevano mai nulla. Troppo spesso
non trovavano che dire. E non trovava altre cose a ben vedere:

una ragione per restare soprattutto…



Canto III


Poi la sera c’era il film, da guardare sul divano tutti fermi
c’era il film e se piace ne facciamo un duplicato.
Mi conviene noleggiare e magari li rivendo ai colleghi giù in ufficio

cinque franchi ad ogni copia: è cosi che si guadagna
e annuiva con il braccio attorno al figlio, con la mano sulla spalla
come a dire mi hai capito? che tuo padre sa gli affari

e annuiva di certezze che sapeva d’insegnare…



Canto IV


Occorrevano quei riti alla forma di famiglia
allo stato fermo e ricco di famiglia benestante:
il bambino da lasciare nel recinto a piano terra

con lo scivolo ed i giochi, con le bolle in gommapiuma
poi ognuno alla funzione, certi acquisti nel carrello
da riempire in ogni spazio, certe marche che sapeva

esser meglio come il detto chi più spende meno spende
e l’offerta raccoglieva, il tre per due con il regalo
con il punto che spedito mette in gara all’estrazione.

Occorre molto, occorre avere
per sapere che felici non si accade e il prodotto è un senso primo
colma fitto ogni altro smarrimento: è una vita che lavoro

certe cose sono diritto come prendere il prodotto
senza il marcio della rogna senza essere fregati
e chi si fida di quei nomi, i mai sentiti alla tivù?

Poi la fame nominava: niente basta
mentre fuori nel parcheggio tra le auto tutte in fila
il carrello accanto e pieno

scaricava nel baule,
ogni sporta chiusa bene perché niente si smarrisse
perché nulla andasse perso

fosse preda d’altre mani…



Canto V


Metteva il figlio in fondo al dire con l’orgoglio
del buon seme messo bene nella donna e ne vantava in ampi gesti
con parole da rivista da barbiere: figlio forte

ripeteva quando cresce come me deve pensare
e poi gli insegno anche il mestiere. Lo prendeva per le spalle
lo scoteva come merce mentre il figlio gli annuiva

troppo intenso d’emozione per quel ruolo designato…



Canto VI


Ogni giorno a mezzogiorno accendeva la tivù
per guardare la puntata, quella soap di vita vera
ambientata in posti belli

dove ognuno è straordinario
nonostante l’accadere nonostante
i mille nodi della trama da seguire.

Parteggiava in devozione per la donna e i suoi problemi:
ricordavano la vita e non sembrava poi un copione
perché nella vita vera quelle cose per davvero…

E viveva quelle storie come un colpo al basso ventre
trapuntare le emozioni
nel trovare quel conforto

come odore di minestra quando scopre di star male…



Canto VII


Il collier con l’orecchino, col brillante da un carato
gli pareva un bel regalo, un valore dell’amore ripeteva
mentre in cassa il totale era battuto e pagava con la carta

come a dire che l’amore non ha prezzo né confini
e guardava la commessa coi capelli fatti a coda
ricercandole lo sguardo, sorridendo come a dire

le capisco certe cose, aspettando un suo segnale….



Canto XII


Sulla spiaggia col costume con le forme in evidenza
il colore della pelle e la pelle tutta tesa si piaceva, era bella
come prima di sposare, sono bella ripeteva

e lo dice anche l’amica mentre insieme all’estetista:
quelle foto da sfogliare ripetevano la forma, rimandavano la prova
ch’era bella da morire e certi segni non vedeva

non i fianchi un po’ pesanti maturati in gravidanza, non la faccia
tutta tesa di chi accumula stanchezza, non le mani
consumate dai lavori dai bucati

era bella e si piaceva, si piaceva
ma lontana non presente in questo tempo
dove tutto ti rapina, dove il tempo è sottomesso

alle cose della casa. Là in albergo
era vita da signora: con la cena preparata con la stanza fatta bene
la piscina con le sdraio con il bar e l’ombrellone

col servizio di qualcuno che ti serve in ogni cosa
basta solo domandare e si esaudisce il desiderio.
Riponeva poi le foto nel cassetto del salotto

ritornava in questo mondo dove niente è come pare…



Canto XVIII


Altre sere era diverso, accadeva che il silenzio fosse rotto
dalle grida, dalle cose manovrate come fossero appendice
e si rompeva quel qualcosa

si rompevano i bicchieri mentre altro proveniva
dal livore che dell’odio era adiacente
che dell’odio aveva forma

come il fiato che si espelle dentro l’aria di dicembre
e altro fiato appena dopo
mentre il bimbo non dormiva, ad occhi fissi rimaneva

con l’ascolto e la paura e non basta neanche l’orso
non bastavano i robot a difendere lo spazio: messi in circolo a vegliare
messi intorno alle lenzuola

non distanti dalle mani…



Fabiano Alborghetti nasce a Milano nel 1970. Vive a Paradiso (Lugano, Svizzera)
Ha pubblicato:

- Verso Buda (Faloppio, LietoColle, 2004)
- L’opposta riva (ibid, 2006)
- lugano paradiso - plaquette d'arte - (Osnago, Pulcinoelefante, 2007)
- Ruota degli esposti - plaquette d'arte - (Mendrisio, edizioni fuoridalcoro, 2008)
- dieci gennaio - plaquette - (edizione fuori commercio)
- Registro dei fragili, 43 Canti (Bellinzona, Casagrande, 2009)

Ha curato i volumi

- Corale (Sasso Marconi, Le Voci Della Luna editore, 2007)
- Il Segreto delle fragole 2008 - con Giampiero Neri - (Faloppio, LietoColle, 2008)

Oltre a pubblicazioni in riviste in lingua italiana, è stato tradotto in spagnolo, francese, tedesco, arabo, inglese e sloveno. E’ incluso in una moltitudine di antologie.

E’ drammaturgo teatrale e scrive di critica letteraria per riviste e sul Web.

Dirige la collana Free Press per Le Voci della Luna Editore ed è consulente editoriale per le case editrici LietoColle e Kolibris

Collabora con le edizioni d'arte Fuoridalcoro

Nel 2008 ha rappresentato la Svizzera a San Francisco per l’International Poetry Festival Other Words (su invito del Consolato Generale di Svizzera) e l’Italia all’ VIII Settimana della Lingua Italiana nel Mondo (su invito dell’Istituto Italiano di Cultura)
Nel 2009 rappresenta la Svizzera in Slovenia al Medana International Poetry Festival.

Il suo Blog

14 commenti:

  1. marghe ealla15/10/09 20:57

    A parte la sobrietà, non indulgente e che non contiene sottolineature retoriche, però capace di non essere fredda anche quando “analizza” o scandaglia,
    di questi canti mi colpisce e molto il ritmo (“cadenzato, volutamente ossessivo” è definito sopra) capace di trasmettere l'ansia o addirittura l'ossessione del controllo, lindo lindo,
    “l’adesione/ dell’immagine”(l'essere “perfetto perfettino”, almeno di facciata), la realtà curata o svilita o interpretata non tanto a propria immagine e somiglianza (sì, anche), quanto a immagine e somiglianza del “occorre avere/per sapere che felici non si accade e il prodotto è un senso primo” (davvero bellissimo quel “non si accade” e il “senso primo” del prodotto – cavolo una volta c'era il motore primo, adesso siamo alla mercé della merce-scusa l'inciso).

    Infine il ritmo rimanda a una catena (di montaggio: “non bastavano i robot a difendere lo spazio: messi in circolo – altro passo, già citato sopra, bellissimo), catena che aliena, pure se oliata per una vita “soap”.

    La lucidità ritmica di questi canti mi cattura.

    (spero di non essermi avviluppata in aria fritta)
    ciao

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  2. è giusto sottolineare la scelta del ritmo cadenzato che trasmette tutta l'ossessione dei pensieri, dei gesti, dei rituali di protagonisti "osceni"...
    porto i miei saluti a tre amici:
    Francesco con il quale mi complimento per la lettura,
    fabiano per il nuovo libro
    e Stefano, padrone di questa "laboriosa" casa
    roberto

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  3. il ritmo e la voce di Alborghetti sono la sua cifra. anche il libro precedente è attraversato da queste cadenze e da questa postura. "Registro dei fragili", sotto questo aspetto, ha calcato un solco già tracciato in precedenza, senza rischiare di più, pur cambiando la tematica. Non so e ciò è un pregio o un difetto.

    tu che ne dici, Fabiano?

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  4. ciao e Grazie a tutti, in primis a Francesco per la lettura splendida che ha fatto.

    Il ritmo. Ne "l'opposta riva" c'era, spesso dato dalla sequenza di più versi ed era forte ma non così calcato, rimbombante come in "Registro dei fragili" dove la scansione è data quasi sempre da doppi ottonari per verso.

    Direi invece che proprio giocando sul ritmo, c'è stata una innovazione rispeto al precedente. Il rischio era scrivere "la vispa teresa" e li fermarsi, martellare così tanto col ritmo da lasciare storditi, lasciare solo ritmo e niente senso....
    Spero invece di avere trovato il giusto patto, tra un ritmo ossessivo e senso.

    fabiano

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  5. Al di là di quanto ho scritto, secondo me questo libro è più coraggioso del precedente. Infatti ne "L'opposta riva" si guardava, con partecipazione certo, ad un problema di altri, e, per quanto Fabiano non cercasse il buonismo (proprio no) c'era l'istinto naturale del lettore a parteggiare per i buoni. Qui no, Fabiano scava nelle case che sono anche nostre, dice cose più scomode perchè più vicine.
    Secondo me, ovviamente:-)

    Francesco

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  6. spunto di corsa con una domanda (che ti avrei fatto a voce, fabiano, se...:P).
    non senti mai, in fase compositiva, il vincolo del ritmo?
    cioè: non ti capita di dover rinunciare a immagini, parole, espressioni per resta fedele agli ottonari?

    kisss!
    s.

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  7. Ciao LaSilvia,

    molto spesso no, per quasi tutti a dire il vero, non ho sentito la costrizione. Sono usciti lisci, come mi piacer dire, quasi nella forma definitiva da subito.
    Per alcuni canti addirittura sono arrivato a registrarmi la voce perchè uscivano già belli e pronti e non ero abbastanza veloce nello scrivere.
    Poi è stata normale questione di limare il non necessario, togliere immamgini inutili, voci inesatte e anche lavorare sui sinonimi per avere la giusta eco.

    Per altri -rari- casi si: la chiusa esatta, il giro, il ritmo sono stati costretti, adattati ad una parola "simile" e spesso non un sinonimo. Mai però lontana dal senso originario.

    Però devo dire: l'ottonario non l'ho mai trovato un gabbia in fase di scrittura. Forse perchè è un libro PENSATO in ottonario e non adattato perchè lo diventasse

    (e per pensato non è stato mettersi a tavolino e dire: te và, da adesso tutti ottonari che fa chic.
    E' stata una voce che è arrivata naturale, senza forzature.)

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  8. caro Fabiano. quello su cui puntavo il dito (ma senza rito inquisitorio) non è tanto il ritmo (che pure tiene per mano quello dell'"opposta riva"), quanto piuttosto il timbro della voce, figlia di uno sguardo pietoso verso i vinti e spietato verso i vincitori (ossia la società che sputa i vinti e li lascia sulla riva). Questa tonalità sonoro-affettiva, permeando l'intero libro, tende a confermare l'orizzonte d'attesa del lettore, e dunque ad abbassare quel guizzo d'inaudito che fa della poesia lingua differente dalla cronaca. Probabilmente lo stare fra i due piani (creazione e cronaca) era il tuo obiettivo e quindi le mie sono solo osservazioni estemporanee.

    un abbraccio!

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  9. ciao Gugl,
    mi scuso per la frettolosa risposta ma sono sun un pc di fortuna, prestato, poco prima della presentazione del libro in quel di Mendrisio.
    a piu tard e chiedo scusa per l assenza.
    fabiano

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  10. non preoccuparti: è sabato per tutti. buona presentazione.

    gugl

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  11. eccomi qui.
    So che la poesia che scrivo, cosi aderente alla cronaca porta ad una lingua poetica davvero simile alla cronaca. Nell'opposta riva credo di essere stato "troppo poetico" visto il tema, il desiderio di raggiungere più interlocutoiri possibili. E' qualcosa che mi ha interrogato e che ho interrogato molto. E qui ho voluto appositamente spogliare, togliere, limare, arrivare -se vuoi- ad un linguaggio anche antipoetico.

    Fabiano

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  12. credo che cercare il grado zero della scrittura sia legittimo, tanto più se il tema non concede nulla, per gravità, all'elocutio e all'ornatus.

    grazie per i tuoi interventi.

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  13. lorenzo carlucci29/10/09 02:54

    una osservazione tangenziale, forse generica: l'idea del poeta alborghetti che raccoglie materiale "seguendo e osservando numerose famiglie nei centri commerciali, nei supermarket, nei ristoranti, infine filtrando e restituendo le impressioni attraverso la lente della propria esperienza individuale" (come scrive tomada riportando resoconti di alborghetti) la trovo inquietante. mi sembra che proietti una idea del poeta che va superata. il poeta - e tanto il poeta italiano - rifiuta di vivere. fa esperimenti e mai esperienze. o esperienze (al plurale, che è frammetazione, serie, e implica distacco dal soggetto) e mai vita (che è unità, sintesi, indistinguibilità di soggetto e oggetto). dal punto di vista culturale non rinuncia agli ormai assurdi ammennicoli legati alla figura dell'autore, legati ad una società e ad una cultura ormai inesistenti. questa posizione del poeta - di distanza dal dato, di scarto culturale dall'osservato, etc. - inevitabilmente si riversa nella forma e nell'essenza dei testi. l'idea del "poeta-filtro" è analoga e altrettanto negativa. non c'è nulla da filtrare e restituire. non ci può essere distanza (ontologica, culturale) tra osservatore ed osservato. cacchio erano più moderni i realisti di due secoli fa con l'idea del romanziere/romanzo come specchio (senza interiorità, che rimanda al di fuori ed è oggetto nel mondo). andiamo avanti.

    saluti,
    lorenzo

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  14. peccato che questa ultima osservazione non sia stata discussa ancora.

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