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mercoledì 12 febbraio 2020

Marco Bellini su Mauro Ferrari



Mauro Ferrari LA SPIRA puntoacapo Editrice, Pasturana (AL) 2019

Con La spira, breve poemetto composto da sei parti, Mauro Ferrari distilla, con pazienza da miniatore, poche liriche dense e partecipate (si consideri che la genesi dell’opera risale agli anni novanta, per ottenere la versione definitiva solo recentemente). Partendo dall’immagine, eletta a simbolo, della spira appartenente alla fabbrica Italsider/Ilva di Novi Ligure, l’autore ci accompagna dentro il tessuto vivo della memoria collettiva appartenente alle generazioni nate negli anni cinquanta/sessanta a cui dedica il volume. Qui ritrova le illuminazioni condensate in ideali capaci, in una prima fase, di muovere le coscienze e, in seguito, inesorabilmente scivolate verso il declino e la perdita di energia; fino allo svuotamento. Come da un fondale dimenticato, sono le utopie ad affiorare in queste pagine mostrando i propri resti. Nutrendo la scrittura con le proprie esperienze e appoggiandosi a luoghi appartenenti al territorio del Novese, l’opera si dilata facendosi gesto umano e civile dove, potente, si esperisce, come una sentenza, la sconfitta collettiva. Con un atto d’amore, e una sottesa dichiarazione d’appartenenza, l’autore convoca la terra della propria infanzia, attivandone la forza catalizzatrice nel tentativo di richiamare noi tutti, così distratti e avvolti in un torpore anestetizzante, a una maggiore consapevolezza di ciò che ha definito il profilo di intere generazioni, rappresentandone la ricchezza. Abbiamo di fronte pagine di poesia civile e, nel contempo, d’amore per un’umanità dallo sguardo ormai vacuo e per una terra dal futuro incerto. Ferrari alterna versi dal sapore lirico (si veda la descrizione di un paesaggio novembrino con cui si apre l’opera) a passaggi dal tono parenetico: “Dillo, con tutta la tua forza dillo,”. Siamo di fronte a liriche costellate da interrogazioni inquiete e senza risposta che suggeriscono la presenza di un’ossessione ancora in grado di sommuovere. L’autore mette in atto un vero, amorevole, corpo a corpo con il proprio/nostro passato tentandone una ridefinizione e un recupero in termini di valore, sapendo che: “anche questo deve entrare nei versi/per far risplendere quanto svanisce”. E poi ecco l’arrivo degli anni ottanta, il consumismo smodato, “la paccottiglia scintillante/spacciata per modernità ineluttabile.” sigillo impresso a una sconfitta fattasi definitiva. Tutta la rabbia e il rimpianto derivanti da questo fallimento trovano voce nel primo verso della parte conclusiva in cui si definisce “Come uno sbocco di sangue l’urlo.”. L’ultimo sguardo, velato nella resa, si posa prima su una patria disgregata e senza miti, “oppressa da una Storia/lunga e senza Storia,” per poi ritrovare la spira, emblema “di ciò che sale in nulla e si disperde.”.

 Marco Bellini (recensione uscita in Incroci, n. 40, Luglio/dicembre 2019)
         
                                                                                                                 

LA SPIRA
Non c’è di pioggia che una bava, un alito
che il vento sperde a mezza altezza
sui volti che s’inumidiscono
in penombra; ma rivola la pigna
e inghiotte un gorgo misterioso
nel silenzio che novembre
scioglie sotto i passi.
In questi giorni brevi fra due notti
la spira sale dietro al cimitero
e azzurra il cielo grigio
salendo a pena per sfaldarsi in nulla.
L’inverno russo del sessantatré
ancora lo ricordano i superstiti
che trasferirono la fabbrica
alla nuova sede, sui campi
al limite della pianura ricca.
La carne e le tubature non ressero
a quel gelo, dice il ricordo:
nel poco di storia seguito all’uragano
s’inaugurava l’Era Nuova dell’Industria,
e quella spira mulinava con la stessa
alacre inerzia – e più futuro. 
[…] 
Così riaffiorano dagli anni
le case miracolate e la fabbrica,
un eldorado sommerso
ai laghi della Lavagnina, sempre
più arcano ai vivi e luminoso alla leggenda
man mano che si estingue la memoria.
Qualcuno ha visto, ne ha parlato:
anche questo deve entrare nei versi
per far risplendere quanto svanisce
o resta cicatrice sulla pelle –
le cose minacciate dall’oblio,
il nome di chi salì sui monti
per fare resistenza al male
nell’alone sfrangiato di nebbia,
silenzio in tasca e fucile in spalla,
o la spira d’una ciminiera
sorta fra le rovine dopo l’olocausto,
come noi.
[…] 
È nelle cicatrici che è graffiato il tempo,
nei segni che restano, gli oggetti dispersi
nei cassetti e le scritte sui muri
che non svaniscono. Ma quanto
brucia a toccarlo, e quanto avvampa
a ricordare cosa siamo stati,
noi che pensavamo
ancora possibile l’irrealizzabile
e i miraggi a portata di mano –
un’utopia di bello buono e giusto –
mentre il mare si ritirava preparando
l’onda dello tsunami. 
[…] 
L’inverno ghiaccia i sogni che non sono stati
al calor bianco – ed è un’attesa ignava;
oppure è digrignare i denti,
attendere caparbi e misurare la sconfitta
ad ogni istante, perché con gli anni
si cerca il nucleo duro
che persiste e che non cede;
il cavo d’illusioni e di visioni
che fragile ancorava la vita all’utopia
è un filo marcio che non tiene,
la mano brancola in tasca a sera
fra le luci e le sirene delle fabbriche.
I sogni sciolgono con la lentezza
tiepida di marzo, rimpianti e rancori
ustionano improvvisi e duraturi
come l’esplodere dei fiumi di pianura,
che spinge a valle un’irruenza
lontana, non nostra, un’astrazione
che è miraggio di montagne
di colpo nitide, vicine, minacciose –
ti senti addosso il loro sguardo e il premere,
quasi un’implorazione,
cedono gli argini di colpo
e persino i ruscelli allagano i campi,
insolenti, annegando il verde
di detriti e fango imputridito.

[…]

Come uno sbocco di sangue l’urlo.
Troppe bombe esplose nel mistero
ma troppi bersagli mancati per ignavia,
nomi che tornano a sporcare le ferite:
è il Nuovo che da decenni avanza,
dicono, sempre più qui e vitale –
da sempre qui e letale –.
Ma compreremo anche la loro mercanzia,
per qualche minuto credendo
e intitolando piazze
ai nuovi quisling, respirando
a pieni polmoni con gioia triste
l’aria mefitica a cui siamo avvezzi. 


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