Segnalo l'uscita di Scrittura come ciglio (puntoacapo, 2019), di Giacomo Leronni, con la prefazione di Daniele Maria Pegorari, che riporto integralmente.
IL BRUSIO DELL’ABISSO: LA POESIA DI G. LERONNI
Dopo aver lungamente coltivato con
discrezione e riservatezza la sua scrittura (comunque già ben notata e premiata
al “LericiPea” del 1998 e anticipata su diverse riviste, come «L’Area di
Broca», «incroci» e «Atelier»), Giacomo Leronni, nato a Gioia del Colle (Bari) nel
1963, giunge finalmente a un bel volume organico solo nel 2008 con Polvere del bene, seguito da Le dimore dello spirito assente e da L’ufficio del vuoto. Altre prove della
sua ricerca di tono sono state anticipate nelle brevi suite apparse nel 2011 in tre antologie, nonché nel secondo numero
dell’almanacco «Punto» nel 2012[1]. Proprio l’esordio così
ritardato di questo ottimo autore pugliese ha fatto sì che il suo linguaggio e
la sua postura di poeta siano apparse immediatamente mature, come se
l’apprendistato giovanile fosse stato tutto risolto nella semisegretezza o
semiclandestinità di un lavoro privato, coltivato con una discrezione e un
pudore non inferiori al rigore della sua autocensura.
Leronni esce allo scoperto (a
differenza di troppi suoi colleghi) solo quando avverte che il suo cammino ha
raggiunto effettivamente un nuovo traguardo, una tappa sì provvisoria, ma
necessaria a tracciare un bilancio della costruzione del sé; e si tratta, ogni
volta, di un regesto serissimo, stilato con un rigore e un giudizio che non
lasciano molto spazio all’estetismo e al compiacimento, per porsi lucidamente
nel solco della tradizione otto-novecentesca europea e, in particolar modo, di
quella francese, sulla quale egli ha condotto la sua formazione e poi il suo
impegno come docente di lingua francese nella scuola secondaria e come infaticabile
organizzatore culturale nella cittadina natale. Anche quest’ultimo libro, Scrittura come ciglio – e tanto più per
il fatto che recupera molti testi ‘antichi’, addirittura di un ventennio fa,
alcuni dei quali apparsi nelle antologie più su ricordate – si pone sotto il segno di una complessissima parabola metafisica, vibrante
di una sete conoscitiva e religiosa perennemente accesa, avversa a ogni
quietismo, eppur rattenuta sotto la fredda superficie di una scrittura che fa
della concentrazione lessicale e dell’esattezza sintattica i suoi punti di
forza e le sue costanti stilistiche. Disinteressata nei confronti dell’oggettività
del mondo e delle dimensioni tanto private quanto collettive della storia, la
sua scrittura è quella di un veggente del ventunesimo secolo che scommette
sulle potenzialità rivelatrici di quel buio che l’uomo teme sia il nulla, il
vuoto privo di senso. È certamente ardua la sfida che Leronni lancia nei
confronti dei suoi lettori, costretti a non adagiarsi in una sintassi mai
placida e diretta, bensì spiazzante, continuamente dislocante su un piano di
pensiero puro che lascia del tutto in ombra la realtà e per il quale sarà il
caso di richiamare alcuni modelli impegnativi, forse quelli di Matteo Bonsante,
Flavio Ermini e Milo De Angelis, senz’altro quello di Cesare Viviani, non a
caso richiamato nell’epigrafe che apre il volume[2].
Questa modalità di scrittura
potrebbe apparire respingente, se non fosse che l’io empirico che la origina
riesce a far sedimentare nell’algido ritmo dei suoi versi la traccia di un
calore autentico, di una mitezza d’animo, di un’intelligenza umile che quasi
vuol chiedere perdono di questa oscurità, predicandone la necessità,
l’inevitabilità, la consustanzialità alla natura stessa della poesia, in quanto
ricerca delle ombre, della profondità[3], di uno spazio
pre-linguistico e, dunque, pre-comunicativo. Basterebbe fermare l’attenzione
sui lemmi più fortemente caratterizzanti i titoli dei suoi quattro libri per
avere una piccola pista ermeneutica: polvere,
spirito assente, vuoto, ciglio sono tutti
termini che si oppongono alla concretezza della vita fenomenica, si riferiscono
a ciò che non c’è più o non c’è ancora o, meglio, l’una e l’altra cosa insieme.
Si tratta di mettersi in ascolto di un Significato che è all’origine
dell’esistenza, ma che in essa si riverbera solo in forma di vertigine, di
flebile e incomprensibile eco, sovrastata dai rumori della vita quotidiana e
della grande storia, eppure cercata, desiderata, inseguita quale approdo
finale.
La poesia di Leronni, così, è
l’aspirazione a un Nulla in cui si ha fede di ritrovare il Tutto, a un silenzio
di tipo mistico e, dunque, semanticamente pregno. L’io lirico che la agisce è
un acrobata, erede di quello ungarettiano – cento anni fa al guado di un Isonzo
metafisico, ora in bilico sul ciglio
di un abisso – e, dunque, un uomo invitato a riconoscere la propria «inconsistenza»
(come si legge in Camminare; ma converge
in questa direzione anche «il nulla sulle spalle» di Un antico messale). Spogliato della propria corporeità, egli può camminare
«su una pista incerta», in cui «nulla raggiunge l’equilibrio / tutto giace
dissipato», i dati di realtà sono deformati («i nomi / sono scompigliati») e lo
stesso destino (il «compito» del poeta) non è mai chiarito. Da queste parole di
Avvertenza che Leronni pone ad
apertura di libro, inizia una farandola di immagini mai parafrasabili, mai
traducibili, mai denotative, che corrispondono a un viaggio verso quel punto
che può essere, a un tempo, la fine o l’inizio di tutto.
Può essere utile qualche esempio di
questo virtuosismo concettuale: «Incappavi / in sguardi di pietra feconda / con
qualche sera nel petto / fra vene e vento» (Antipoesia
del millennio); «domani / con l’io scucito, le dita cupe // sullo scudo del
mattino / il superstite poserà la gemma / del suo turbine / gioie miti, già
corrose» (Una vendetta per le rose);
«Più giù / al quotidiano mercato / delle menti, le vene / intercettavano un
silenzio asciutto» (Fino all’elezione);
«I capelli possono passare / i fianchi gemere la loro luce. / Questa città di
lusinghe / esposta al canto, al fasto febbrile / solleva i suoi cristalli» (Deporre la cicatrice); «e alla fine
t’inabissi / per qualcuno che non conoscerai // prega che sia invano / che la
nudità verso il fuoco / sia perfetta» (Quando
la notte); e si noti in questi ultimi versi l’eco luziana del distico
finale di Presso il Bisenzio: «Prega
che la loro anima sia spoglia / e la loro pietà sia più perfetta»[4]. Conforta e avvalora
teoricamente la lettura di questa densa raccolta un’importante riflessione di
Roland Barthes, intitolata Scrivere,
verbo intransitivo?, che risale al 1966, e fu poi inclusa in uno dei suoi
più celebri volumi, Il brusio della lingua:
in particolare nel quinto paragrafo, La
diatesi, Barthes suggerisce che «la definizione dello ‘scrivere’ moderno» (e
si riferisce più precisamente all’età contemporanea, cioè post-positivistica,
come s’intende dal complesso del suo ragionamento) sia da cercare nel
«passaggio» dall’uso attivo del «verbo ‘scrivere’», quello per cui «lo
scrittore» è «chi scrive qualcosa», all’uso «intransitivo» o, meglio ancora,
‘medio’, che sarebbe la forma di diatesi più radicalmente distante dall’attivo
(più dello stesso passivo).
Infatti, mentre «nel caso
dell’attivo, il processo si compie al di fuori del soggetto» e questi è
«anteriore al processo scritturale», cioè preesiste all’opera che realizza e da
questa non è messo in discussione, non è coinvolto e non è trasformato (e
questo sarebbe valido, secondo Barthes, almeno fino a una stagione della
scrittura che ha salvaguardato la «soggettività, come quella romantica»), «nel
caso medio, invece, il soggetto, agendo, coinvolge se stesso, rimane sempre
interno al processo, anche se questo comporta un oggetto», cioè anche laddove
stilisticamente la scrittura fosse realistica, narrativa e denotativa: «oggi –
prosegue il teorico –, scrivere è sempre porsi al centro del processo
discorsivo, è realizzare la scrittura coinvolgendo se stessi, è far coincidere
l’azione e il coinvolgimento, è lasciare lo scrivente all’interno della
scrittura». Così facendo, «il soggetto si costituisce in quanto immediatamente
contemporaneo alla scrittura, attraverso la quale si effettua e si coinvolge»[5].
Questo, a mio modesto parere, spiega
molto della poetica di Leronni, soprattutto in quanto poeta lirico. La
prolungata concezione di ciascun libro, la dilatazione dell’arco temporale a cui
risalgono i testi scelti e allineati a creare il macrotesto, nonché l’oscurità
stilistica che colpisce e affascina il lettore sono l’effetto conseguente non a
uno sforzo cerebrale, bensì alla scelta di uno statuto letterario per cui
comporre è innanzitutto scriversi: si
badi bene, non si tratta di scrivere di sé, come avviene normalmente
nella scrittura autobiografica, che maschera una distinzione di funzioni fra un
soggetto antecedente (l’io empirico dell’autore che assevera un’interpretazione
univoca della propria vita e per questo compie un’operazione decisamente
ideologica) e un oggetto (il personaggio narrativo in cui l’autore ha
deliberato di costituirsi). A fugare un possibile fraintendimento possono
soccorrere questi esempi d’introspezione[6] tutt’altro che transitiva
e autobiografica: «Lì sospesi, riluttanti / attendiamo la ruga estrema / il
tempo che non ha bisogno / del tempo» (La
ruga estrema); «l’incanto degli anni spossato / dalla febbre fino al
velluto estremo» (La meraviglia sospesa);
«È stato un acuto viaggiare / gli occhi perduti / nella luce demente // i
fianchi spossati, il corpo un tappeto / gualcito dagli astri» (Un acuto viaggiare). Comprendiamo,
allora, che si tratta di una scrittura mediale o riflessiva, in cui il soggetto
scrive se stesso, cioè si compie
progressivamente e infinitamente, mentre cerca una verità invisibile e profonda
che giustifichi la vita e la proietti su uno stabile orizzonte di senso.
Daniele Maria Pegorari
Università degli studi di Bari “Aldo Moro”
AVVERTENZA
In questa prova
nulla raggiunge l’equilibrio
tutto giace dissipato
su una pista incerta
tracciata appena tra le gole.
In questa opera i nomi
sono scompigliati
si dà contezza del compito
senza definirlo
i fatti sgusciano
in ogni direzione
non approdano
e i fatti non sono fatti
noi non siamo noi
nessuna fine conclude alcunché
bisogna disabituarsi
dividersi, frangersi
la parola è più dell’opera
la parola è cruda
non fa sconti
alle prime avvisaglie
dell’ordine, della regola
si ritrae nell’eterno.
**
Scrivo carnali poesie
corolle che non incontrano il cielo
mosche chiuse in bottiglia
sul fronte dell’aridità.
Un croco rimuginato dal vento
nel casolare della notte.
In villaggi, tutto intorno
brecce per l’attesa:
l’ustione
si spaccia nel mio cuore
per complice giardino.
CAMMINARE
In un vicolo
un pugno di buio
dentro.
Le costole a
sorreggere il pensiero
la tenuta adiposa
dello sguardo.
Intorno morsi,
briglie.
Nel dubbio, se dover
scendere
se accostare una
bocca confidente.
Pavidi a parte, o
vicini
forse a fianco.
La torre è
superata
la piazza
lasciata indietro, varcato
l’anello del
cosmo.
Da una finestra
spunta non si sa
come un volto
(Lazzaro in
festa, Lazzaro
decomposto). Non
ti fermi.
Non dai peso agli
annunci, ai fari
non ti lasci
fiaccare. La luna
ti chiede
udienza. Le fai posto
schiarisci la
voce.
Poggiala lì la
tua inconsistenza.
UN ANTICO MESSALE
Condividere il corpo
grazia obsoleta
lavare gli squarci
benedire la polvere
dondolare in gola
il chiarore che ci ha sconfitti
un fregio le vene
il respiro che recita i suoi nomi
condividere il corpo
la rima dei capelli
le volte dell’iride
venti prosperi
il nulla sulle spalle
le mani che sognano
che stringono incensi
i gesti che incitano
la gioia di un regno ferito
una casa
in cui si addormentano
pietre fluide
un antico messale
in cui la luce
si consegna discreta allo spirito.
ESCA, NASCONDIMENTO
Un cielo inclemente
siede sulla pietra
canta la prossimità
una pelle di fosforo
ritma la sera.
Ripongo l’urna: emergono
incontri non vissuti, cerimonie
alluse, tensioni.
Mi sposto sotto la cappa
del giudizio
la pietà mi evita.
Attraverso la cruna
del cibo sconveniente
un poco mi dischiudo:
mormoro con le cicale
propago lo sferzante
bacio della notte.
IL DOMATORE DI SEGNI
Lento è il magistero
di chi scrive, penoso
il suo fiorire
di convolvolo bruno
ardito, lancia in resta
per fiumane sfatte
vibra invaso dalla febbre
torvo se gli recano
ormeggi distanti dalla domanda
corde percosse dal vuoto.
Lento
trascorre il domatore di segni:
in silenzio pianta le fragole
del suo dire
senza l’angelo
di un saluto.
A poco a poco
si deposita la poltiglia, magma
della dispersione:
congegni sdentati
brandelli di pasque senza lume
semine preziose, misconosciute
nient’altro che sangue
sangue che s’aggruma.
L’IMPERCEPITO
L’ordine inganna
la comprensione disunisce
non si argina la pioggia senza
tagli
nel colmo
s’acquattano verità incresciose.
Sui colli qualcuno
depone la sua pace
il ceppo dei suoni.
Non violare
la bava dell’oscurità:
tutt’intorno sensi
piste che non immagini
un filo d’agonia rappresa
che giustifica l’invisibile.
LE COSE INVISIBILI
Onorando il grano
nel pozzo della sera
incerte le luci
il mare un alabastro peccatore
ricevi il telo del silenzio, scuoti
le foglie del mistero
tutta l’acqua è per te
il desiderio impacciato
l’indice acerbo della stella.
Passeggiare, leggere: non ricordi
cosa ti ha condotto lì
labbra o frane
tutto può espandersi, risucchiarti
in un’insana cadenza.
Il tuo sangue non è lì
nei tuoi occhi
splende
una soave idiozia.
Giacomo
Leronni è nato il 22
luglio 1963 a Gioia del Colle (BA), dove vive. Laureato in lingue e letterature
straniere presso l’Università di Bari, è insegnante di lingua francese nella
scuola secondaria. Il suo primo libro è “Polvere del bene” (Manni, 2008). Il
libro è giunto semifinalista al Premio “LericiPea” 2009 e ha vinto il Premio
“Alessandro Contini Bonacossi” 2009 per l’opera prima. Un suo testo inedito è
inserito nel volume “Puglia in versi”, guida turistico-poetica della regione a
cura di L. Angiuli e D.M. Pegorari (Gelsorosso, 2009). Le sue poesie sono già
state pubblicate, negli anni, sui seguenti periodici e riviste: “Hebenon”,
“l’immaginazione”, “Avvenimenti”, “clanDestino”, “il Cobold”, “L’Area di Broca”,
“Frontiera”, “Pagine”, “incroci”, “ATELIER”, “Il Giornale”, “Vernice”, “Le
Méridien – Stanze”.
[1] Le
precedenti raccolte sono dunque: Polvere
del bene, prefazione di Francesco Giannoccaro, Manni, San Cesario di Lecce 2008;
Le dimore dello spirito assente, postfazione
di Massimo Morasso, Puntoacapo, Novi Ligure 2012; L’ufficio del vuoto, con dodici fotografie di Ilenio Celoria, Puntoacapo,
Novi Ligure 2015. Le antologie cui ho fatto riferimento sono: Quanti di poesia. Nelle forme la cifra
nascosta di una scrittura straordinaria, a cura di Roberto Maggiani, L’Arca
Felice, Salerno 2011; Frammenti imprevisti.
Antologia della poesia italiana contemporanea, a cura di Antonio Spagnuolo,
Kairós, Napoli 2011; Dentro il mutamento,
a cura di Maria Lenti, Fermenti, Roma 2011.
[2] Il
magistero del poeta tosco-milanese è espressamente dichiarato dall’esergo non
solo di questa quarta raccolta, ma anche di quella esordiale, che attingeva a Cesare
Viviani, Passanti, A. Mondadori,
Milano 2002. Ma ‘adiacenze’, se non debiti, sono ipotizzabili anche nei
confronti di Matteo Bonsante (almeno Poesie
1954-2004, Aliante, Polignano 2004; Dismisure, Manni, San Cesario di Lecce
2010), Flavio Ermini (almeno Ali del
colore, Anterem, Verona 2007; Il
compito terreno dei mortali. Poesie 2002-2009, Mimesis, Milano-Udine 2010; Della fine. La notte senza mattino,
Formebrevi, Caltanissetta 2016) e Milo De Angelis (Poesie, A. Mondadori, Milano 2008).
[3] Salutava
questo carattere della sua poesia già F. Giannoccaro nella prefazione a Polvere del bene, cit., p. 8: «[L’autore
accetta] la sfida dell’esistere, si logora nel confronto, sapendo che si può
anche soccombere. Purché si salvi almeno un’idea o un’emozione, all’insegna di
una ricerca conoscitiva compiuta passo dopo passo».
[4] Mario
Luzi, Nel magma, All’Insegna del
Pesce d’Oro, Milano 1963; edizione accresciuta Garzanti, Milano 1966; ora in
Idem, L’opera poetica, a cura di
Stefano Verdino, A. Mondadori, Milano 1998, pp. 311-352: 319 (apparato critico alle
pp. 1526-1559: 1532).
[5] To Write:
An Intransitive Verb? apparve
dapprima in inglese, data la destinazione del Convegno The Languages of
Criticisism and the Sciences of Man. The Structuralist Controversy,
tenutosi a Baltimora dal 18 al 21 ottobre 1966, i cui atti furono editi a cura
di Richard Macksey ed Eugenio Donato, The Johns Hopkins University Press,
Baltimore-London 1970, 19722, pp. 134-145. La stesura francese fu
poi raccolta in Roland Barthes, Le
bruissement de la langue. Essais critiques IV , Seuil, Paris 1984; ed. it. Il brusio della lingua. Saggi critici IV,
trad. di Bruno Bellotto, Einaudi, Torino 1988, pp. 13-22.
[6] Su
questa oltranza linguistica insisteva qualche anno fa il postfatore di Le dimore dello spirito assente, cit.,
p. 143: «la carica eversiva della migliore poesia visionaria del Novecento
italiano, e non solo, appare come sospesa e trattenuta in un limbo infralinguistico».
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