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martedì 12 giugno 2018

Stefania Di Lino su Rita Pacilio




Rita Pacilio:“L’amore casomai”. 
Ovvero l’Alchimia del desiderio.


-Mito e utopia: come l'origine è appartenuta, così anche l'avvenire apparterrà ai soggetti in cui vi è del femminino.
(Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso)

-Non posso dire “adesso”
senza averne nostalgia-
(Filippo Strumia , in Marciapiede con vista, Einaudi, 2016)



Quando trattiamo di poesia, trattiamo di un potenziale espressivo che si esplica frequentando una zona d'ombra non del tutto conosciuta, non del tutto consapevole. Spesso affatto. E poiché parliamo anche di soglia, di varco/liminis, nella dimensione poetica può accadere tutto. Anche l’imprevisto, l’inaspettato, il sorprendente. L’epifanico. Non solo per chi legge, ma anche per chi scrive.

La poesia, se è tale, al pari di altre arti, - anzi direi con un quid in più -, trova le sue complesse e articolate fondamenta  in uno scavo di tipo stratigrafico, - proprio come nell'archeologia o nella geologia -, che il poeta, strumento e fine, compie prima di tutto dentro di sé -, e nelle varie voci polisemiche che contiene, sincroniche e diacroniche, e che riesce a far convivere nello stesso testo, in un tempo sfalsato, non allineato, ma compresente.  A queste voci, il poeta presta la musicalità del suo orecchio diventandone al contempo esecutore e cassa di risonanza.

Il lavoro poetico non è da tutti. Non è da tutti metterlo in pratica, attraverso l’azione poetica, né tanto meno capirne la complessità. E, almeno chi scrive,  neanche pretende che tutti comprendano il lavoro/ lavorìo di un poeta. Essere un enclave ha anche dei lati positivi. Il linguaggio è iniziatico e l’incontro con la poesia è un incontro epifanico che lascia il segno solo a chi questo segno già lo porta dentro di sé. Lasciamo dunque la poesia alla sua dimensione misterica, la sua inspiegabile genesi, perché il mistero è ciò che più le appartiene  non dichiarandosi mai completamente, rimanendo sempre un po’ celata, in ombra come è  nella sua natura.

Il compimento della rivelazione nella poesia, sebbene esista, non è mai completo né esaustivo. Spesso la rivelazione (anche di sé), è più intuita che capita, poiché altri sono i canali che convergono per la comprensione. La poesia, e la sua scaturigine, non si spiega e l’arte, più in generale si auto legittima nelle emozioni provate mediante la forza che la spinta libidica suscita e con cui rade al suolo sovrastrutture di cartongesso; dilaga e si trasforma in vento sferzante, innova, senza altro cercare, senza il bisogno di ulteriori certificati di esistenza. La poesia e l’arte tutta , attingendo nel simbolico, hanno la capacità di auto significarsi. E’ cultura non solo nel significato più alto, ma lo è antropologicamente.

E che la scrittura in ogni sua forma autentica, - cioè non pilotata per coprire finte urgenze di un mercato già ampiamente dopato -, porti con sé quello stimolo inconfondibile, quell’energia insostituibile e propulsiva, chiamata Amore, è per me un fatto acclarato. Di conseguenza qualsiasi sia l’argomento “toccato”, si scrive sempre e comunque d’amore e proprio nella forma che l’amore detta. E se nel caso della poesia che parla della poesia, travalicandola e conducendola altrove rispetto alla sua collocazione conosciuta,  abbiamo la definizione di metapoesia, quando l’amore scrive d’amore, slittando e ricollocando il concetto d’amore stesso in una dimensione altra da sé, estrapolato e ricollocato in quell’altrove a cui il suffisso rimanda, saremmo forse autorizzati a parlare di  metamore”?


Dunque questa la premessa - che comporta anche un quesito già posto a voce all’autrice stessa, e la cui risposta lascio aperta a chi legge-, per introdurre il libro di Rita Pacilio, L’amore casomai ( La Vita Felice, 2018), un testo che mi ha riportato alla mente una citazione di  Massimo Recalcati, il quale in un’intervista  afferma :  “...i poeti la sanno lunghissima sul sesso”.
E’ vero, i poeti sul sesso la sanno lunghissima, ma perché, come pochi, sanno cogliere il senso tra il corporeo e la sua sublimazione, tra il reale e il simbolico. Perché i poeti sanno rendere contemporaneo ed eterno, il tempo della transizione.

Parlare e teorizzare di e sul sesso non è mai semplice senza ricorrere a categorie sociologiche e antropologiche, senza menzionare sistemi economici, avendo consapevolezza che, in tema di sesso, qualsiasi tipo di potere politico ha allungato i suoi artigli, tentando egemonia culturale  per controllare e trarre profitto. E questo tentativo egemonico è tutt’ora in corso e  prevede dei cambiamenti enormi rispetto al conosciuto sinora, perché nulla è più politico del sesso.

Per la psicanalista e filosofa femminista  Luce Irigaray, la differenza sessuale è la differenza per eccellenza, la principale basica diversità da cui partono tutte le altre. Solo attraverso il rispetto di questa  diversità primaria del femminile, molto sofferta in una struttura sociale gerarchica e patriarcale, - (ma anche questa è in transizione verso qualcosa di anonimo e di peggiore),  si dirama, per estensione, verso tutte le altre forme di diversità presenti nella comunità umana , ambiente e natura compresi.

E il sesso, attraverso il meccanismo del piacere, è il principale strumento di riproduzione della specie (ma anche in questo settore si annunciano novità di tipo trans-umanista), e di conoscenza profonda di sé in relazione all’altro, grazie alla sua perfetta complementarità anatomica.  Allora il poeta archeologo/geologo, che sonda orizzonti e abissi, profondità, crepe nel muro, nella terra, nel corpo e nell’anima, che annusa interstizi verticali umidi e colanti, torna. Anzi è la poeta archeologa/geologa Rita Pacilio a tornare.

In seconda istanza, e proprio in virtù della citazione riguardante Luce Irigaray, sento di dover (parzialmente) rassicurare quell’ala del Movimento Femminista Internazionale, che da tempo denuncia la minaccia sistemica su più fronti, dell’evaporazione del principio femminile (ma a mio avviso, anche quello maschile sta subendo la stessa sorte con la complicità di un’ala del movimento, o nella sua indifferenza, - poco importa, tanto il danno umano è il medesimo); da qui il timore (giustificato) della sparizione del femmineo finora conosciuto, e con esso dell’idea stessa dell’eterno femminino che pure ha accompagnato il demone creatore, preminentemente maschile, nell’iconografia dell’arte figurativa,  e nella nascita stessa di  molta poesia,  almeno fino alla prima metà del secolo scorso.
Das Ewig-Weibliche zieht uns hinan”, ovvero "L'eterno femminino ci trae in alto", sia usato nell’accezione corrente, e cioè il fascino che una donna esercita sull’uomo, ma anche nel senso più ortodosso inteso dal suo coniatore, Goethe, ovvero la redenzione e la salvezza del maschile, - avendo in mente anche la Genesi con l’albero della conoscenza, oggi potremmo dire della consapevolezza del discrimine tra il bene e il male - attraverso la complementarità insostituibile del femminile e mediante questo, la piena coscienza della finitezza umana.

Quel femminino esiste e resiste in ogni pagina di quest’ultima opera di Rita Pacilio, - un prosimetro  in cui i versi, come  linee spezzate dal punto che chiude,  si alternano  sapientemente alla prosa in una raffinata composizione che via via diventa sempre più organica e unitaria, con affondi da vertigine. Versi che vanno letti più che raccontati. Versi in cui l’autrice- Janara, assecondando il Genius Loci della sua terra, disegna e scolpisce, attualizza ed erotizza, canta e perpetua, il concetto di  femminino,  appunto, sino a far oscillare l’osservatorio usato come un pendolo della profezia, in mano alla Sibilla Cumana, dall’interno del proprio specifico femminile, verso un punto di vista più maschile, assumendolo talvolta, nel gioco delle parti, come proprio.

Inevitabile quindi, un richiamo agli archetipi junghiani di “anima” e “animus”, che nel testo della Pacilio, assumono le sensuali forme dell’Androgino per eccellenza, il Rebis che riunisce in sé i due principi opposti e complementari, l’Ermafrodito del Bernini: farsi al contempo desiderio e attesa, diventare simultaneamente, soggetto e oggetto di quel desiderio, spezzando la sequenza lineare del tempo.
Dello scarto temporale – (parlavo indietro di un parallelismo sfalsato) - nell’uso dei tempi verbali e in quello rarissimo delle virgole, (“Ciò che è stato non è mai accaduto se non ci sei”); entrare, a volte,  in una ulteriore oscillazione, disforica, come  con La stanza vuota.

 [“Il progetto non conviene alla condizione non saputa della poesia che viene. 
Il resto deriva da quella mera, e anche impensata, logica sensibile (il fluire ritmico della parola), in modo simile a come si produce la successione melodica di una composizione musicale.”

(Antonio Gamoneda)]

Dicevo dell’uso parsimonioso della virgola, a favore di un uso frequente del punto che traina il testo con una sonorità forte e impositiva,  e lo caratterizza con una cadenza ritmica sostenuta.  
È difficile, a questo punto,  leggere “L’amore casomai” di Rita Pacilio,  senza sentire il tono, le  sonorità ancestrali, talvolta labirintiche, della voce dell’autrice. Almeno per chi ha avuto l’esperienza di ascoltarla e vederla agire sulle tavole di un palcoscenico. Perché qui si parla di una scrittura che ha una voce. Quindi una scrittura corroborata, sostenuta, riconoscibile, al punto da dispiegarsi con abilità, proprio come fa la voce nel canto, con varie modalità espressive alternate, ( prosa-poesia, racconto-affabulazione, diario intimo - confessione, canovaccio - partitura), usando vari corridoi di risonanza,(testa, gola, seni paranasali e non solo, palato duro, e non solo, faringe, ecc...), poesia che diventa sempre più corpo (d’amore) e voce che si sdoppia all’interno di una. Una voce poetica immaginifica (produce e stimola immagini), una voce che contiene alterità. Una polifonia dunque, in un andamento discorsivo piano, distaccato, controllato che, alla stregua della poesia lirica dell’antica Grecia, qui si fa corale, ingoiando l’altro o dovendolo ancora partorire, assurgendo questa dimensione ad un indiscusso valore estetico.

E come nelle migliori sceneggiature, la sapiente mescolanza tra un ritmo, seppure incalzante, e pause, seppure brevi, di fiato, ansimanti, di tempi rubati e compressi, (Amore respirare, Il galoppo del respiro, Sussurò), colloca la lettrice o il lettore, in una forte dimensione dell’Eros, - inteso esattamente come energia cosmica primigenia e creatrice, in una introiezione-immedesimazione che non lascia scampo. E allora si abbandonano sovrastrutture, falsi pudori, una certa ostativa pruderie piccolo-borghese, per seguire il percorso indicato dall’autrice fino al parossismo di un sesso estremo, in cui Eros tocca Thanatos, per tornare poi a ricomporsi, lisciando la gonna sgualcita, pronta ad andare a prendere i bambini a scuola. Come descrivere dunque Eros? Come un dio o come un demone che ti coglie la nuca? Ambedue le cose, ragionevolmente, vista la forza vitale dell’amore, ma anche la sua capacità distruttiva (e quella di lasciarsi distruggere) non appena, varcata la soglia di un labile confine, tutto si ribalta. Allora il rapporto con l’Altro (e con se stesse) diviene patologia, confusione, distruzione, e si entra in una narrazione amorosa come nelle acuzie di un delirium che divide, una patologia che frammenta e sparge i pezzi; disconosce e smarrisce. Scompagina e rende estranei. Das Unheimliche, direbbe Freud, ovvero il Perturbante. E in questa narrazione, al contrario delle favole per bambini (“non invidiatemi, non invidiatemi!ho la pelle vecchia e stanca!”), (quella canzone, il vino rosso, un tavolo per due. E io non c’ero), non siamo neanche costretti dall’ipocrisia di un lieto fine:

(«Per avvicinare l'altro nel rispetto e nella salvaguardia della sua alterità, forse è possibile partire da questa realtà corporea, affettiva, intellettuale: l'altro è un mistero. Riconoscendo che l'altro è e rimarrà per me un mistero, posso rispettarlo come altro senza sottometterlo a una qualsiasi mia legge [...]» -Luce Irigaray, Essere due (Bollati Boringhieri)

Stefania Di Lino 9 giugno 2018


Senza orario
L’intelligenza rivoltata nel cerchio della noncuranza, la porta aperta. 

Lei lo amava a intermittenza, in modo irregolare, senza equilibrio.
Un rumore di sottofondo. L’inquinamento dei sensi. Voce indispensabile, un bisogno reale, fisico. Un sms al mattino che dà la sveglia. Lei ha spalle forti, quelle che sanno portare le montagne e i rami selvatici.

Parlava con le poesie sui muri.

Qualcuno si accorge della solitudine?

Raccoglieva le margherite lungo i marciapiedi. La gioia fragilissima di un tempo nuovo. Un tempo in cui il coraggio è in equilibrio funambolo nello spazio largo. Un suono.

Ho paura di quello che sto provando, sto chiudendo con il passato. Adesso sono un chirurgo. Chiudo con quei giorni e taglio i fili. Era felice.
Cantare le odi dell’amore nella tromba delle scale bianche. Le lingue lunghe, rubate alle ore che non durano. Fa paura. Si resta zitti quando si è lontani. Le spalle della mancanza sono segnate da un tatuaggio invisibile. Sotto pelle. Lei diceva di avere una lucertola. E la mente è fatta di rombi su rombi. Ci sono geometrie che non si possono dire. Semplificare. Scucire la mente. Ecco la mente conserva il ricordo del grottesco, delle stagioni passate, ma poi è facile dimenticare il poco prima.
Un attimo fa.
Si resta un nome senza nome. Una rinuncia. Tutto si ferma immortale sullo schermo. Le fotografie inviate sono richiami della forma muta. Diventare un talismano da portare nella borsa. Barricarsi nel bagno. Lasciare il mondo oltre la porta. Respirare le lunghe ore sistemate nell’armadio. Venerare le difficoltà emotive, essere sacerdotessa. Inginocchiarsi al piacere.

Cosa fai a quest’ora?

Digitare il nome. Regalare il fiato alle mani. Respiro veloce. Stessa ora. Guardare nel vuoto. Allargare i lati della bocca Spingere forze. Era il segreto a sostenere l'abito da sposa. Il tulle ingiallito. I matti cantano sotto le lenzuola credendo che il cielo si sia fatto basso. Basso sinonimo di greve. Il dito puntato. L’uomo dalle spalle fragili ha nostalgia di casa.

Con la lingua, con la voce ti ho baciato
ti ho sussurrato
Volevi che io impazzissi?
Mangiare ogni pietra, acqua o monte?
Come raggiungerti?
Ingoiare strade, rupi, alberi?

Le visioni. Nel video di pochi secondi il limite dei chilometri.
Così, senza altre parole di mezzo. Lui tacque. Il pellegrinaggio di settembre. Freud non avrebbe trovato meccanismi di difesa per sopravvivere al sogno. Stava accadendo lo sterminio dei viaggi.
Era cresciuto tra tante donne. Affinità elettive. Impressioni profonde. Andare con gli occhi sulla tomba di Novalis. Un giardino in cui Fritz punteggiava dal cielo l’incantamento.

Stanno arrivando, arrivano!
Questa l’intuizione di *Rosselli. Lo ammaliava. Un amico abitava di fronte alla piazza principale. Ospitava un duale. *Renata, invece, portava al polso il Cartier del marito. Si trasfigurava.

Cosa fai a quest’ora?

Spegnere la luce per la preghiera. Non ridete per piacere.

*( - Stanno arrivando, arrivano! Parole di Amelia Rosselli).


Rita Pacilio (Benevento 1963) è poeta, scrittrice, collaboratrice editoriale, sociologa, mediatrice familiare, si occupa di poesia, di critica letteraria, di metateatro, di letteratura per l’infanzia e di vocal jazz. Curatrice di lavori antologici, editing, lettura/valutazione testi poetici e brevi saggi, dirige per La Vita Felice la sezione ‘Opera prima’. Direttrice del marchio Editoriale RPlibri è Presidente dell’Associazione Arte e Saperi. Ha ideato e coordina il Festival della Poesia nella Cortesia di San Giorgio del Sannio. Sue recenti pubblicazioni di poesia: Gli imperfetti sono gente bizzarra (La Vita Felice 2012) risultato vincitore di numerosi Premi, tra cui Laurentum 2013, è stato tradotto in francese Les imparfaits sont des gens bizarres, (L’Harmattan, 2016 Traduction en français par Giovanni Dotoli et Françoise Lenoir) e per Uet Tunisi la traduzione in lingua araba (a cura del Prof. Othman Ben Taleb)Quel grido raggrumato (La Vita Felice 2014), Il suono per obbedienza – poesie sul jazz (Marco Saya Edizioni 2015), Prima di andare (La Vita Felice, 2016). Per la narrativa: Non camminare scalzo (Edilet Edilazio Letteraria, 2011). La principessa con i baffi (Scuderi Edizioni, 2015) è la sua fiaba per bambini; Cantami una filastrocca è un quaderno operativo per la Scuola dell’Infanzia (RPlibri, 2018). È stata tradotta in greco, in romeno, in francese, in arabo, in inglese, in spagnolo, in catalano, in napoletano. A marzo 2018 la pubblicazione dei racconti in prosa poetica: ‘L’amore casomai’.



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