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lunedì 17 ottobre 2016

Mauro Ferrari su Fabrizio Bregoli

90. Fabrizio Bregoli, Il senso della neve, Prefazione di Ivan Fedeli, Postfazione di Tomaso Kemeny, puntoacapo Editrice, Pasturana 2016, pp. 128, € 15,00
ISBN 978-88-6679-079-2 


Ci dice Fabrizio Bregoli, in nota di copertina, che considera questa raccolta (la sua terza) il vero libro d’esordio: un libro che non ha nulla dei classici libri d’esordio, che in genere, anche quando spiccano per originalità, tendono a peccare di quella rapsodicità, a volte di quella incoerenza tipica di chi sta trovando una propria voce (se mai la troverà) fra molti lodevoli tentativi. Dico questo, e lo dico in partenza, perché Il senso della neve è non solo una delle più belle raccolte degli ultimi anni, ma anche un libro con una forte e mai ostentata architettura interna. Diciamo anche: con un saldo esoscheletro di letture e conoscenze su cui si innestano riflessioni personali e capacità espressiva; quella capacità a volte definita “tecnica” che non va confusa con il mero assemblaggio di significanti e (quando ci sono) significati, stili, temi e quant’altro, bensì quello che Pound considerava “la prova della sincerità di un artista”.
Il verso di Bregoli, la sua voce, è una originalissima sintesi: versi che si aggirano nei dintorni di un endecasillabo a volte foscolianamente elegante a volte dimesso, a volte straniato e parodizzato; toni colloquiali e impennate espressive di sapore dantesco; lessico quotidiano e gergo tecnico, scelte iperletterarie e sermo humilis. Insomma, una perfetta convergenza di varie istanze espressive.
Non per caso Fabrizio Bergoli è laureato in ingegneria elettronica, il che dovrebbe porlo adeguatamente lontano dalla forma mentis del poeta, più imbevuto di libri che di consapevolezza del mondo – per quanto non manchino i precedenti (Sinisgalli per dirne uno). Invece, questa poesia ci mostra come la convergenza fra diverse forme di pensiero e stili sia il modo migliore per vedere le cose in maniera corretta – un tema che Bregoli pone direi al centro del libro. Anzi: una possibile strutturazione dell’opera prevede proprio che le prime sezioni preparino per così dire il campo a ciò che segue, come postulati e assiomi, riflessioni sulle condizioni esistenziali in cui si attua lo scrivere poesia. È una scelta che, nonostante la massa dei poetanti sempre più ampia (il che in sé non è né un male né un bene) appare sempre più opera resistenziale o, per dirla con due degli ultimi testi della raccolta (p. 87 e p. 89) di “desistenza”, cioè rinuncia. Il che, preciso, in Bregoli, non è per nulla rinuncia a parlare, trovare voce per le cose da dire sul mondo e nel mondo, bensì decisione di non abbassarsi, il non accettare compromessi (con esiti a volte paradossali, ironici, come in L’ultimo tolemaico (appunto. p. 89), in cui fa gioco al poeta pensare l’uomo “al centro del suo nulla”.
Questo “nulla”, all’altezza di p. 89, e segnatamente nelle prime sezioni, è già stato qualificato come uno degli aspetti della civiltà contemporanea, quella che nasce dall’atto del preciso osservare, misurare e matematizzare nato con la rivoluzione scientifica. E la raccolta si apre proprio con i versi

Scruto dalla finestra
come dal più preciso dei cannocchiali,
la finestra, identica, della casa di fronte

(Quel ramo, p. 15)

in cui vengono telescopizzati Galileo, Heisenberg, La finestra sul cortile e il voyeurismo internettiano, quello tanto bene ritratto in Matinée a San Babila (p. 59) (a proposito, meravigliosa la definizione «foglie sullo stesso ramo»!). Ed è un nulla che purtroppo avoca a sé il destino del durare, dell’essere perfetto e inevitabile, mentre non è altro che «ovvio catalogo del brutto» (Tentai, ritrassi, p. 51), «compromesso» e «abitudine» (Occhio di pernice, p. 40).
È questo un mondo che esige una presa di posizione: di consapevolezza civile, per non scomodare l’aggettivo oggi tanto desueto di “politica”, e sarà l’asse delle prime sezioni – Nel dirupo dei tempi e La congettura del canto – in cui il focus si sposta gradatamente sulla consapevolezza artistica. Bregoli opta risolutamente per una scelta dantesca, per una commistione di stili in sintonia con la sua duplice formazione, con il rifiuto del canto (se per canto si intende una visione edulcorata della poesia, decorativa, consolatoria insomma). «Serve un torsolo minimo di voce» (Il senso della neve, p. 31), cioè un nucleo spogliato da orpelli decorativi, che non ci raccontino della favola bella: «Altro il timbro degno del nostro tempo», ivi, ancora in consonanza con il poundiano The Age Demanded, e lo facciano in un linguaggio poetico non ossessionato da Il bianco di stoviglia, p. 37, cioè la politezza formale del verso che suona e non dice, non opera scelte personali, non si prende insomma responsabilità.
Qui ciò che potremmo definire la convergenza tra umanistico e scientifico può aiutare a trovare le parole e direi soprattutto i perfetti correlativi oggettivi per ciò che ha da dire (si veda Elettroforesi, p. 43, o la sezione Compendio di fisica applicata). Ma, anche e paradossalmente, la poesia di Bregoli mette in discussione – proprio attraverso gli statuti formali del verso – quella forma di positivismo ottimistico che ci circonda a livello di vulgata: si vedano testi illuminanti e ironici, come Genesi (p. 92) o La velocità della luce (p. 93).
Insomma: la poesia di Bregoli ci dice quali siano ancora potenzialmente non solo gli spazi per una poesia che sappia parlare del mondo, ma anche (e forse è ancora più importante) gli spazi per una nostra maggiore e più viva consapevolezza del nostro tempo.


Mauro Ferrari


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