90. Fabrizio
Bregoli, Il senso della neve, Prefazione di Ivan Fedeli, Postfazione di
Tomaso Kemeny, puntoacapo Editrice, Pasturana 2016, pp. 128, € 15,00
ISBN 978-88-6679-079-2
Ci dice Fabrizio Bregoli, in nota di copertina, che
considera questa raccolta (la sua terza) il vero libro d’esordio: un libro che
non ha nulla dei classici libri d’esordio, che in genere, anche quando spiccano
per originalità, tendono a peccare di quella rapsodicità, a volte di quella
incoerenza tipica di chi sta trovando una propria voce (se mai la troverà) fra
molti lodevoli tentativi. Dico questo, e lo dico in partenza, perché Il senso della neve è non solo una delle
più belle raccolte degli ultimi anni, ma anche un libro con una forte e mai
ostentata architettura interna. Diciamo anche: con un saldo esoscheletro di
letture e conoscenze su cui si innestano riflessioni personali e capacità
espressiva; quella capacità a volte definita “tecnica” che non va confusa con
il mero assemblaggio di significanti e (quando ci sono) significati, stili,
temi e quant’altro, bensì quello che Pound considerava “la prova della
sincerità di un artista”.
Il verso di Bregoli, la sua voce, è una originalissima
sintesi: versi che si aggirano nei dintorni di un endecasillabo a volte
foscolianamente elegante a volte dimesso, a volte straniato e parodizzato; toni
colloquiali e impennate espressive di sapore dantesco; lessico quotidiano e
gergo tecnico, scelte iperletterarie e sermo
humilis. Insomma, una perfetta convergenza di varie istanze espressive.
Non per caso Fabrizio Bergoli è laureato in ingegneria elettronica,
il che dovrebbe porlo adeguatamente lontano dalla forma mentis del poeta, più imbevuto di libri che di consapevolezza
del mondo – per quanto non manchino i precedenti (Sinisgalli per dirne uno). Invece,
questa poesia ci mostra come la convergenza fra diverse forme di pensiero e
stili sia il modo migliore per vedere le cose in maniera corretta – un tema che
Bregoli pone direi al centro del libro. Anzi: una possibile strutturazione
dell’opera prevede proprio che le prime sezioni preparino per così dire il
campo a ciò che segue, come postulati e assiomi, riflessioni sulle condizioni
esistenziali in cui si attua lo scrivere poesia. È una scelta che, nonostante
la massa dei poetanti sempre più ampia (il che in sé non è né un male né un
bene) appare sempre più opera resistenziale o, per dirla con due degli ultimi
testi della raccolta (p. 87 e p. 89) di “desistenza”, cioè rinuncia. Il che, preciso,
in Bregoli, non è per nulla rinuncia a parlare, trovare voce per le cose da
dire sul mondo e nel mondo, bensì decisione di non abbassarsi, il non accettare
compromessi (con esiti a volte paradossali, ironici, come in L’ultimo tolemaico (appunto. p. 89), in
cui fa gioco al poeta pensare l’uomo “al centro del suo nulla”.
Questo “nulla”, all’altezza di p. 89, e segnatamente
nelle prime sezioni, è già stato qualificato come uno degli aspetti della
civiltà contemporanea, quella che nasce dall’atto del preciso osservare,
misurare e matematizzare nato con la rivoluzione scientifica. E la raccolta si
apre proprio con i versi
Scruto dalla finestra
come dal più preciso dei cannocchiali,
la finestra, identica, della casa di fronte
(Quel ramo,
p. 15)
in cui vengono telescopizzati Galileo, Heisenberg, La finestra sul cortile e il voyeurismo
internettiano, quello tanto bene ritratto in Matinée a San Babila (p. 59) (a proposito, meravigliosa la
definizione «foglie sullo stesso ramo»!). Ed è un nulla che purtroppo avoca a
sé il destino del durare, dell’essere perfetto e inevitabile, mentre non è
altro che «ovvio catalogo del brutto» (Tentai,
ritrassi, p. 51), «compromesso» e «abitudine» (Occhio di pernice, p. 40).
È questo un mondo che esige una presa di posizione: di
consapevolezza civile, per non scomodare l’aggettivo oggi tanto desueto di
“politica”, e sarà l’asse delle prime sezioni – Nel dirupo dei tempi e La
congettura del canto – in cui il focus
si sposta gradatamente sulla consapevolezza artistica. Bregoli opta
risolutamente per una scelta dantesca, per una commistione di stili in sintonia
con la sua duplice formazione, con il rifiuto del canto (se per canto si
intende una visione edulcorata della poesia, decorativa, consolatoria insomma).
«Serve un torsolo minimo di voce» (Il
senso della neve, p. 31), cioè un nucleo spogliato da orpelli decorativi,
che non ci raccontino della favola bella: «Altro il timbro degno del nostro
tempo», ivi, ancora in consonanza con il poundiano The Age Demanded, e lo facciano in un linguaggio poetico non
ossessionato da Il bianco di stoviglia,
p. 37, cioè la politezza formale del verso che suona e non dice, non opera
scelte personali, non si prende insomma responsabilità.
Qui ciò che potremmo definire la convergenza tra
umanistico e scientifico può aiutare a trovare le parole e direi soprattutto i
perfetti correlativi oggettivi per ciò che ha da dire (si veda Elettroforesi, p. 43, o la sezione Compendio di fisica applicata). Ma,
anche e paradossalmente, la poesia di Bregoli mette in discussione – proprio
attraverso gli statuti formali del verso – quella forma di positivismo
ottimistico che ci circonda a livello di vulgata: si vedano testi illuminanti e
ironici, come Genesi (p. 92) o La velocità della luce (p. 93).
Insomma: la poesia di Bregoli ci dice quali siano
ancora potenzialmente non solo gli spazi per una poesia che sappia parlare del
mondo, ma anche (e forse è ancora più importante) gli spazi per una nostra
maggiore e più viva consapevolezza del nostro tempo.
Mauro Ferrari
splendida presentazione ... invito alla lettura
RispondiEliminaCi spero
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