Raffaele Castelli Cornacchia, in L’alfabeto della crisi (Italic, 2013),
si propone di sgretolare le parole forti del mondo contemporaneo, quelle voci –
qui inversamente ordinate dalla Zeta alla A – di cui si parla almeno dagli anni
ottanta come strutture cardine dell’economia di mercato e del modello di uomo
che da esso deriva. Già nel primo testo, l’orizzonte del discorso è chiaro; si
nominano infatti il sistema di prestiti e di distribuzione delle merci, i
grafici di produttività e le ciminiere, che sono “spente” per la crisi
sopravvenuta.
Tutto
il libro racconta la “disgustata tristezza” di un io senza potere, che nomina
questi luoghi e quelli proposti dal capitale per sopravvivere alla crisi (ossia: “delocalizzazione, dispersione,
ricerca, frammentazione, concentrazione, internazionalizzazione”), trasmettendo
un senso di corresponsabilità, a cui è difficile sottrarsi. La voce narrante ci
nuota dentro come un sensore che capta le voci e le scorie lasciate muoversi
nel flusso della società, facendosene carico come atto estremo di
responsabilità civile, per quanto privo di conseguenze reali. “Sono un
intellettuale che si oppone” dichiara infatti l’io narrante, che si oppone al
fatto che la “ragione su tutti gli altri / è solo il potere di poterlo fare”,
ossia la ragione è fondata dalla forza, non dalla giustizia, ammettendo
tuttavia il rischio di essere, prima di qualsiasi conflitto, già integrato,
come lascia intendere il finale del testo, allorché si consegna alle verità del
“fottuto borghese”. Il nemico, insomma, è dentro di noi, parla attraverso di
noi.
La
questione possiamo collocarla nell’alveo del senso di colpa presente nella
poesia civile italiana almeno dagli anni sessanta, da quando il poeta si scopre
figlio di quella borghesia di cui vorrebbe essere voce antagonista. Mi sembra
che Castelli Cornacchia rimetta in gioco questa consapevolezza, già fortiniana,
con ciò svelando, nel profondo, l’inutilità del gesto poetico per il
cambiamento reale, giacché, per il sistema, “la monocromia di una poesia” non è
che “una macchia” praticamente innocua,
come scrive nella terza strofa de “Ho non ho – il consumismo –”. E tuttavia,
malgrado questo, nel medesimo testo egli ribadisce la necessità della
scrittura, quale luogo della libertà d’espressione e resistenza individuale
all’omologazione (per quanto possibile, s’intende).
In
mancanza di una poesia antagonista, nata però fuori dal recinto borghese, una
poesia terzomondista, per esempio, o cresciuta nelle lamiere delle baraccopoli
occidentali, mi sa che dovremo accontentarci di questo pregevole approccio e di
quelli già tentati nel passato, se non altro per riconoscere la cattiva
coscienza di una classe che ha appunto trasformato il dibattito in pensiero
unico, dove sviluppo e profitto annullano qualsiasi alternativa praticabile.
D’altro
canto, anche una poesia radicalmente antagonista non avrebbe sufficiente
visibilità e adeguata distribuzione se davvero minacciasse il sistema. Ma,
anche se l’avesse, le mancherebbe la forza destabilizzante, eppure palingenetica,
che hanno le crisi prodotte dal capitalismo stesso nelle sue periodiche fasi di
riorganizzazione distributiva o di conflittualità interna fra sistema
finanziario e sistema produttivo.
L’alfabeto della crisi
ci mette insomma di fronte alla domanda sulla praticabilità di una poesia
engagé, svincolata dall’ideologia. Morte la grandi strutture di riferimento, e
questo è un fatto, l’impegno nella scrittura rischia di diventare il canto di
un io consapevole, che guarda l’edera capitalista infestargli la mani, la
tastiera, in una solitudine disarmante. Se così fosse, sarebbe una
riproposizione del personaggio che attraversa l’intero novecento, di
quell’inetto che è giunto a maturazione in Beckett e Jonesco. Castelli
Cornacchia evita parzialmente questo rischio usando l’ironia, il sarcasmo e
talvolta l’invettiva, dando così spessore agonico a chi dice io nel testo. Poca
cosa rispetto all’armamentario del nemico (la crisi materiale e la conseguente
crisi delle coscienze), ma sufficiente per legittimare questa strada, dove il
lirico s’intorbidisce nel dramma collettivo, virando l’inettitudine in voce
eroica, che addita per tutti l’artificialità e l’alienazione del vivere
contemporaneo.
Zero parole, 1469
parole
– la crisi economica –
I.
Quanto costa caro, tutto quello che se ne sta nascosto
sotto questa terra
così battuta dalla pioggia
di questa notte veglia e fresca di città
sotto l’acqua e sotto la custodia dei guardiani dei
palazzi d’oro
senza-tetto umidi ai margini delle baracche
e dei centri commerciali palpitanti
forme patinate di carta pesta e specchi deformati
o scie di pesci dell’oceano
come rapaci impazienti
di quel bel paese in minuscole corolle, design
essenziali
il posto a capo tavola governando per bisogno
e si potessero immaginare
quanto costano i frutti della terra e dell’acqua e
quanto costa
il profumo dei pini svettanti e dei prati senza pietre
quanto
quanto rendere ai padroni dei guardiani i loro favori
chiamati prestiti
quando non richiesti così
quando non richiesti così
con un sorriso amaro e un po’ di farina nell’acqua
giornate che lievitano come pane e l’autografo di idoli e di eroi.
(…)
VI.
Così accomunati dall’età e la bocca dall’espressione
e il timbro di gelatina bello in mezzo al viso d’occhi
sgranato a guardare un cupo tramonto
a ogni singolo passo di vergine colpevoli
solo di essere stati al gioco dello stancarsi d’essere
uomini
e donne, e bambini del come si deve vivere e bambine
ebbre del vuoto, incolmabile delle maschere senza più
cinema e
degli stabilimenti senza trame che lasciano la
somiglianza
sul vetro di volere cose e case proprie di proprietà
propria
e possedere cattedrali di ricchezze, quella balena
bianca
avere le eredità estinte dei padri, la puntualità di
tutti i treni
e forse di vestire bene e investire meglio
stanchi del proprio incedere, bolle di sapone, balle e
basta
brividi di freddo, gelo e basta
inutili quindi le porte sprangate
i codici criptati e ancora pioggia, questa notte dopo
tutto
notte, lungo i corridoi del mondo e le coste assediate.
(…)
Vero
– la demagogia –
(…)
II
Hanno la forma dell’ombra d’un corpo sulla riva
le onde cullanti che s’allontanano dall’idea
fissa, che ogni buco nell’acqua faccia rumore
e una fetta di pane bianco a ripagarli
i trapezisti e i pagliacci del grande circo
sulle rive d’un fiume che non è certo un lago
non è l’infinito mare di praterie d’acqua
mossa dal vento di pensieri con il passo svelto
portata da una brezza di buoni propositi
increspati come sono certe discussioni
e folli come tutti i geni inascoltati
le prede nelle reti, i raggi senza riflesso
che vanno vicino al mare. Ma solo vicino.
(…)
Unico
– l’egemonia culturale
–
(…)
III
Cane d’un porco cane prova a dirmelo
che non è così e non ti cavi gli occhi
rispondimi, usa la tua voce a lutto
che avere ragione su tutti gli altri
è solo il potere di poterlo fare
impronte baciate su muri d’ospedale
dove insegno, per strada o al mercato
un po’ dove guardo e un po’ dove sparo
mirando ai pianeti e agli angeli
fra gatti volanti e cani ballerini
fra le file di birilli sparsi distanti
fiutando attento i baci e gli schiaffi
e so che lo pensi (…)
Mela
– il mercato –
(…)
I
Esiste un posto all’ombra delle rocce
dalle quali spuntano gigli e corone
fatte di grappoli d’uva e di cavalli
senza briglie dove si possono scambiare
e barattare delle cose, cose vere
o immaginate come pietre preziose
servigi di uomini o di animali
e nomi e firme oppure scarabocchi
segni su mazzetti di fogli svolazzanti
nella bufera ammaestrata dei soffi
di Zefiro e di fuori petti al sole
e cosce al sole, di donne e di polli
e firme spumose nel bel mezzo del cielo
da vedere da lontano lì in quel posto
acquirenti e venditori o soltanto…
(…)
III
… passanti vocianti nelle vesti turchine
porpora e smeraldo, prendono e danno
soppesando fra le mani e fra i seni
e le cosce, chicchi grandi di grano d’oro
carte ricamate e stole d’ermellino
autentico, protetti sulle alte torri
messe di guardia da soldati sacerdoti
all’ombra di rocce dalle quali spuntano
gigli e pure dei conigli e il resto
e materassi gonfiabili, giocattoli
integratori alimentari e frigo
a due ante, e case prefabbricate
avvitatori elettrici e crociere
d’occasione, bambole e medicinali
equivalenti, e alici marinate.
Idea
– l’ideologia –
I
Nella credenza della mia nonna
ci stavano tazze e dei bicchieri
con piattini, e i sottobicchieri
ricamati gli uni sulla fine
porcellana, levigati gli altri
nel duro cristallo con dei colori
tenui, lucidi e decisi di blu
quello del cielo e verde dei prati
marrone o bordeaux delle montagne
per rappresentare, avrei pensato
tutto quello che c’era tutt’intorno
che a tutti così andasse bene
che belle tazze e che bei bicchieri
nella vetrina di quella credenza
poteva ardire ogni ospite
rasserenato così nelle idee
come nelle altrui sensazioni.
(…)
Raffaele Castelli Cornacchia vive a Brescia dove fa l’insegnante.
Ha pubblicato il romanzo breve Il pacco di
Durante (Robin Edizioni, Roma, 2006); i libri di poesia A meno che (Ennepilibri, Imperia,
2008), Via Milano (Lampi di stampa, Milano, 2012) e L’alfabeto
della crisi (Italic-PeQuod, Ancona, 2013); i
libri per piccoli lettori Gli abitanti di Colle Bianconero (EdiGiò, Pavia, 2013) e
Le
chiocciole di Amemì (EdiGiò, Pavia, 2015), dei quali è anche
illustratore.
Ha scritto i monologhi teatrali Un
esodo per gioco e Centocinquanta.
Fra i riconoscimenti ricevuti per opere edite e
inedite risaltano il “Anna Osti” di Rovigo, il "Castelfiorentino", il
"Montano" di Verona, il "Poesia di Strada" di Macerata, il
"Città di Legnano", il "Giuseppe Malattia della Vallata" di
Pordenone e il "La Leonessa. Città di Brescia”.
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