Coprofilia e dinamismo futurista, visionarietà infetta dagli
incubi che fanno eroico il pensiero maledetto, da Baudelaire a Dylan Thomas,
l'idea che il corpo-universo sia piagato dalle stesse tabe del corpo-uomo, del
corpo-donna, blasfemia dell'orfano che rimprovera il Padre impietoso e assente
di "bruciare carne lardosa" lasciandolo solo, egocentrismo cristico
senza tuttavia intenti catartici: nessuna croce, ci dice Klaus Kinski in queste
poesie, salverà il mondo né la bellezza lo monderà dal dolore. Leggendole,
attraversiamo tutte le ossessioni del moderno, l'ombra virulenta prodotta
dall'ottimismo irresponsabile borghese, a cui si contrappone il delirio di Fitzcarraldo,
nell'omonimo film di Herzog, che vuole portare il canto d'Apollo tra le braccia
di Dioniso, non per annientarlo, bensì con l'intento nietzscheano di fonderli,
trasformando così il mondo in opera d'arte. Sogno che naufraga nel film e nel
progetto kinskiano, che del Cristo porta il candore ("io ero ricolmo di
folle speranza") e di Satana le ferite purulente di chi è stato cacciato
dall'Eden.
Come nella poesia dei mistici, anche qui luce e ombra si
scannano l'una con l'altra, pur sapendosi complementari, in una lotta che sin
da subito piega il corpo e la voce dell'orante; se nei mistici, tuttavia,
questo dolore serve a purgarlo dalle scorie del tempo mortale, in Kinski
tutto ciò diventa una sfida estrema dell'identità che non vuole morire,
similmente e con la medesima crudeltà che troviamo nel giovane Dorian Gray. In
entrambi si respira l'aria decadente di un'arte votata al proprio
annientamento.
Non credo siano estranei a questo sentire sia l'esperienza
breve della guerra con la divisa nazista di Kinski (lui polacco, emigrato con
la famiglia a Berlino) e sia i tentativi di suicidio alla fine degli anni
quaranta. Per non dire dell'infanzia e dell'adolescenza, assai tormentate.
Questa dinamite diventa poesia, parola dell'"animale sacrificale / che
bacia i suoi eccitati assassini" e gode con loro nell'inferno della
Storia, che è un'enorme Sodoma e Gomorra, non tanto differente dall'aldilà, se
davvero egli crede a quanto scrive nell'incipit di Febbre, immaginandolo composto da "acido fenolico, ghiaccio e merda".
da Febbre – Diario di un lebbroso, trad. it. di
Antonio Curcetti (inedito in Italia)
Febbre
Me lo raffiguro così l’altro mondo:
acido fenolico, ghiaccio e merda.
Quegli uomini che si scolano le proprie pisciate,
non avranno mai il dono della febbre.
Io porto negli occhi la febbre dell’intero mondo -
è come il fiotto purulento di sifilide l’oscura nuda
febbre che morde da dentro,
mai stanco è il mio cuore
che rantola tra le turgide lucide bacche.
Io brucio sbavando della mia stessa febbre,
la mia voluttuosa bocca straziata
sembra la pancia d’un animale braccato.
Io sono un neonato con la cenere ai fianchi -
al cordone ombelicale mia mamma m’ha trattenuto,
poi scagliato verso l’alto come un martello
fin dentro al culo scarnito del sole!
Io vado a testa alta come la più acerba delle madri e
infurio
gridando attraverso la cenere fino alla bocca e i miei occhi
s’abbeverano della collera che riversa il cielo sprofondato
-
luce, luce! nere fiamme io divoro!
io caco sulle vostre leggi! in me tutto è oscurato dal sole!
lui spruzza il suo fremente nucleo fin dentro
la selva schiumante del mio corpo! il mio sangue ribolle,
come se dei lucci impazziti fossero negli scoli della mia
anima.
Una placenta io sono!
Con piacere io mi lascio dilaniare da una materna tigre,
piuttosto che agitarmi sempre ai suoi fianchi! dinamo!
dinamo!
La mia pelle mi va stretta - lacrime esplodono
sotto di essa - e io sono come una rana in un bicchiere,
la luce mi colpisce alla testa e ancora una volta
io vengo respinto indietro da ciò che vedo -
sole - sole - lui ha sputato sulle parti sensibili
del mio cervello - raggi raggi - nere minacciose oscurità -
sopra di me - sotto di me - in me come nell’urlante
petto d’una donna - come un pugnale nel mio cuore purulento
-
dentro di me fremono globi infuocati -
come fossero grandi uccelli in gabbia,
dei soli divorano l’urlo che porto dentro,
intingono le loro ali ruggenti
nella mia anima ferita - avanti avanti avanti avanti avanti!
io non lascerò andar via il sole che bevve lo stesso
mio sangue di ragazza - e cenere cenere cenere.
Mi stanno spingendo ad uccidere -
io sono pieno di macchie -
io non posso più vedere se vi siano ancora dei fiori -
ridotto a brandelli è il cielo
e un pocodibuono potrebbe restarvi impiccato --------
Morendo io sono il
preferito
I
Io sono finito oppure no!
siede spetazzante sul vaso la morte -
la sua bocca e il buco del culo soffia infetta lordante
pappetta sul calor bianco della mia terra a trifoglio -
II
Oh tu puzzo di Dio, canuta aureola
di lussuria eguale a quella dei vecchi tori!
tu sui miei occhi stai come ghiaccio rancido
e sbevazzi il mio sangue!!
tu proclami cosa buona e giusta bruciare carne lardosa!
io in questo secolo sono rimasto solo!! -
III
Imperla acceso sulla mia faccia
il Tau¹ della gestazione, come il catrame
del frutto che verrà - io vivendo con un peso addosso -
come una donna prima del parto -
morendo io sono il preferito!!
e se resto in vita, sono solo un puttaniere -
sebbene sia tu il mostro!!!
IV
Io non mi curo delle merdose vesti!
il tuo corpo ingiallito io lo calpesto!
di svaghi per morire io non ne ho bisogno!
non tutte quelle che tu riempi diverranno poi puttane!!!!
¹Tau
(taw in ebraico) il cui simbolo, una
Croce senza cima o a T , è simbolo di salvezza e di elezione.
S.
Francesco adottò il Tau come sigillo personale, con esso firmando ogni suo
scritto.
Prendete il mio bacio
Prendete il mio bacio! sanguigna schiuma del temporale
che scoppiando la rossa risata fende la terra -
nera è l’ombra della febbre, come un vello nel grano
argenteo,
nel materno ventre delle rose - quando esse van leccando
l’amaro sale delle doglie, quando appesantite
da lacrime che hanno messo radici, le loro bende
sanguinano attraverso il cuore ribollente di passione -
il tormento, quel groppo dolente di sofferenza
che nell’esausto rugoso mondo piange come
un bambino ripulito dall’umore e tanto caldo,
e di nuovo reso cieco dall’ira del primo giorno
ch’egli stesso ha ridestato -
guardate! quello sono io!!
io sono la spada assassina dell’anima mia:
Idra dalle molte teste - saettante nel sottobosco -
dal frastornante marciume d’un intimo cratere
così io sbuco ed è spaventoso il fulgore che tutto
frantuma, quel verde vaiolato dai livori d’una
mummiesca Baccante, ch’io provoco -
e quando i fiori m’abbagliano, dimentico d’ogni pena,
di nuovo io m’allargo dentro al nervo del sole -
da qualche parte, dentro ad una selva, rabbrividisce di
freddo
il mio polso, ancora avvinto ai calcagni della mia
carnefice,
e che lei spezzò coi denti quando il mio raggio di sangue
la colpì come uno stiletto straziato -
al tempo in cui dormivo dentro alle nuvole color lillà,
disteso sulle rosee morbide stelle di giorno
e come Bacco, dopo aver munto il succo di lei,
andavo avanti a
dimenarmi nel suo letto infuocato -
poi si tese contro di me l’artiglio della troia di vostra
madre,
perché non riusciva più a carpire alcun nutrimento,
perché con l’immondo lei s’era alienata il respiro,
perché il suo crudele rancore le faceva odiare
la fanciullesca spensieratezza di quei seni,
che adesso penzolano come cadaveri impiccati -
perché fu dentro all’ombelico della figlia d’Iperione che io
capii…
Io sono il mattino! io sono Apollo!
sono il butterato fauno in fuga che solo
tra le fauci del cielo placa le sue fiamme,
sono come un’ingovernabile zattera erosa di sudore,
rimbombante d’ispirazioni divenute così anguste,
e che non può confidare più in nessuno,
se non nelle zanne dell’aria radioattiva -
io sono l’azzurra febbrile bestia della terra!
sono le fiamme radenti, con cui marchio a fuoco nell’alvo
d’ognuno!
sono il segnale d’allarme, la boa e la tempesta!
sono il verme che dimora nei seni!
io cado all’indietro come una merda e arrostisco nella
sabbia!
io sono il sostegno degli alberi arroventati!
sono il loro fungo! io ancora una volta li lascio al loro
destino,
ed è con solennità che la mano vescicosa seppellisce
dentro ad una fossa i frutti giallo sulfurei!
io sono il loro embrione, sono il loro muco!
di quando la viscosa materia fatta d’ossa schiantate
si dissolve nella liscivia della mia collera!
io sono la pelle di fragola della Venere
che denudò per sé finanche un Dio!
io sono la lebbra sul ramo della mela!
sono la bocca dei fiori ramati!
sono l’accecante amalgama di onirici vulcani!
sono l’erba perlacea che ricopre il sonno d’ogni fanciulla!
io sono ancora più crudele d’un vascello di morti!
sono l’avida velenosa scogliera
sulla quale esso va urlando l’Amen!
io sono così vicino come una luce di mezzanotte,
ed anche così lontano!
ah! per voi io sono Tantalo,
colui che incontrò tutti i peccati -
di cui voi vi liberate come svuotaste un secchio
d’immondizia!
io non mi sono mai lamentato delle botte prese,
sempre sono andato rialzandomi -
eppure vorrei ululare per migliaia d’anni
sopra agli occhi di tutti quei girasoli
che voi avete gasato con il cloro!!!!
eppure voi ancora colpite sui boccioli dei miei occhi!
avanti! in fretta! forza! così tanto coraggio avete!
grida sopra alla mia pelle la sifilide!
voi m’avete sputato addosso e coperto di lordume!
bastonatemi e colpite le mie mani,
pisciate nel basso ventre dell’anima mia!
spargete letame nella mia serena gola di cantore!
non mi fa paura la fine!
io divorai il freddo latte materno del bisogno -
Cristo fu la madre mia -
dentro alla sfera plasma-bambini, eguale a madreperla,
io mandai giù il bubbone avariato del dolore -
poi crollai sul sibilante cristallo -
madido di fango e di sudore d’elettroni -
io vidi come si contendessero la rivoltella le madri -
io sono affogato nel sangue selvaggio dei fiori -
e sorbirono il succo dalla mia fronte gli angeli infermi -
e le uova infrante della mia anima aspersero
dentro al mio cervello il fulmineo cancro di donna,
come fosse diarrea sopra ai nudi cimiteri ricoperti di
foglie --------
io colpii l’orrenda butterata faccia di Cristo,
perché quel che mi stuzzica in fondo al cuore è la rogna -
finché dalle sue gambe guizzò la linfa infuocata
ed esplosero come fossero fatte di carta le mie ali!
io sono stato risvegliato in continuazione
da un secchio colmo di febbre schiumosa -
finché come un albero percorso dalla lama
caddi del tutto sotto i colpi d’accetta della follia -
io ero ricolmo di folle speranza,
come il corallo degli acerbi seni di ragazza -
io ero così incredulo, come un animale sacrificale
che bacia i suoi eccitati assassini -
venite! colpite a morte i miei vasi sanguigni!
a cosa servirebbero ancora i loschi espedienti degli uomini…
come un volto mai nato,
il mio cuore urla
tutto il mio sconforto contro quegli ottusi coglioni!
uno sguardo denso di fumo è quel che resta in sorte --------
Piacere
Io ho ficcato i miei denti nei seni delle ragazze,
ed ero come quei cangianti animali divoratori di rosee
vulve,
finché, dilaniato dal loro sole bruciante,
mi gettai dentro al loro cratere come un Dio invasato -
non sceglievo l’età, né il colore dei capelli,
io m’abbeveravo, a pieni polmoni assaporavo
il loro venire come fosse liscivia sulla lingua,
fin da quando esse s’aggiravano nella notte -
rabbioso fu il bagno di sudore, prima di averne il corpo,
e fossero o no malate non m’importò un cazzo -
io m’accorsi solo di come aizzassero il loro grembo
e sputassero rapide fiamme, bianche e calde -
io non avevo alcun luogo che fosse mio -
eppure mi braccavano come fossi un untore -
il mio piccolo rifugio fu un cumulo di stracci -
lì poi rimasi febbricitante come una bestia smarrita.
In me tambureggiava la nostalgia dei frutti puri,
il morderli quando essi sono caduti in basso!
io avrei voluto sfuggire alla mia morte,
finendo tra le braccia del desiderio vorace.
La vipera che mi punse uscì dagli stimmi di Maria,
messaggera di morte più d’ogni cielo al magnesio -
soltanto per un attimo io ripresi conoscenza,
allorché dentro alla mia bocca aspra di febbre
i fiori bruniti dei loro seni si spensero.
Esse sono il mio Dio e luce e letto di sollievo,
quando il folle ascesso mi macera il cuore -
esse sono la fedele parabola dei miei tormenti
e mia madre e del pane la crosta! -
Lasciami morire
all’impiedi
Il fuoco corrompe! e là si trova il mio volto!!
la follia m’ha fatto un’offerta!!
l’ozioso rincoglionimento d’un luminare
imbratta il rosso luminoso della mia stella -
anch’io voglio la mia morte!!!
io l’ho incartata e portata con me!!
siccome io non voglio pregare, a voi io grido,
perché Dio m’ha rotto il cazzo -
io non ho sentito la mancanza della sua mammella,
perché i suoi cieli non hanno mistero alcuno -
lasciatemi entrare! io non reco altro che cocci!
e reca il mio segno l’umida pena racchiusa nel fiorire,
quello della carne piagata che rifugge il sole,
e là io voglio cadere, morire prima del tempo!
ah, Dio di dolori, lasciami morire all’impiedi!
e con un grosso bastone colpisci alla nuca
quel tetano che mi divora!
sennò di quella lauta razione di ferite,
grasso così come una scrofa io diverrò!!!
Il Giudizio
Universale
I
Gesù! tu sei un
intestino consumato!
sputa dritto in
faccia a quegli straccioni!
e come la fai lunga
col Giudizio annunciato!!
quanta gentaglia
continua a strisciare nel tuo ventre!!
II
I bambini hanno
venduto il loro corpo per il domani!
non vergognatevene!
questa qui non è
poesia!
questa è l’ultima
abietta zavorra
con cui voi finirete
dritti all’inferno!
III
La luna ha ucciso
tutte le nubi a morsi -
gli uccelli non
hanno più ghiandole -
dei soli fradici si
trascinano malati e pesanti
lassù nel cielo,
lacerati essi scorrono
lentamente uguali a
gelido bitume…
IV
Germi sguazzano
scoreggiando attraverso i miei pascoli -
e s’affanna come
fosse una lama dentata la sifilide -
un albero di vetro
sta dinanzi alla mia finestra -
ah! s’io solo
giacessi sulle stelle aguzze!!
Nottetempo
Quando il fronte della sera s’inalbera urlando,
io vedo rilucere il pianto caldo dei fiori,
imbevuto nelle notti io lo vedo schiumare
verso l’umido dischiuso volto del vento.
A volte, quando un fanciullo soffia fin qui
e attorno a quei loro dischi vorticanti
stringe le sue scottate vescicose mani,
allora essi muoiono mulinando selvaggiamente
e baciano l’amore che c’è in quegli occhi
così pregni di verità e di dolce follia,
e premono dentro alla sua bocca il cratere
piagato del seno, affinché lui non gridi…
E quando negli anfratti della febbre mattutina
io poi cado a terra, calpestato come un camice disteso,
allora sento una bocca che si protende verso di me,
dal giardino ribollente del calore della pianta perenne
il diffondersi ripetuto d’un suono che m’accarezza,
e un occhiuto fiore incenerito.
Febbre – Diario di un lebbroso uscì postumo nel 1998,
accompagnato da fotografie e dalla riproduzione anastatica di alcune poesie,
per conto dell'editore Suhrkamp e con l'introduzione di Thomas Harlan, che
visse con Kinski a Parigi negli anni Cinquanta (seconda edizione nel 2006, solo
poesie e con il monologo Jesus Christus Erloser
(Kinskiana interpretazione del Nuovo Testamento)
Il numero 271 di "Poesia"
(maggio 2012) presenta un buon numero di testi, curati e tradotti da Antonio
Curcetti il quale mi invia sulla fiducia questi inediti. Per darmi l'idea del suo rapporto empatico con questa
traduzione (la prima in assoluto in italiano) mi scrive: "sarebbe stato bello scattare qualche foto del computer
preso a calci, mentre traducevo, registrare l’audio di quando 'provavo' da
posseduto, o semplicemente conservare le bottiglie vuote d’alcolici e/o altro.
Ma non l’ho fatto."
Klaus Kinski nacque nel 1926 a
Sopot, all’epoca compresa nella città stato della Libera Città di Danzica.
Infanzia e adolescenza furono contraddistinte dalla miseria più assoluta e da
precoci esperienze sessuali, sembra persino con una delle sorelle. Dopo essersi
trasferito a Berlino con la famiglia, partecipò al secondo conflitto mondiale e
fu fatto prigioniero dagli inglesi; nell’immediato dopoguerra debuttò con il
teatro e le letture pubbliche delle poesie di Villon, Rimbaud e Baudelaire. La
raccolta di “Febbre - Diario di un lebbroso” fu composta a Parigi e lì
abbandonata in una valigia, assieme a disegni e a fotografie; ritrovata in
circostanze fortuite alla fine degli anni ’90, fu venduta ad un’asta grazie ad
una sola alzata di mano. Di quegli anni
fu anche l’internamento in manicomio e due tentativi di suicidio; in seguito
Kinski abbandonò il teatro, accettando una miriade di ruoli soprattutto da
caratterista e solo per bisogno di soldi, “alla stregua di una puttana”, come
dichiarò più volte. Lo stillicidio del
proprio talento, l’indisciplina, la frenesia e la collera immotivata
contraddistinsero la sua carriera d’attore; tra le moltissime pellicole,
memorabile è la parte del furioso anarchico nel Dottor Zivago di David
Lean, che gli valse una nomination agli Oscar. Nel film All’est si muore,
di László Benedek, recitò la parte di un agente della Gestapo che colpì il
giovanissimo Werner Herzog, al punto da segnarne il destino. Assieme alle
parti in uno dei classici di Sergio
Leone, Per qualche dollaro in più, o nel Grande silenzio di
Sergio Corbucci, notevole resta l’interpretazione da protagonista in E Dio
disse a Caino di Antonio Margheriti.
Nel frattempo, sposatosi due volte, Kinski ebbe due figlie, Pola e
Nastassja. Nel 1972, all’apice di una carriera di successo fatta di personaggi
luciferini e psicologicamente instabili, Kinski decise di portare a teatro una
personale rilettura del Nuovo Testamento. Il debutto di Jesus Christus Erlöser non fu indolore e gli
spettatori dovettero fare i conti con una rappresentazione estremista del
Cristo che scandalizzò e irritò pubblico, stampa e Chiesa, al punto da essere
sospeso. Da questa dimensione
cristologica al traditore Lope de Aguirre, guida magnetica di un gruppo di conquistadores
allo sbando, il passo fu
breve; ebbe così inizio il tempestoso sodalizio umano ed artistico con Werner
Herzog, grazie al quale Kinski diede volto a personaggi memorabili. Oltre che
nel già menzionato Aguirre, furore di Dio (1972), recitò in Nosferatu, principe della notte
(1979), Woyzeck (1979), tratto
dall’ultimo dramma di Büchner, in Fitzcarraldo
(1981) e in Cobra verde (1987,
il film che sancì la fine della loro collaborazione. Si può dire che la
carriera di Kinski si concluse proprio con quest’ultimo film, anche se l’attore
lasciò il cinema dopo il delirante Kinski Paganini (1989), sua prima e
ultima regia cinematografica e compendio di tutte le sue ossessioni. Negli anni
successivi Kinski portò a termine la travagliata stesura della sua
autobiografia, “All I need is love”, edita nel 1989 (subito ritirata per motivi legali e ripubblicata
solo di recente). Scandita da una
scrittura quasi automatica, con continue frammentazioni e sbalzi temporali,
circonfusa da un’atmosfera viziosa e selvaggia, narra una vita sempre sull’orlo
dell’esaltazione e della depressione. Nell’ultima pagina, rivolgendosi al
figlio Nikolai (avuto dalla terza
moglie Minhoi), Kinski scriveva: “La gente dirà di me che sono morto. Non
credergli! Mentono! Io non posso morire”.
Ritiratosi in completa solitudine in una casa nel bosco di Lagunitas
(San Francisco), nel 1991 Klaus Kinski
fu stroncato da un infarto e il suo corpo, rinvenuto qualche giorno dopo la
morte, fu cremato e le sue ceneri disperse nell’Oceano Atlantico.
A.C.
che potenza...! grazie antonio del tuo impegno appartato e importante.
RispondiEliminaroberto cogo
grandissimo post! grazie
RispondiEliminagrazie, Stefano, per questa sorprendente lettura. oggi come oggi, faccio più fatica di un tempo a mandar giù un espressivismo (o espressionismo) tanto acceso, martellante, weird. Se mi penso con una decina d'anni in meno, però, credo che avrei fatto capriole, nell'incapparvi.
RispondiEliminaUn caro saluto,
f.t.
ah mi piacerebbe illustrarle...
RispondiEliminahttp://pelinstory.wordpress.com/
ci vorrebbe l'editore giusto...
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