Ci sono parole che
hanno dato cittadinanza al moderno;
"grido" è una di queste, metonimia della condizione dolente
dell'uomo dopo che si è reso consapevole d'aver sviluppato un'identità storica
separata dalla natura. Dello stacco e del racconto lacerante che ne consegue,
ne fanno parola i romantici, agli espressionisti e oltri: da Leopardi a Munch,
sino a Beckett, a Becon, Artaud. La domanda che mi pongo è: possiamo ancora
gridare? E' ancora praticabile il grido, in poesia, dopo l'espressionismo e le lettere
dalla follia niciane? Questa via tragica del canto è ancora capace di
rimettere in circuitazione feconda il pensiero? Me lo chiedo dopo aver letto Fabbriche di vetro (Raffaelli, 2011) di Roberta Sireno, giovanissima poetessa
modenese, il cui libro merita senz'altro una presentazione su Blanc. E non
soltanto perché, appunto, muove alla riflessione sulla possibilità di
continuare la lenta agonia della poesia lirica, ma soprattutto perché c'insegna
quanto legata sia la parola alla carne, alla biografia, al fare prima che al
dire. Roberta Sireno grida per urgenza esistenziale, non per posa maledetta; e
organizza il suo gesto incanalandolo in una tradizione forte, che ha in Claudia
Ruggeri e Francesca Serragnoli il suo fulcro, non solo stilistico. In certi a
capo nervosi, imprevedibili, ci vedo anche l'anarchia felice di Cristina
Annino, ma Sireno ha poco più di vent'anni ed è dunque pervasa da fantasmi
propri di chi è appena uscito dall'adolescenza, che lei trasforma in differenti
figure attraverso metafore straordinarie: "è un nome quello / che fa
precipitare gli orologi / nei fossi del giorno"; oppure: "hai tolto
il prezzo al mattino"; e: "anch'io ho una bufera che sbatte / sulle
terrazze"). Forse sulla scorta delle prestidigitazioni pascoliane (il
"pigolio di stelle" del Gelsomino notturno) e
dell'eserciziario ermetico, questa poetessa ama far circuitare il concreto con
l'astratto, il particolare con l'universale, dandoci talvolta effetti un po'
scontati ("sabbie d'abisso") o cruenti ("carneficina delle
stelle"), ma anche effetti sorprendenti, come quando sente all'improvviso
"l'urlo crudo // delle statue", capovolgendo la divina
indifferenza montaliana, per una più umana postura nei confronti degli
esseri, persino quello minerali.
A fare da sottile
linea rossa, in questa opera prima che raccoglie poesie scritte tra il 2008 e
il 2011, è l'amore violento, dove il corpo non indugia nel facile erotismo, ma
inscena il dramma della relazione urbana (con Bologna al centro) dove le
braccia sono "fabbriche / e il verbo un infinito secco / nel buco del
giorno dopo". Una violenza che talvolta, come ben segnala Davide Rondoni
nell'introduzione, intitolata La caccia, vira in "una necessità
mistica implosa e irrequieta".
da Fabbriche
di vetro
come se stasera
avessi un ictus
nella vasca
d’acqua gialla
come se stasera
la linea d’ombra
sfregiasse nel
silenzio duro
che fa fuggire i
cani
**
come cercare
il centro che tiene
sospeso
il pasticcio di cielo
o di tenebra
come sentire improvviso
l’urlo crudo
delle statue
**
immagina una
roccia e l’oceano
che
brucia la cellula e la bambina
immagina
la selva oscura
i
denti di Ugolino nel cranio
immagina
l’oltre perduto, il buio
o
l’oro da cui tutto era venuto
e
il popolo minuto che aveva
all’improvviso
paura
di
avvicinarsi a te
**
spaccare
la promessa
fatta
ad un matto
d’ospedale
o
al cosmo
o
a maggio che balla
dietro
i vetri
prima
che la voce
si
incrini e ti leghi
fossile
alla
terra nera
spaccare
a tutte
le
ore
mentre
rimani e urlano
portatela
via
da
quel carnevale
da
quelle sere d’oppio
che
ti hanno disfatta
a
morte tanta
**
il
cielo si è mosso
non
fermarmi non
mi
raccogliere in una pozzanghera
d’acqua
che
tiene i sassi
non
mi cancellare adolescente
nel
mio passo
anch’io
ho una bufera che sbatte
sulle
terrazze
quando
la notte è osso
per
i cani di Ortigia
fitta
ridotta insisti
sulla
mia chiave
di
volta
che
ruota trionfante sul sistema
ma
tu galoppi un cavallo
dirigi
la razza
onnivora
rompi
il prodigio la mappa
il
nostro petto
piegato
all’inverno
**
a E.
siamo
pattumi che si nascondono
tra
i lampioni più bassi della luce
indurite
nei calli
nelle
corse sul nero di una collina
macchine
in velocità su linee
parallele
ho
conosciuto il freddo delle piogge
che
hanno sventrato agosto
bambino
di un prato di fiordalisi
blu
come la nostra acqua
che
fa tremare i bicchieri dei tavoli
come
sedute a parlare aggrappate
ai
fili di un campo minato
ho
imparato ad amare il ritmo
la
matematica di una fobia
da
ascensori e scale in discesa
in
punta di piedi sui numeri
tra
negozi gelaterie e carte sciupate
nell’incendio
dei muri
è
venuto il tempo di andare
ladre
di misure imperfette in volo
il
mare che ci tiene ferme
in
un sospendere di barche alle sabbie
aperte
ai sottofondi del cielo
**
ma
io grido sotto la doccia
la
mano messa nei laghi
per
prendere
il
cibo impacchettato
a
fondo
tu
ancora non c’eri eri
nelle
fessure e nelle finestre
forate
dall’ozono
negli
specchi dove io ti ho vista
con
le ciglia nere
e
il rossetto
la
madonna azzurra sul mobile
invecchiato
è
la casa che puzza di nonna
dicono
che i bambini
giocano
con la morte e con i cristalli
per
troppo accesso
al
minuto dopo
o
per le acque che si muovono
quando
non stai ferma
e
guardi alle giostre in bilico
i
lupi dei boschi hanno preso
il
fiato delle bambine bianche
e
ritornano
a
tagliare le vette d’oltralpe
per
consegnarci al frigo dei macellai
ogni
giorno che passa
girando
su
noi stessi a squarciare
le
stoffe di chi ha premuto tanto
per
lo scambio
Roberta Sireno è nata a Modena nel 1987. Laureata in Lettere Moderne a Bologna, con una tesi su Andrea Zanzotto, è tra i fondatori di ComPari, "collettivo dinamico che vuole portare un cambiamento concreto nella realtà culturale bolognese", come si legge nella plaquette autoprodotta La crisi, dentro noi, faceva il coro
Mi piace questa poesia anaforica e precisa di Roberta, così giovane e così vocata.Penso che arriverà da sola a ripulire certe incrostazioni umorali. Ma sono dinamiche, ben costruite. Brava
RispondiEliminaNarda
Ad ogni parola un gesto, un'emozione che travolge. Sempre nella precisione e abilità di chi sa come usare l'arte e non che si lascia usare da essa. Sa usare le parole come un pennello, con forme e colori a volte astratti, a volte surreali di una giovane donna alla ricerca di sé in un mondo a volte estraneo e a volte suo.
RispondiElimina"In una volontà di esistere/esisto" (citazione da Fabbriche di vetro).
Brava Roberta.
Marina e Roberto
Mi inoltro verso la notte... il buio andare... il cuscino attende sogni da svelare... ma prima... il girovagare mi porta "qui"... e mi "faccio" lettore... della Poesia di Roberta Sireno, sottolineo la maiuscola Poesia... Roberta è il presente che coglie e che sa entrare, con le sue pennellate in lettere, dentro il vagare dell'anima, come squarci di luce nella notte, come fulmini che zigzagando prendono la giusta direzione e "colpiscono" la corteccia dell'involucro dell'emozione...
RispondiEliminaBrava Roberta! Attendendo le prossime tue luci, guidi il mio passo incerto nel buio dell'oggi...
Ringrazio Marina e Riccardo per aver colto quella che è una parola "visiva" in poesia(o visionaria, come si è scritto nella prefazione). E concordo con Narda su queste incrostazioni umorali: ogni giorno mi impegno per scioglierle e per raggiungere una maggior consapevolezza individuale e storica. Eliot diceva che il poeta, nello scrivere se stesso, scrive il suo tempo. Quello che spero, infatti, è una poesia che possa essere tuffo nella realtà di ogni persona che ama, desidera, soffre e sogna.
RispondiEliminaRoberta
Avevo letto e ascoltato ancora poco di Roberta in quelle poche ma piacevoli occasioni in cui ci si è incontrati. Ho sempre apprezzato il suo entusiasmo e la sua umiltà nell'affrontare la ricerca poetica senza prescindere dalla parola altrui e dal confronto. Queste poche ma piacevolissime liriche sono l'esempio di una lettura incantata di un quotidiano vissuto comunque come epifania. Il poeta non è giudice o tramite, ma occhio aperto e attento.
RispondiEliminaJacopo Ninni
La poesia di Roberta Sireno è violenza, amore e forza a ogni verso. Perché il vetro non è solo tagliente, ma anche fragile. E nella fabbrica di vetro che è Bologna, "città barocca", la giovane poetessa compie la sua formazione e ci consegna questa meravigliosa opera prima.
RispondiEliminaGiusi Montali
ottime testimonianze. Roberta sarà contenta.
RispondiEliminaLa cosa che mi ha sempre colpito della poesia di Roberta è la capacità di ritrarre un mondo che è reale e assurdo nello stesso tempo. I sintagmi si fanno struttura portante; c'è sempre sotteso un senso di lucido straniamento, di "Déjà lu". Le costruzioni sintattiche e semantiche si richiamano creando cortocircuiti che fanno smarrire il lettore in una atmosfera cupa, sempre battuta da chiari baleni di luce. I fulmini sireniani si cicatrizzano sul corpo, imprimono la parola a fondo. Capita raramente di rimanere segnati. Festeggiamo le ferite che Roberta ci lascia.
RispondiEliminaDirei che ti colpisce esattamente ciò che tu cerchi in poesia. E questo mi sembra naturale. Però celebrare le ferite non è feticismo?
RispondiEliminaE' probabile che Elena volesse semplicemente dire di tener presente le "ferite" lasciate sugli individui da un'epoca fantasmatica come quella attuale, quindi "festeggiare" una poesia consapevole della realtà che c'è intorno a noi - feticismo è un termine eccessivo, a mio parere :P
RispondiEliminaRoberta
forse, ma leggendo la poesia di elena presente nell'antologia "la crisi, dentro di noi, faceva il coro" direi che c'è una certa passione per la poesia che nasce dalla carne lacerata.
RispondiEliminaScusate le mancate risposte, non avevo letto.
RispondiEliminaFeticismo sembra eccessivo anche a me. Il punto di partenza è sempre il reale.
A mio parere la poesia è un filtro che si interpone tra soggetto e realtà: la percezione gioca, per forza di cose, un ruolo fondamentale.
Si nasce in un corpo e questo stesso corpo determina il contatto primitivo con il mondo: il sentire primo si registra, infatti, in una sensazione fisica. La ragione, la cognizione, vengono solo dopo.
Il corpo e la pelle sono quindi il limite tra io e mondo. Tutto quel che viene dall’esterno passa attraverso questo limite (che sia visivamente, o per altri sensi).
Quando scrivo “festeggiare le ferite” non celebro un dolore gratuito, parlo piuttosto di una empatia totale, che lascia segno anche sul corpo. La poesia di Roberta non è leggera: chiede di condividere il peso del mondo, di vivere i dolori, di essere spettatori di scene stranianti come in “spaccare la promessa fatta ad un matto di ospedale”, “portatela via da quel carnevale da quelle sere d’oppio che ti hanno disfatta a morte tanta”, “come se stasera avessi un ictus nella vasca d’acqua gialla”. Parlavo, quindi, di un sentire insieme.
Per quanto riguarda la mia poesia vale lo stesso. Non c’è un culto gratuito del dolore o della lacerazione della carne. Mi limito a tradurre in parola quello che percepisco del reale. La poesia non è mai scelta, solo risposta a un impulso (almeno nel suo oggetto, nel contenuto). Se scrivessi altro non sarei sincera.
Spero di aver esorcizzato il fantasma del feticismo.
Grazie Elena per questo commento appassionato. Concordo sul fatto che il contatto con la realtà passa prima di tutto attraverso sensazioni fisiche mute. Avendo perso l'udito, mi sono ritrovata sprofondata nella gestualità del corpo: osservo le persone attraverso il loro corpo, e sento attraverso il corpo. E a volte la realtà corporea è più autentica di quella parlante. Temo che la questione della "carne lacerata" sia un pregiudizio molto comune, che si sta diffondendo soprattutto da parte del sesso maschile: come se la società avesse imposto questa divisione tra uomo e donna, questo continuo conflitto o accusarsi a vicenda basandosi su luoghi comuni. Sicuramente il corpo della donna ha tante sfaccettature, ma non per questo deve essere visto come elemento "alienante" o diverso dall'uomo. Anzi, è proprio dall'unione dei corpi che c'é quel "fall in love with": una caduta o innamoramento a due, che sarebbe bello se diventasse, utopisticamente, fenomeno sociale, ossia innamoramento collettivo.
RispondiEliminaRoberta Sireno
grazie entrambe per questi due ultimi commenti, così sinceri e precisi.
RispondiEliminain generale, ci sono in effetti due fantasmi da esorcizzare, quando si scrive una poesia: il feticismo (anche quello della parola) e il narcisismo (anche quello subdolo, che sembra dono, altruismo).
Un abbraccio!