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domenica 5 febbraio 2012

Due interviste di Magazzeni a Giuliano Mesa


Nel tuo contributo per ákusma, Frasi dal finimondo, parli di fine della verità: "Due esperienze fondamentali dell'esistere sembrano scomparse: la verità, la sua percezione...". Il linguaggio deve servire a ritrovare senso, altrimenti "ci viene così inesorabilmente sottratto". È molto bella anche la citazione dalla Bachmann: "giacché il poeta ha davanti agli occhi tutta l'infelicità dell'uomo e del mondo, è come se sanzionasse questa infelicità".


...non affermo che il linguaggio deve servire a ritrovare senso. Se uno o più sensi sono andati perduti, lo sono irrimediabilmente. Io non ho memoria di nessun senso perduto e da ritrovare. Se nel passato c'era un senso è quello stesso che ha dato origine al presente, e dunque non posso certo averne nostalgia. Il problema che mi pongo non riguarda un senso, né da trovare né da ri-trovare: riguarda proprio, invece, il senso delle parole, e ancora non tanto perché ambisca a codificazioni rigide: è piuttosto all'àmbito dell'intenzione che mi riferisco, come a dire: pur nell'incertezza assoluta sul senso delle parole, dovremmo almeno, ancora, cercare di pronunciarle come se un senso, ad esse, volessimo attribuirlo, cioè trasferirlo, nell'interlocuzione, affinché un dialogo possibile non si spenga subito nella vacuità di parole soltanto fàtiche...
È come se, nell'interlocuzione, delle parole fosse rimasto soltanto l'involucro, il valore di scambio... Infine, sulla citazione da Ingeborg Bachmann: dobbiamo sempre chiederci se la nostra "reazione estetica", artistica, all'infelicità, non ne sia o ne diventi una "sanzione"... se leggiamo una poesia su, o contro, la guerra, e poi esclamiamo "che bella!", qualcosa, nel nostro cervello e non soltanto lì, deve farci sentire uno stridore (agghiacciante, vorrei dire), ché altrimenti la "promessa di felicità" che nell'arte dovremmo trovare diverrebbe, immediatamente, immediato, innocuo, autoassolutorio "godimento estetico"...


La poesia italiana contemporanea ha bisogno dunque di tornare a interrogarsi sul proprio rapporto col reale?

Intanto, direi che la poesia ha sempre bisogno di interrogarsi sul proprio rapporto col reale. La poesia dovrebbe sempre interrogarci sul nostro rapporto col reale, e può farlo soltanto interrogando sempre anche se stessa, il suo linguaggio, le sue forme. Dunque, non può che essere sempre nuova, poiché il reale muta costantentemente. Che poi non muti "verso il meglio", ebbene, ciò non attiene al concetto di nuovo inteso come proprio di un certo tempo storico in un certo luogo, bensì, e mettendolo in crisi, al nuovo inteso come "tappa di un progresso". Invece, e per molti anni e ancora oggi, è stata accolta come "ovvia" l'equazione "fine del progresso"-"fine del nuovo". Quel progresso, il procedere teleologico della storia umana verso la sua perfettibilità, se non perfezione, non è mai esistito: è stato, è ancora nella sua versione dominante - neoliberista, per intenderci -, ideologia. Ma il nuovo inteso come mutamento dei linguaggi, delle forme dell'arte in rapporto col mutare delle condizioni non è finito, non può finire. Sarebbe inutile dirlo, dirne, non fosse che, invece, si va dicendo, con insistita ottusità, che, ad esempio, la poesia italiana è finita trenta e più anni fa, che poi non c'è stato altro che epigonismo postmoderno. Anche ammesso che sia così - e non è così - quell'epigonismo rappresenta comunque, nelle sue forme, il nuovo di fine secolo...

[«Il Vascello di Carta», n. 4, 2000]



Perché scrivi poesie?

...forse, scrivo poesie perché è il mio modo di sapere. A questo, aggiungo la convinzione che le poesie possano trasmettere conoscenza, in un loro "modo" peculiare e non sostituibile. E aggiungo, infine, la presunzione che anche le mie poesie, alcune almeno, possano trasmetterne un poco, di conoscenza, e soltanto per questo mi azzardo a renderle pubbliche, a metterle in comune…


Quali autori sono stati determinanti per il tuo lavoro?

...ricostruire la propria formazione è molto difficile, richiederebbe un lavoro paziente di memoria, si dovrebbe ripercorrere la propria biblioteca, perché si rischia sempre di dimenticare un libro importante. Sarebbe utile farlo nella prospettiva di una storia della cultura nel secondo Novecento, non per stabilire geneaologie - e dunque canoni - nella poesia italiana, spesso, da critici e storici, "inventate" a partire da un presupposto, riduttivo e asfittico, che esclude dall’"influenza" poeti stranieri, narratori, filosofi, saggisti, musicisti, artisti, scienziati. (Un’ultima annotazione, per dire che "determinanti" sono forse soprattutto le esistenze, le nostre e quelle di chi abbiamo conosciuto, frequentato, amato, e le esistenze, ancora, degli "autori determinanti", le loro scelte, senza pregiudicare in falsa coscienza, interrogando, e sono dunque altrettanto "esemplari" le esistenze di Benjamin e di Benn, di Majakovskij e di Céline, per comprendere che cosa è accaduto, che cosa accade adesso che assistiamo succubi e inermi allo stato di guerra permanente, ai genocidi, al nuovo schiavismo, allo sterminio per fame…)

[«il verri», n. 15, gennaio 2001]

Giuliano Mesa
Loredana Magazzeni

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