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venerdì 4 novembre 2011

Jacopo Ricciardi

History of a landscape 43 (J. Ricciardi)
Sarebbe un peccato lasciar fuori da "Blanc" un poeta come Jacopo Ricciardi. Pubblico perciò la mia nota critica che accompagna il libro con il quale vinse il premio "Montano", nel 2004. I versi che seguono, per volontà dell'autore, sono invece la prima versione, inedita, dell'incipit di Colosseo. Le differenze non sono sostanziali.


Attraverso la «forma magnetica e densa» di una scrittura proteiforme e fortemente immaginativa, tesa ad arginare l’io e il mondo in un abbraccio placentario, Colosseo mette in scena la metamorfosi stessa, quel mutare incessante della totalità che disorienta il tempo della successione, quell’abisso senza fondo e apice dal quale la grecità fece nascere Gea, madre di tutte le cose. Sul vorticare operoso del Chaos Ricciardi poggia invece il bulbo oculare, nel tentativo sovrumano di immedesimarsi con esso tramite la forza dello sguardo, che in tal modo s’amplifica a dismisura diventando, nel medesimo tratto, io e mondo: «solo l’occhio esiste lo sguardo sono io prodotto / dall’occhio [...] tutto è occhio e tutto è / tutto» e «io sono il mondo che mi tocca». E tuttavia, appoggiare l’occhio sui «bordi della realtà» cosmogonica, per viverne le infinite variazioni, in un circuitare osmotico fra percezione e pensiero, non significa accettarne (e cantarne) rilkianamente i frutti; sin dalla prima lassa, infatti, l’inquietudine della voce monologante si mostra in modo inequivocabile: espressioni come «inferno», «palude», «cieli appesi», «aria sottovetro», «terra fatta di vento e vetro», «insonnia» aprono ad un destino niente affatto sovrano, bensì segnato dalla perdita, dal lutto. Ed ecco allora, in rapida successione, «l’energia di ciò che piange», la «nullità che sento e sono», «il feretro / della terra» e l’io che ghiaccia «nel sole» della «pagina bianca», fino a morirne, ma per rinascere subito dopo «come l’uccello tra le sue ali».

In verità, per un lungo tratto del racconto, alienazione e condivisione s’intrecciano, contendendosi la tonalità affettiva dominante; e così accade anche dopo il disgelo dalla «pagina bianca», fino a quando, attraversato il «sangue» e il «fango», la stretta relazione fra nascere e morire diventa esplicita: «muoio – scrive Ricciardi rivolgendosi al figlio nascituro – e mi do la morte tra una strofa e / l’altra alla fine di ogni verso per stare / più vicino alla nascita è come stare dentro / alla morte che è come stare nella vita di / domani magari insieme a te». Una rinascita che s’incarna metaforicamente nel «libro» – con probabile reminescenza jabesiana («il libro è la chiave tra noi due / poiché io sono il libro...”) – un libro «che legge» se stesso «di fronte / all’inondazione di un giorno lunare», ponendo con ciò in essere la circolarità schizomorfa già annunciata in principio, che nemmeno l’avvento di un «dio» può sanare, essendo egli «un amore / sinistro [...] terra bianca che sfugge». E allora, di fronte a questa condizione d’esilio inconsolabile, l’io narrante, quasi fosse un dio minore della cosmogonia gnostica, si fa creatore in proprio di un centro vitale, un centro suppletivo e fatalmente imperfetto: nel «settimo giorno» – ci dice la voce dopo essersi «persa / ... nelle mani inconsapevoli di dio» – «il corpo / si aggrega come la luce di un sole / bianco», per vedere «la sua storia / sul quaderno nero», per camminare «sotto / la lingua azzurra», sbocciando infine e di nuovo oltre la «culla» e la «stanza», crescendo a tal punto da leggere «il cielo» alla maniera di Baudelaire, come se fosse «un cucciolo appena nato» cui qualcuno avesse conficcato negli «occhi» un coltello. Immagine estrema quest’ultima, che viene quasi a chiudere il poemetto, riportandoci d’un colpo al sangue sparso e alla violenza perpetuata nelle arene d’ogni latitudine, prima fra tutte il Colosseo, che nell’immaginario collettivo si erge quale emblema antico dell’universo concentrazionario, macchina stritolatrice d’ogni forma compiuta, al pari di questo libro, al cui vortice l’io narrante si rimette, implorando una «cura inestinguibile» che gli dia un’accettabile ricomposizione.


***


oggi che l’inferno non ha paludi infernali ma cieli appesi proprio lì mi ricordo
di questa stagione che sto vivendo e me ne sto seduto all’esterno nella veranda
di questa casa coloniale immaginata così nell’aria sottovetro dietro a questo
cielo immaginato mia moglie è andata dietro quel sipario mentale della
terra fatta di vento e vetro mia moglie è incinta e questo comporta l’insonnia
di questa stagione

sulla terra noi siamo i figli della terra ma essa è il ventre gravido che ci coinvolge
eternamente e noi siamo i suoi figli ciechi e accondiscendenti ma qui dove il tempo
è come uno zero d’acqua e l’aria è aperta senza tempo l’assenza di colore è
trasportata ovunque come polline nero con l’energia di ciò che piange
al suo fine e feconda se stesso in una delirante unità fatta di calma legante
non quando una materia finisce e ne inizia un’altra ma quando
la materia continua in un’altra al tocco casuale e si dilata in risorse sondabili
e utilizzabili una cellula prolifera con un’altra cellula nell’acqua di un mare sempre
incontrato con se stesso senza spazio ed esso con l’oasi l’aria senza tempo e
con l’universo diradante senza vita toccati e sollecitati in me in ciò che contengo
poiché contengo pure ciò che mi contiene così io sono fino a ciò che s’incontra
precisamente qui ma che scatena se stesso me in equilibrio con la mia parola come
mio figlio col cranio nel cranio del ventre nell’universo che si insegue a sua immagine

tutto segue e segue alla collisione di ciò che resuscita nel ventre di mia moglie poiché
sempre con la stessa forza che allontana due punti si ingrandisce il volume senza confini
così mentre mia moglie versa l’acqua di rubinetto nel bicchiere per me egualmente il suo
ventre è un frammento che spacca questo cielo consueto che porta via mia moglie verso di
me che parla che parla per me mettere la mano sul suo ventre è come sentire il suono
dello scontro dell’universo sperimentato su di me luce di questa stagione come acqua
rovesciata in un bicchiere come grido silenzioso del fanciullo che non ha sonno



l’inferno blu del cielo ha angeli dell’epidermide mossi su me come il mattino in
prossimità del giorno il fresco dell’atmosfera è questa nullità che sento e che sono l’
aria è il calore del sole passato oltre me e continuato oltre e oltre io riposo nella realtà
come un mostro che ha dentro di sé la vita come un corpo abbandonato al suo segno
come un’idea inventata lì per lì alla sorgente dove scivola la rapidità della visione tra
mani riposate al sole dello sguardo e ridi per sempre l’anima ricevuta esistita oltre e
dentro la luce e spazia ciò che di me decide di portare con sé mia moglie è l’anima
trascorsa nell’anima di suo figlio ed io l’accelerazione della mentalità che punta il
Cuore energico della stagione poiché essa nascerà sulle nostre teste posata su di loro
come loro e rivolta a questo passaggio del corpo caduta come la foglia sull’ampia
terra del riposo spezzato nelle sue profondità promesse di ciò che staziona e
gravita nell’aria di ciò che per essa può essere vuoto o nulla semi energetici
interagenti del tempo diluito tra le punte degli occhi nostri e le punte delle dita nostre



l’erba è già cresciuta in questa storia e quanto è incomprensibile l’erba sotto di essa è giorno
sopra di essa è notte non siamo come la bocca del pesce aperta nell’aria i due bruciano l’
ossigeno del tempo e io non sono muto mi disfo come l’onda nell’acqua come
tra i due elementi resta la materia fluida cresciuta come l’erba nel prato vedo le lucciole di
giorno e notte nel prato sento le stelle di notte e giorno non è questa scrittura simile all’
erba e questo foglio più profondo della terra non è ciò che esiste più forte di ciò che esisterà sempre il
pesce è polvere il mare è polvere esiste il feretro della terra da dove uno nasce un peso bianco si scioglie
goccia e si scioglie nel mare non è più vero il mare se è come questo foglio e la scrittura non scivola sull’
acqua bianca come una forma magnetica e densa che attira sulla terra l’universo tu sei lo specchio di quella
forza l’universo è il mio specchio dove scende una nuova forma come proprio la sabbia del mare con la natura
cambiata senza stagione ma noi nella forma del cielo quando affiora il pesce per guardarlo per mangiarlo





quando è prodotto uno spazio infinito e gigante ha soluzione di pioggia di ogni suo elemento l’un l’altro
prodotto è ragione di ciò che procura l’azione ragione nella testa del neonato non nato che io tengo nel pugno
quando l’universo oltrepassa se stesso in una mano tengo il cataclisma che travolge la lingua e il controllo
della decisione di prendere sporto dal parapetto nel pugno il vocio dell’uccellino come mi fossi sporto davvero
dal bordo dell’universo ora che ho le mani sulla bilancia dell’essere se le apro vedo l’enorme cava bianca del
cielo da cui porti a Terra la ricchezza dell’autorità che mi vede sedere in questo testo nonostante tutto ricorso
come le fasi della luna come allagare la pioggia un’alluvione infinita e gigante poiché l’acqua riassorbita negata
da il colmo del terreno lunare che riempie per metà il cranio mezzo pieno mezzo vuoto l’oscillazione tramuterà
in sembianza da nuova intenzione nel versatile incontro e sole diviso non equamente e casuale come un battito
che non inizia e non finisce in universale eco senza parole





se ne sta sdraiato nella placenta del sole del prato giallo verde gli alberi sono enormi spine dorsali megalitiche verdi
uncinate al cielo il cielo il cielo atterra su di me solo su di me e quando è steso il cielo è un’enorme ruota di bicicletta
che macina tutto io ho i miei arti atterrati nel vuoto dei fiori e quanto vuoi aspettare l’enorme ruota gira dentro di me
come i cerchi dell’albero se sopra la mia testa passa una strada di cemento sulla collina su di essa le macchine passano
come delle piume rovesciate dal vento giù per la collina la mia testa fissa nell’aria troppo densa ma che a ogni colpo di
vento si fa più aria quest’aria scende verso il mattino non riposa in terra la carne in quest’aria non può essere realistica
pesare come il sole o pesare nel sole è il sole il suo peso che attraverso noi cade nel mattino il mattino steso nella carne
personale delle parole gli alberi sono le bianche lettere dei miei occhi pruni come scrittura nella roccia del cielo che è
il resto della mia testa il doppio della mia vista nasce delle cose l’occhio l’occhio è l’intero bianco dove io vivo pupilla
l’iride è la partenza di questo paesaggio dove arriva lì dove tutto è mosso lì l’iride è il corpo silenzioso





il pensiero andato giù a piombo a filo dell’occhio dei ricordi come un filo a piombo
a sfiorare l’acqua della strofa e i versi vanno fino all’acqua a filo ma la strofa è
l’acqua ed essa porta in esse e in fondo un a piombo dentro me stesso in verticalità e
altezza del pensiero ad altre e ad altre con me è qui il pensiero mosso alla superficie
dell’acqua mia e del mondo in una sola superficie propagata in pensiero così l’acqua
mossa dal vento in un altopiano lontano da me così io mosso come si nasce un corpo nel
pensiero poi l’incontro di due superfici come potenziale formato e anima dell’anima
come un albero che porta la sua chioma in acqua e le radici perse in acqua il mio
pensiero è il tronco come la vertigine di anelli il pensiero il corpo pensato come
acqua in acqua

di cosa è fatto questo pensiero della distanza che muta la distanza forza e definizione
del corpo portato negli altri ogni strofa argina il mio corpo e argina il mondo un io
arginato nel libro fuori arginato dal libro che non sai di leggere quando ti avvicini
ad esso come l’eterna attesa di un lago è esistenza l’esistenza è quando io faccio
per leggere e sono già oltre muovendo lo spazio del pensiero come un sole bianco
che rotola in terra come la scheggia bianca del cuore nell’occhio come ciò che si
appresta alla luce del giorno il giorno non fa altro che leggerci adesso fino ad
esaurirsi nella riga sempre più buia

questo libro ha labbra bianche e foglie bianche rivolte al sereno i rami li vedo
dalla finestra e li vedo sopra il mattino è un sorriso fatto con la bocca è il
sorriso che scambio con mia moglie il sorriso di mio figlio sono i nervi e
le fessure del libro non siamo morti l’uno nell’altro io giaccio nel sole
di questa pagina bianca e loro in me quando prendo un foglio lo giro
attraverso noi io nasco in questa pagina come l’uccello tra le sue ali io
nasco nel mio corpo libellula di lettere è tutto come il foglio lavorato quando
batto le palpebre io resto e non scompaio



Jacopo Ricciardi è nato nel 1976 a Roma, dove vive e lavora. Vincitore di diversi premi, ha pubblicato sette libri di poesie - Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Atòin (Campanotto, 2000), Scultura (con Teodosio Magnoni; Exit, 2002), Poesie della non morte (con Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Scheggedellalba (con Pietro Cascella; Cento amici del libro, 2008) - nei quali il suo modo di procedere è “vasto quanto un luogo poiché lì è qui ma quando/ci si avvicina al luogo qui e lì già accade tra la/parola e l’universo che si toccano”. Ha ideato e curato dal 2001 al 2006, per Aeroporti di Roma, il progetto culturale “PlayOn” e ha diretto l’omonima collana presso Scheiwiller. Ha pubblicato due romanzi, Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008). È presente nell’antologia “Nuovissima poesia italiana” (Mondadori, 2005) curata da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.

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