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sabato 27 agosto 2011

Marco Bini


"Un tempo forte senza sbavature" chiede Marco Bini in Conoscenza del vento (Giuliano Ladolfi Editore, 2011), opera prima straordinariamente compatta, senza sbavature, appunto, nel solco di un'idea versale in cui ritmo, suono e senso si cercano, si completano, come tre amanti che si conoscono dalle origini della lingua e credono nel loro compito trinitario: che è quello di sostenere con la bellezza la spoliazione del sacro, rifondando l'abitare a partire da confini labili, terrestri, soggetti a forze non dominabili. La metafora ce la fornisce il poeta stesso, allorché nel "primo atlante", ricevuto in dono dal padre, capì "il senso di 'provvisorio'". Doppio smarrimento se è la stessa guida a fornire la mappa del perituro, del mutevole. E' come se Virgilio portasse in un labirinto infinito il suo pupillo, istruendolo sull'impossibilità di uscirne. Al massimo, ci dice Bini, possiamo avere il nostro giorno da leoni, la nostra "scena madre", prima di tornare "obbedienti", come lo stesso Enea, che "punta / i piedi, si contorce, è tutto un brancolare. / Poi decide per il meglio: sopporta".


Conoscenza del vento ha il piglio del romanzo di formazione, ma scritto senza concedere nulla alla facile biografia, che entra tuttavia per emblemi: il "sorriso", per esempio, il cui uso va calibrato con la "bile". Il vento insegna anche questo e mai sapremo da quale incontro reale Bini abbia distillato tale formula, che non apre mondi, ma consente un'obbedienza non servile; tra pari, semmai, nella consapevolezza, leopardiana, che al tempo storico e cosmico siamo indifferenti. Non è soltanto il pessimismo generazionale, infatti, pur inevitabile, a fargli dire: "Quand'è che abbiamo smesso di cercare / da dove viene questo odore di rottami", bensì il modo preciso di guardare il mondo, la capacità di vedere la struttura molecolare dei corpi soggetti alla "legge di gravità" (frequenti, infatti, i lessemi della famiglia scientifica), a cui nulla si sottrae, nemmeno la passione, probabilmente, la quale, dopo aver sgommato "a tutto gas" ha bisogno anch'essa "di una sedia". E anche quando l'io lirico ebbe l'impressione che l'avvenire fosse "un bolide arrogante", quel "noi" adolescenziale si è fatto presto destino d'ogni uomo, bruciato, appunto, dalla velocità in cui le stagioni passano, da quel tempo che "progredisce / ci raggiunge, un istante ci coesiste / poi di noi va oltre. Semplicemente". Proprio perché è il tempo profano, lineare, quel vento dalla lunga scia che occorre conoscere per sopportarlo, è possibile individuare, come fa Marco Godio ("Atelier" n.62), "tre cicli" nell'opera in questione: quello "della giornata", l'"annuale" e "della vita", da intendersi però – aggiungo – desacralizzati, perché la circolarità naturale dei primi due (il terzo è, per "gravità", lineare) è tristemente rotta dall'ansia del superamento, del nuovo. L'auspicio è che semmai, proprio nel ciclo della vita, infanzia e vecchiaia vengano a coincidere, laddove l'io lirico sogna di "lasciare lo zaino a terra e correre alle braccia che consolino". Poesia finale che massimamente evidenzia il dolore per la secolarizzazione e la speranza in un aldilà luminoso, un passare "dal fondo del tunnel" per "investire la pupilla all'altro capo / col respiro che si allarga rinnovandoci la pelle". La rinascita è l'altro vento, quello dell'eternità riconciliata con il Principio, la cui conoscenza davvero libera ad "un tempo senza sbavature".




È forse un problema di temperatura
se la pellicola rende i fotogrammi
coi margini scontornati dal calore
– come l’afa estiva incolla lenzuola e fronti
nel sudore e fonde le estremità di giorni
adiacenti per le regole dell’insonnia;
allora una pulsazione cardiaca
è uno sconnesso battito di tamburo.
Sarà volgendo a un più rigido inverno
– la neve di soppiatto come una spia
a colmare frontiere e demarcazioni –
col favore della conservazione dei tessuti,
si osserva la mappatura delle cose
senza asperità e maggior definizione.
Si sente allora propagarsi come un cerchio
nell’acqua, dalla gabbia del torace un pulsare
– preciso – un tempo forte senza sbavature.




**


Ripiegavo sul fiume: era la spanna
il nuoto della lontra per il tempo
e lo stupore mai veniva meno
per un nome sospinto senza sosta
oltre i recinti, intatto ai dialetti.
Stupore per l’inizio e per la fine,
per l’esserci di un limite alla corsa
dell’energia che nasce tra gli estremi.






**



Ogni volta è come mandare un vetro in frantumi
in un dato frangente, di fronte all’evidenza
di una rotazione nuova della Terra, e fuggire
non si può all’infinito, sgattaiolare come Ottobre
Rosso, sotto il pelo della notte; e perché non farsi ago
da sotto la trapunta, trapassare una molecola
alla volta, spuntare dalla parte del sonno
più sconvolta per disarmarsi nel mattino?
Perché quel che ti tocca è incontrare ancora la luce,
quel che ti importa che il giorno non sia troppo castigo.




**


Il sorriso che sgela l’artico attorno
sempre in principio è abitudine
e repertorio – vecchia scuola – del tempo
didattica impartita col contagocce.
Va riposto nel cassetto dopo l’uso
non sciupato, conservato a clima ambiente
con le facce d’occasione, col vasetto della bile.




**


Quand’è che abbiamo smesso di cercare
da dove viene questo odore di rottami?
Ne è già passata di acqua sotto i ponti
senza sosta da quando dentro il punto
di domanda ci accucciammo, in attesa
di qualcosa in procinto di accadere.




**



Piuttosto strano questo agosto, forse tipico tedesco,
che ci corre accanto sull’Autobahn infestata
da fantasmi di storie, da ragazze sui cartelli,
pollice e indice vicini rivelano che «raser
sind so sexy», come a dire sono brevi,
per chi corre, dell’atto il tempo e l’ingombro.
Sbolle al tramonto l’uscita Norimberga, il cobalto
del Baltico ancora non straripa dalla linea d’orizzonte.
Strano, come detto: potremmo levarla in un gesto,
sbriciolarla sull’asfalto come una striscia di silicone,
spaccare di netto il mondo in due. Senza un cigolìo
si scoperchierebbe il pianeta; ci sarà apparso naturale,
vedere tutto sparire nella fessura aperta, il cielo
da una parte, la terra dall’altra, ognuno per la sua strada.




**


Perché non sia la nebbia un infarto a mezz’aria delle cose,
che tutto già pesa da sgocciolare fino a terra.
Non sia spazio, spazio ancora, superflua distanza
cosparsa tra i viventi. Non sbandiamo, teniamoci d’occhio.

Non c’è luce che non passi dal fondo del tunnel
prima di investire la pupilla all’altro capo
col respiro che si allarga rinnovandoci la pelle.


Viene l’ora di portare le ossa a crepitare contro il fuoco;
quando il sole scende al primo piano e la casa
è una meraviglia di arancione per la retina
vorremmo liberarci dai contorni nella stretta,
lasciare lo zaino a terra e correre alle braccia che consolino
queste spalle troppo forti ancora da non servire a niente.


Marco Bini è nato nel 1984, vive e lavora a Vignola (Mo). Si è laureato in Lettere Moderne all'Università di Bologna. Oltre a scrivere poesie, saggi e traduzioni, è molto attivo nell'associazionismo culturale del suo territorio, e collabora con l'organizzazione di Poesia festival in provincia di Modena. Fa parte dello staff del progetto editoriale "Schiaffo edizioni".

Suoi testi sono apparsi sull'antologia Pro/testo (Farà edizioni, Rimini 2009) e sulla rivista «Ali» (Edizioni del Bradipo, Lugo di Romagna). Ha vinto il Premio De Palchi-Raiziss 2010 di Verona e la sezione «Cantiere» del Premio Renato Giorgi 2010 della rivista «Le Voci della Luna». Collabora con la rivista «Farepoesia» di Pavia.

12 commenti:

  1. Ho visto questa raccolta nascere negli anni. Ho seguito il percorso poetico e critico di Marco Bini fin dall'inizio e sono stato onorato della sua partecipazione a Pro/Testo. Concordo con Gallerani (Lo Voci della luna) quando scrive che questa raccolta è una delle opere prime più interessanti degli ultimi anni. Ricordo solo Kobarid di Fantuzzi e poche altre così convincenti ma andiamo indietro negli anni come nel caso di Del Sarto o Gezzi. Devo ancora procurarmi il libro cartaceo, era esaurito ad una fiera; spero presto per potermi rileggere e gustare il tutto. Apprezzo la misura poetica, la voce matura nonostante l'età. Si sente che c'è dietro un grande lavoro poetico. Pochi oggi lavorano e pazientano così.
    Complimenti a Stefano per l'analisi.

    Un caro saluto

    Luca Ariano

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  2. credo che la "generazione" dei nati negli anni 80 sia più libera di usare e non usare la tradizione, senza per forza sentirsi militante o nuova, come voleva esserlo quella degli anni 70, che pure ha prodotto gran cose.

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  3. Ringrazio Stefano per il bel dono dell'ospitalità su questo blog, luogo dove si fanno spesso scoperte importanti; per questo sento l'importanza dell'opportunità. E Ringrazio Luca delle belle parole, senz'altro una delle caratteristiche del libro è di essere stato pensato a lungo e scritto senza fretta, cercando di accogliervi le diverse esperienze di lettura importanti e le elaborazioni critiche di questi anni.
    Sul problema della tradizione, credo che non si finisca di riflettere davvero mai. E credo che il problema sia troppo importante da sostenere risposte definitive o soluzioni da manuale.
    Sicuramente, sentirsi svincolati nella scelta dei mezzi espressivi è importante, ma ho sempre ritenuto che lo fosse anche il guardare oltre confine, ad altre tradizioni letterarie, nel tentativo di arricchire la propria scrittura di stimoli personali, senza per questo puntare tutto sul "nuovismo" in sé - come accenna giustamente Stefano.
    Credo nel principio del "lavoro", inteso come impegno e sforzo di fare del proprio meglio; spesso, le esperienze estetiche che trovo più dirompenti (nel contemporaneo) sono quelle che mi fanno sentire il lavoro che c'è sotto, come tentativo di trovare soluzioni fuori dai soliti binari, fare e disfare, e tanta "pratica" e applicazione sul proprio linguaggio espressivo.
    Non sta a me giudicare con quali esiti, ma questo è un po' il tentativo che ho provato a realizzarlo.

    Marco Bini

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  4. Mario Bertasa30/8/11 00:18

    caro Marco, torno dalle vacanze quest'anno con tante riflessioni, passi in avanti, guadagni spirituali, e tra questi c'è stata senz'altro la lettura del tuo libro. Piccolo in apparenza, ma di densità vertiginosa. Mi ha restituito le medesime sensazioni che ho condiviso con alcuni compagni in escursioni "toste" in alta quota. Dove non mancano appunto le vertigini, e anche l'umiltà del viandante che le supera senza strafare, dosando le energie e il respiro per le ferrate più esposte, senza i manierismi di certi alpinisti strafottenti che trasformano un passaggio in cresta, o in cengia, in una palestra di body building. La stessa umiltà che si respira nel tuo tenace lavoro.
    Un abbraccio a tutti, soprattutto a Stefano.

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  5. mi piace, caro Mario, questo tuo paragone!

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  6. Grazie, Mario. Molto bella la tua similitudine "alpina", ma mi lusinga molto anche l'espressione "guadagno spirituale"... mi dà l'idea di un ingresso profondo nell'animo di chi legge. Grazie, mi incoraggia molto.
    Spero, dell'alpinista, di aver avuto la pazienza e la capacità di non sottovalutare la prova. E di continuare a non farlo, mai.

    Marco Bini

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  7. già...
    l'importante è non sottovalutare mai proprio i passi che si fanno nei luoghi più noti, quelli che si percorrono ad occhi chiusi. Il mio primo maestro di climbing, pensate, ci è "rimasto" proprio su una via facile che faceva quasi tutte le settimane, giusto per tenere le gambe in caldo. E io stesso non me lo rammento mai abbastanza.

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  8. la montagna incanta, in effetti, tanto per tagliare le dita a mann.

    Mario, promesso che cammineremo ancora insieme!

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  9. eh, eh... qui ti volevo...! :-)

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  10. apprezzo la ricerca poetica di marco e la complessità che sta dietro le sue poesie, anch'io credo nel principio del lavoro e della pratica. ma apprezzo soprattutto l'umiltà e la pazienza con cui questo lavorio, alla base della composizione, è celato nella semplicità dell'esposizione. tutta la complessità si traduce, attraverso il travaglio della forma, in un segno semplice e potente, che senza annoiare con prove di forza (l'esempio dell'alpinismo è azzeccato) restituisce un sentire lucido e profondo.
    complimenti a marco,
    complimenti a stefano per il blog!

    danilo.

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  11. Un sentito grazie a Danilo per il suo intervento. Spero di riuscire, tentando di migliorare, a rimanere "pancia a terra" e a mantenere l'anima artigiana che credo abbia contraddistinto questo primo lavoro.
    Grazie ancora

    Marco Bini

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