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domenica 7 novembre 2010

A M. G. / una parola sulle "cose" e sul "mondo"



Caro Marco, volevo esprimere un paio di considerazioni a proposito delle «fotografie dell’artista finlandese Katharina Bosse, dedicate ad ambienti e spazi vuoti: stanze [...] generalmente affittate per fare sesso e/o girare film porno», che, nell'ultimo post di   Slowforward, leggi così: «La loro riconnotazione, sovrascrittura, da parte del nostro sguardo, avviene dunque nella e grazie alla coscienza del fatto che sono luoghi in cui l’essenziale — crudo/crudele o meno — è temporalmente dislocato: c’è già stato o deve ancora accadere. Se in generale la fotografia è la traccia di un “è così”, particolari fotografie come queste (e molte altre foto di ambienti vuoti, certo: ma in questo caso il vuoto è caricato di un non detto erotico) addizionano un “sarà altro” o un “è stato differente”, che echeggia in qualche modo nell’osservatore. O che (meglio) sarà l’osservatore a far echeggiare nell’immagine. Non si tratta di riconoscere – trovare familiare — collocare in una enciclopedia di luoghi e dati — una banalità d’ambientazione, mobilio sciatto, luce ambigua, un momento di attesa, ma — anche — di spingere tanto la banalità quanto l’aria atemporale nell’inconsistenza del “set” iperconnotato. Dunque nell’imprimere attivamente con lo sguardo una sorta di spostamento — di variata percezione — di quei colori o identità e banalità, sciatteria, eccettera».

Quanto tu rilevi con pertinenza, credo appartenga ad ogni linguaggio capace di tenere insieme, senza confonderle, le tre dimensioni del tempo e la complessità dell'essere cosa della cosa nella sua correlazione con l'esser mondo del mondo. Heidegger tale relazione la spiega così, rispetto ad una quartina di Trakl tratta dalla lirica Una sera d'inverno:


Quando la neve cade alla finestra
A lungo risuona la campana della sera.
Per molti la tavola è pronta
E la casa è tutta in ordine.


Scrive Heidegger ne In cammino verso il linguaggio, dopo aver precisato l'è così della scena, costituto, appunto, da: neve che cade, finestra, suono della campana, sera invernale, tavola apparecchiata, casa in ordine: «Questo parlare nomina la neve che, sul tardi, allo svanire del giorno, mentre risuona la campana della sera, batte senza rumore alla finestra. Tutto ciò che dura, dura più a lungo, quando la neve cade: per questo la campana della sera, che ogni giorno risuona per un tempo strettamente circoscritto, suona a lungo. Il parlare nomina la sera d'inverno. Che è questo nominare? [...] Il nominare non distribuisce nomi, non applica parole, bensì chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il chiamare avvicina ciò che chiama. [...] Il chiamare è un invitare. È l'invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini. La caduta della neve porta gli uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella notte. Il suonare della campana della sera li porta come mortali di fronte al Divino. Casa e tavola vincolano i mortali alla terra. Le cose che la poesia nomina, in tal modo chiamate, adunano presso di sé cielo e terra, i mortali e i divini. I quattro costituiscono, nel loro relazionarsi, un'unità originaria. Le cose trattengono presso di sé il quadrato dei quattro. In questo adunare e trattenere consiste l'esser cosa delle cose. L'unitario quadrato di cielo e terra, mortali e divini, immanente all'essenza delle cose in quanto cose, noi lo chiamiamo: il mondo. La poesia, nominando le cose, le chiama in tale loro essenza. Queste, nel loro essere e operare come cose, dispiegano il mondo: nel mondo esse stanno, e in questo loro stare nel mondo è la loro realtà e la loro durata. Le cose, in quanto sono e operano come tali, portano a compimento il mondo».

Stare in prossimità della differenza fra cose e mondo, abitare quella linea che differisce e ci chiama a rispondere (dare un senso al visibile dalla nostra finitezza, prendere la parola dalla collocazione in cui incontriamo quella differenza) è esattamente ciò che sa fare il linguaggio (e quello delle arti in modo particolare) quando lo si pensi fondante, ma nel modo di un sottrarsi, ossia tale che la «differenza» in quanto tale non diventi mai ente, ma permanga nella suo esser-differente dalla semplice presenza (il dato, l'oggetto): per esempio, differente dalle stanze reali che le foto di Katharina Bosse ritrae. Ritrae, ossia tira fuori dall'ordine muto dello spazio abitativo, per dislocarlo e rimetterlo al centro di un'attenzione sopita, rinominandolo attraverso la finestra della foto, che si fa cornice di un ritratto, di un tratto nuovo e tutto ancora da pensare, che provoca l'osservatore, scatenando, appunto, lo «spostamento" e la «riconnotazione". Qualcosa di simile emerge anche in Sentieri interrotti, un altro famoso scritto di Heidegger, nel quale le scarpe ritratte da Van Gogh, proprio perché esposte nell'unità espropriante dell'opera, manifestano la quadratura originaria: «Nell'orificio oscuro dall'interno logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell'umidore e dal turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messe mature e il suo oscuro rifiuto nell'abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell'annuncio della nascita, l'angoscia della prossimità della morte. Questo mezzo appartiene alla terra, e il mondo della contadina lo custodisce. Da questo appartenere custodito, il mezzo si immedesima nel suo riposare in se stesso».

Caro Marco, è proprio in quanto pensi (lasci essere) la differenza, che sei in grado di esperire quanto sopra affermi; non perché il paradigma della Bosse abbia un posto privilegiato nell'ordine del disvelare. Tanto è vero che Heidegger fa lo stesso avvicinando la poesia di Trakl (o il dipinto di Van Gogh), riconoscendoli entrambi capaci di far interagire l'emotività, l'intelletto e le tre dimensioni temporali, nucleo invero che ci costituisce essenzialmente proprio perché l'esperienza (che è sempre emotivamente situata) dialoga costantemente con la presenza, attraverso memoria e aspettazione (passato e futuro) e in quanto domanda di senso (presente) che giustifichi il significato, sempre parziale, di quanto mi si offre alla percezione. Ciò accade anche rispetto a fenomeni non estetici, giacché noi siamo al mondo in modo essenzialmente ermeneutico. Dunque, non è il cambio di paradigma che rende tutto ciò possibile, ma la forza che il linguaggio intrinsecamente possiede, nella misura in cui si svincola dalla reificazione generale, dai luoghi comuni, dal mondo del «Sì» direbbe l'Heidegger di Essere e Tempo. Si svincola, qui significa: diverge, si mantiene in un'oscillazione di senso capace di dislocare il lettore, di ricollocarlo nel dialogo essenziale che lo costituisce in quanto mortale, in quanto elemento del «quadrato dei quattro», dove la bussola non porta fuori di lì, bensì a stare in posizione dialogica con ciò che temiamo o desideriamo: il cielo e i divini, quali metafore dell'aperto destinale, la terra, con le sue quattro direzioni e dunque con la scelta che ogni via umana comporta, e i mortali, fratelli consapevoli (si vorrebbe) del fatto che non si esce dalla caverna (dal labirinto terrestre) perché la luce - il cielo e i divini - è già perfettamente dentro l'ombra, ed entrambi sono nel differire continuo del linguaggio, che colloca me e te in cammini differenti proprio perché differenti sono le nostre finite presenze. A tenerle in prossimità, tuttavia (è qui sta la bellezza del nostro dialogo), è la disposizione all'ascolto, al confronto, alla rinuncia a piegare l'altro, e, semmai, al desiderio di arricchirne l'esperienza.


Un caro abbraccio!


8 commenti:

  1. un abbraccio e una nota, qui: http://slowforward.wordpress.com/2010/11/07/un-altro-momento-del-dialogo-con-stefano/

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  2. leggerò attentamente. per ora mi limito a dire che. per Kant, estetica è il momento preliminare della conoscenza, che passa per la percezione sensibile. non dunque scienza del bello, ma condizione preliminare dello stare nel mondo attraverso i sensi.

    en passant: ma può esistere un'opera che non presupponga una condivisone di paradigma tra autore e lettore?

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  3. caro Stefano, su Kant: è esattamente l'accenno che faccio (da pagine garroniane).

    *

    sulla "condivisione di paradigma", dico:

    può esistere un'opera che costruisce modalità in tutto inedite (o diverse, inattese) di strutturazione del contratto di base per tale condivisione.

    se tale opera esiste, e se ha senso attribuirle un valore simile, non posso non indicarla e non sollecitare un incontro con essa. ma nemmeno posso dirmi - io MG - suo 'legislatore' o chiosatore. torno semmai a incoraggiarne la lettura. per sollevare voci diverse sul tema (la mia, temo fortemente, è monocorde & stancante!)

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  4. ci siamo capiti: l'opera scarta di lato come il bufalo di de gregori :-)

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  5. sperando di non cadere però!
    :))

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  6. Ho continuato a leggere gli scambi, mi pare abbiate sviluppato diversi punti interessanti; se non ho capito male Giovenale si rifa' al concetto di "emergenza" (come l'avrebbe sviluppato anche Varela in campio biomedico parlando di "coscienza") per giustificare l'accumulo di materiali e la loro intrinseca vitalita'/validita'.

    Non so... quella linea e' stata parzialmente abbandonata nella ricerca -anche linguistica- in favore di un realismo strutturale che parte dallo studio delle relazioni, di come sono espresse e di cosa rappresentano: se la realta' o appunto solo il ricostruito della mente, cioe' le relazioni.

    Su questi discorsi l'avanguardia nostrana non si e' mai spinta perche' i loro referenti culturali erano diversi e perche' tale era la novita' ai tempi da giustificare un approccio pratico/esemplificativo piu' che una ricerca puramente teorica.

    E' anche vero che a fronte di queste robe, una larga fetta di praticanti -come Bonsante in altro colonnino o il Linguaglossa scandagliatore o ancora le numerose "comunita' della decrescita" che fanno la poesia in questo 2010 italiano- e' inesorabilmente tagliata fuori.

    Cosi' come e' vero che il buttarsi su queste robe e' stato nel decennio appena trascorso anche una moda, moda che in Italia si deve al magistero di Eco e ai vituperati studi di scienza della comunicazione. Mi pare strano che Giovenale citi e riciti esempi di scuola francese o anglofona senza fare i conti con gli esempi recenti locali che, appunto, partono da Eco e in Eco probabilmente finiscono la spinta originale.

    In ogni caso e' stato un buon leggere, ulteriore occasione di chiarezza in un percorso che ci vede colleghi alla lontana (e mi pare che anche Gugl abbia qui riscoperto le sue origini avanguardiste, divertendosi). Ciao. GiusCo.

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  7. la tua lettura mi pare riduttiva (se riconduci tutto ai lavori di Eco o di Varela).

    la cosa certa è che io non ho mai smesso di sperimentare.

    ciao!

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  8. grazie a GiusCo del suo contributo. non avevo in effetti in mente Varela (pur avendolo letto nell'ambito degli studi su quella che a fine anni '80 si diceva "cultura della complessità", che incrociai sulla via degli studi di letteratura comparata all'università).

    neanche era (forse) Eco il mio referente primo. non mi dispiace forse (e: invece) (e: felicemente) tornare proprio ai testi. alle "robe" francesi ecc., un po' anche seguendo il suggerimento di Stefano, che sensatamente invita a una presa di distanza dal post+reply che in questi giorni si è (del tutto proficuamente, beninteso) susseguito qui su Blanc o sulla pagina di Slow.

    anche perché non vorrei (non vorrei troppo) far riferimenti a studi e teorie sulla letteratura. ma proprio ai testi creativi (alle prose, ai vari materiali) nei quali a mio parere si ravvisano alcune novità o variazioni o insomma elementi di interesse.

    come ho spiegato in vari interventi, e anche in risposte su Slow alle osservazioni di Stefano, c'è una ragione o una serie di ragioni per far riferimento meno a una linea italiana (ripeto: di testi, non ci critica) e più a linee di altre tradizioni linguistiche. ma questo penso sia apparso chiaro e più chiaro apparirà da riflessioni che mi riprometto di far uscire ancora più avanti (a ulteriori letture fatte o ripetute).

    approfitto di questo post per salutare sia Stefano, e ringraziarlo con energia per il dialogo affrontato (e per altri che avvieremo); sia GiusCo, con il quale può non esserci - o non esserci sempre - accordo, ma a cui devo, come a tutti i commentatori intervenuti qui e altrove, il rispetto che si deve a chi offre alla discussione nuovi elementi.

    Marco

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