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mercoledì 15 settembre 2010

Prosa in prosa



Uscita in veste un poco più corta nel numero 47 de "Le voci della Luna", pubblico questa recensione a Prosa in prosa (Le lettere, 2009) nella sua versione integrale.


Puntare l'attenzione critica sul bordo del verso, sulla terra di confine dove poesia diventa prosa e viceversa, è un esercizio salutare non tanto alla storiografia letteraria, bensì alla scrittura creativa in quanto tale. Essa infatti è sempre, al di là dei modelli, sconfinamento perpetuo dai codici dati, pensiero che scarta il dato, che lo rigenera grazie alla fertile lingua di ciascuno. Pur dandolo per presupposto, la strada intrapresa da Prosa in prosa non parte da questo assunto generale; essa piuttosto cerca fondamento in una precisa matrice ideologica, pensandosi quale conseguenza della crisi dei codici, tanto quelli alti, del "poetico", quanto quelli denotativi, referenziali. L'idea, che diventa prospettiva di militanza critica nei confronti di una tradizione poetica, in specie italiana, si sostanzia in questi due elementi: negare ogni "trascendenza" alla parola e contestarle l'orizzonte retorico-simbolico, così da produrre, come scrive Paolo Giovannetti nella dottissima prefazione, "un testo che non suona e gioca tutte le sue possibilità in un bianco/nero integralmente, disperatamente gutemberghiano". Della definizione, mutuata anzitutto da J.M. Geize, colpisce l'avverbio esistenzialista "disperatamente", che riporta l'esercizio intellettivo degli autori antologizzati (Inglese, Bortolotti, Broggi, Giovenale, Zaffarano, Raos) a farmaco freddo contro l'angoscia, ossia a quel sentimento prodotto dal non senso dell'esserci, tematizzato a suo tempo da Kierkegaard e Heidegger, che costituisce fra l'altro una delle fonti per comprendere la relazione fra parola poetica e finitezza.  Il venir meno della "trascendenza" consiste nel pensare il particolare nella sua funzione fondante, mancante di nulla, e che qui si traduce nell'indipendenza dal "genere", modo invece dell'Universale. In questa prospettiva, la scrittura concreta, singolare, viene prima del cappello che distingue la poesia dalla prosa e da qualsiasi altra verticalità esterna a tale pratica.
   Ciò che mi convince di meno, e che comunque non è nuovo nemmeno in Italia, è l'impoverimento programmatico della lingua, il suo appiattimento alla forma di comunicazione ordinaria, desublimata, cui l'unica funzione critica consiste nel disvelare il caos contemporaneo (dei codici etici, grammaticali e politici) tramite lacerti metonimici, capaci di produrre cortocircuiti nel tessuto della comunicazione sociale. L'operazione, che in fondo altro non chiede al lettore se non "di confrontarsi con una pura sintagmaticità combinatoria" (Giacometti), pur avendo il merito di riportare al centro del dibattito la questione semiologica del rapporto fra senso e significato, fra tecnica ed etica, fra sapere scientifico e quello umanistico, letta con la terminologia di de Saussure, appiattisce la parole sulla langue, ossia il tracimare linguistico della caducità singolare nel codice fisso della comunità parlante e ciò, anzitutto, per la persuasione che il genere lirico abbia esaurito le proprie possibilità espressive. Tale assunto si combina con la convinzione che la stessa langue è in frantumi, consegnandosi dunque alla parole non come tessuto fondante, bensì quale magazzino di maschere, arcipelago di detriti incapaci di riconsegnarci un senso univoco del reale. Dando per acquisita questa seconda istanza e seguendo l'indicazione di Giacometti, mi chiedo quale sia la necessità intrinseca dell'impoverimento della parole, quale l'evidenza che davvero non ci sia alcun lasco fra omologazione e creatività individuale, che non sia intesa quale catena destabilizzante operante all'interno dell'omologazione stessa. Leggendo tuttavia gli autori, come lo stesso prefatore ammette, è evidente lo scarto operativo dal presupposto teorico. Strategie differenti delimitano infatti poetiche conciliabili soltanto nella cornice, in un orizzonte pre-testuale che è tradizione semiotico-strutturalista (soprattutto francese e statunitense) e militanza avanguardistica, giacché pensa al postmoderno non come modo dell'apertura storico linguistica contemporanea (che pervade anche la lirica, dunque), ma quale preciso schieramento di campo, con annessa sprovincializzazione della cultura letteraria italiana, troppo chiusa nei propri modelli di radice simbolista, e poco propensa ad interagire con scienza e tecnologia. Questione invero già posta dalle neoavanguardie degli anni Sessanta. In questo senso, credo sarebbe utile al dibattito una maggiore chiarezza critica verso la tradizione italiana (dai Vociani a Campana, da Pavese a Savinio, da Zanzotto a Rosselli, da Villa a Spatola, da Pizzuto a Manganelli, per non dire dei Novissimi, dei Gruppi '63 e '70, e dei poeti di "Anterem"), così da rintracciare una linea autorevole legata anche alla nostra storia novecentesca e alla storia della nostra lingua. E' quanto intende fare il controcanto in postfazione di A. Loreto, che, dopo aver ripercorso la storia della tautologia "arte è arte" (inutile dunque dire "prosa" ma intendere "poesia"), cava dai sei autori, con pertinenza, lacerti cinematografici, plastici, pittorici e letterari che danno ai loro testi una vitalità straordinaria, che certo merita attenzione.



      Andrea Inglese

Prato n° 3 (puntasecca)

Succede prima o poi di avvicinarsi al prato. Non direttamente, come se uno ci camminasse sopra (o in mezzo). Ma per una mediazione, di cui è responsabile una persona. Un individuo incontrato per caso, più vecchio di te, che finisce con l'invitarti a casa sua, e non te ne parla subito, ma tu alla fine lo capisci, mentre ti rovescia un po' di vino nel bicchiere, lui dipinge prati. E ovunque, per l'appartamento, poggiano su tavoli, comò, librerie, contro pareti ed armadi, piccole tele, a volte solo carte, neppure colorate, ma attraversate da tratti di china. Sono prati neri, nervosi, come una tempesta di aghi, senza nient'altro che appaia, rischiari, interrompa il formicolio dei tratti. Il prato è quindi concepibile nel suo isolamento, come una cosa evidente, solitaria, apparentemente semplice, ma che può cominciare a sfuggire a chi lo dipinga o disegni più di una volta, come angustiato, e ci ritorni poi, a completare il lavoro, o almeno così lui pensa, all'inizio, ma dopo il lavoro non si completa, si apre a un disordine ansioso, il prato rimane ancora e sempre da fare, alcuni tratti non sono mai quelli elementari, semplici, sono di nuovo forzature, testarde forza­ture, segnali di prato, non parti buone di prato.



Gherardo Bortolotti


23. lavando i denti prima di dormire, una specie di mossa interlocu­toria, un passo da tentare nel gioco del tempo che si perde, del continuo approssimarsi alla morte.

24.     riferendoci, in sede di discussione, ad alcuni eventi secondari come alla nostra vita.

25.     facendo shopping, implicati in qualche vicenda collettiva.
26.     fra le puntate settimanali di un serial, avvenimenti di poco conto, discussioni interrotte, fraintendimenti in ufficio.
27. stupori silenti di fronte allo schermo del televisore.
28. sensibile alle stagioni ed alle tattiche di manipolazione dei media.
29. rivolgendoci al futuro, aspettando che il sogno si interrompa.
30. nel silenzio delle tue convinzioni.
31. mentre le confezioni di detersivo ci riempiono gli occhi.
32. nella media coscienza culturale.
33.     procedendo nella nostra carriera di cittadini e di consumatori, dando prova di spiccate attitudini all'indifferenza, al cinismo, all'allucinazione.
34. nelle ore meno significative del pomeriggio.
35. il lunedì mattina, dopo la catastrofe del fine-settimana.
36. qualcosa dentro di noi che è sbagliato e che ci rende liberi.
37. nemmeno all'altezza dei nostri cellulari.
38. la confusa vicenda che identifichi con la tua coscienza.
39. seduti in cucina, come esponenti dell'opinione pubblica.



Alessandro Broggi
  
Ipotesi

I.

I caroselli girano, e noi continuiamo a vedere immagini che non cono­sciamo ma che cominciamo a riconoscere, a forza di ripetizioni. Se un sentiero battuto passa attraverso una pozza di fango, procedi attraverso il fango: camminare intorno ai bordi aumenterebbe le dimensioni della pozza. Scelgo una donna. La prima volta che la noto, non ha nulla da aggiungere. Il tempo passa.


II.

Non è poi così difficile ripetere le cose. A. fa sul serio quello che dice e quello che fa, finge di scherzare e vive la sua vita (a sentire lei indifferen­temente), e ci riesce al cento per cento. Scambiamo i saluti, nient'altro.



III.

Lucidamente aver continuato. Esterno giorno. La trovo che passeggia... lei piace, succede: sa cosa penso. La sua posizione non ha scopi imme­diati, altrimenti un'esperienza. Un'ipotesi. (Nel frattempo ha continuato a camminare...)



Marco Giovenale

Uno

prendere il posto del governo per la coda, otto mesi perché aveva ad­dosso 20 grammi di erba, è dovuta intervenire l'autogrù, non distingue tra civili e marziani, abissale differenza poi con un cacciatore indiano, si presenta tagliato a fettine, circa 130 km, in più di 1 ora e mezza, il reparto maternità è un raggio di gioia, è l'altezza massima che possono raggiungere le piante, signor capitano, non è una gatta: anche a me è capitato un problema simile: non riuscivo ad impostare questi meli da bacca a spalliera, non mi è ancora mai successo di vederne uno in questa situazione, forse millecinquecento metri quadri, una volta o due, quando eravamo già andati a letto, ho dovuto aprire con uno scatto secco: non osare mai più chiamarmi ipocrita, mi avete promesso di usare questo denaro per venire attraverso il software.


0,33 secondi

ciclicità dell'anno, con l'augurio che l'anno nuovo sia questo e questo come si usa e il disegno si fa più ambizioso, mi fece pensare e riflettere parecchio.
bravissimo che vivi a barcellona, hai studiato in Svezia, ti chiami lavinia, stai a bologna, perdi la memoria, sei la nipote più grande, sei felice, sei infelice, sei luisa sanfelice, hai dosato l'impatto dei farmaci, riesci sempre a cavartela, ne combini di cotte e di crude, vedi il film per non perdere lo spazio, in effetti non perdi per questo il contatto con la realtà.



Michele Zaffarano


Partiamo dalla congettura che quel che sta dietro sia meglio di quel che passa attraverso. Che l'atto di lettura nient'altro sia che un consumare, un cancellare quel che è stato in prima scritto, un filtrare nutrimenti che in fine non nutrono, un eterno barcollare da trama a trama, da brama a brama, o da brama a voluttà. E nella voluttà il cervello, la sete di brama lo consuma, il cervelletto, e ripercorre. Sta pure scritto: «Traditur fugam in Oceani longinqua agitavisse». Ed ecco, sull'arteria, e poi all'interno del cranio, senza desiderio. Se questa pulsione a chiudere non è l'inizio, cosa manca alla parola? E dove pausa? Tu vaglia: la vena femorale, le sacche vuotate dal liquido sanguigno, i tessuti dove si allargano, le parti singole dei tessuti, i polpastrelli, dalla scatola cranica fino all'encefalo, a tuo gradimento. La parola si produrrà come fading, non è l'inizio e non è la fine, non si dà a leggere per quel che è, si dice che sembra, che pare, e vuoi dire che l'esser letta, l'esser detti, è incartamento che mai si completa. Ma occorre pur dire qualcosa, qualcosa bisogna che possa ripetersi a che non vi sia più inizio, a che non vi sia più fine. Il fantasma parla: dalla nuca alla fronte, di traverso, da dietro in avanti, da dietro fin dentro i bulbi oculari, da dentro, da destra: è una torsione impossibile del braccio, del polso: è il verso della ragione frontale.


Andrea Raos

1.   Intimorito dal crepuscolo (Due film. Uno).

007. Tomorrow Never Dies, visto oggi, 17 dicembre 1997, primo giorno di uscita nelle sale - almeno qui, in questo paese, in questa città, questo film è diretto da Roger Spottiswoode, che probabilmente firma qui il suo capolavoro, un classico, straziante esempio di anello che non tiene nelle maglie del sistema che al tempo stesso riafferma l'impossibilità di uscire dal sistema stesso.
Spottiswoode è un regista statunitense piuttosto famoso, aveva diretto nel 1983 quello splendido film che è Under/ire, apologo sull'impegno politico e sul ruolo dell'informazione, qui, benché la sceneggiatura non sia sua, egli sembra tornare all'antica ossessione attaccando di petto il sistema malato del giornalismo audiovisivo tramite la solita figura del miliardario pazzo che manipola il mondo via satellite - a questo propo­sito, lo dico per inciso, ricordo in un altro James Bond di molti anni fa un malvagio Klaus Maria Brandauer semplicemente luminoso, assoluto: la nullità degli altri attori, la schifezza del film nel suo complesso lo ren­devano irradiante di una forza magica che non gli ho mai ritrovato in altri lavori di migliore fattura, mai perlomeno con la stessa accecante evidenza (doveva essere, se la memoria non mi inganna, uno degli ultimi con Roger Moore, c'era davvero quest'aria da fine dell'impero), tornando a Spottiswoode, come è naturale il sistema blandamente attac­cato è lo stesso che foraggia il film, il che nella storia, in un certo senso, è detto a chiare lettere.
e c'è un personaggio a dir poco straordinario, in questo Tomorrow: è lo scienziato che offre al pazzo il proprio sostegno tecnologico, un ex­professore di Harvard, contestatario negli Anni Sessanta, che passata l'epoca delle illusioni egalitarie ha deciso di vendere il proprio genio informatico al miglior offerente. [...]

1 commento:

  1. Non mi pronuncio sul testo che ho comprato ma non ho ancora finito di ri-leggere.
    Sulla questione che pone, invece, della poesia e della prosa... non so.
    più che altro parlerei di poesia e non poesia: ovvero, presenza di ritmo o assenza di esso; concentrazione sul significato piuttosto che sul sentire.
    Oppure, meglio, questo:
    http://www.stroboscopio.com/au-sujet-du-cimitiere-marin/2010/07/10/

    Luigi B.

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