La poesia del mondo ed il respiro dell’eterno
Al di là dello specifico stilistico, sul quale torneremo più avanti, ciò che massimamente incanta della scrittura di Matteo Bonsante è il rigore, la tensione intellettiva con cui egli, sin dall’inizio del suo operare, dà voce alla domanda “perché esiste l’essere piuttosto che il nulla”, urgenza in lui anzitutto esistenziale, di uomo la cui meraviglia per il creato diventa immediato riconoscimento dell’impossibilità di composizione unitaria della totalità, consapevolezza di una dismisura che pervade l’intero, che lo costituisce essenzialmente. La percezione di un resto inscritto nel conto tondo, di una ferita angosciosa nel bello e buono dell’esistenza, la verità dell’essere incarnati in un’origine imprendibile costituiscono infatti il fondo inquieto dell’autore sin da Bilico, il suo primo libro, background radicato in una tradizione plurale, incentrata sul pensiero del finito, messo al centro di una costellazione ontologica in cui il particolare è coessenziale all’universale. Gli autori chiamati in causa sono molti; alcuni dei quali esplicitamente: Maistre Eckhart, quando afferma che “L’occhio nel quale io vedo Dio è lo stesso occhio in cui Dio mi vede”, condensato qui nella sequenza della poesia incipitaria “coglierti... e coglierci...”, oltre che in quella dove il frate domenicano sta in epigrafe (“Ti celi e ti riveli / nel mio-tuo stesso sguardo”); Angelus Silesius, col suo “La rosa è senza perché”, a sostenere l’idea che l’ente non ha teleologia bensì bellezza e dissipazione; Rabbi Mendel di Kozk, maestro del lasciar essere la molteplicità nella sua feconda presenza, incontro possibile per l’uomo solo a patto della rinuncia al sapere precostituito, all’arroganza dell’identità impositiva; concetto fra l’altro ribadito nella citazione in cui Nicolò Cusano, anticipando Martin Buber, afferma: “In tanto io sono, in quanto tu sei con me”. Altri ancora sono i suoi compagni di viaggio, avendo Bonsante attinto dal giansenismo di Pascal (“mi sento un labile fruscio, / un leggero soffio”), dal panteismo spinoziano (“il pensiero che contempla se stesso / è parte di Dio. È in Dio”), dall’ontologia heideggeriana della coappartenza uomo-essere, sino al Severino del Nulla come regione dell’Essere (“Dio in sé brucia il nulla”) e al concetto di transfinito (“tra i numeri che non finiscono mai” e “Per compararmi al tuo transfinito / sguardo”), elaborato dal matematico russo George Cantor, già presente in Bilico, ed utile a razionalizzare la metafisica delle dismisure nella teoria scientifica della convivenza di indefiniti infiniti e dell’esistenza di una scala di infiniti diversi. Tutti questi assunti apparentemente paradossali, che si contrappongono alla staticità grossolana dell’Assoluto, visto quale satura pienezza – in favore di un Essere “senza forma / né nome”, “distesa vampa” e “vera” nostra “casa” – vengono distillati da Bonsante in una poesia priva di sbavature, prosciugata per effetto del calore meditativo, disposta nell’alveo di quelle poetiche convinte che la parola sia sorgente carica di verità, linfa di un dio che in essa si strugge, si mostra, si quieta: dall’orfismo all’haiku, dallo Zen al sufismo, dall’ermetismo nostrano all’epigramma. Su questo letto in cui brulicano tante tradizioni, tutte tese a tener viva la matrice scura del nostro essere al mondo, Bonsante innesta la propria radice mediterranea, che Daniele Maria Pegorari, nel più dettagliato studio apparso sinora sull’autore pugliese, identifica nella trasfigurazione “in sinestesie ermetico-surreali” della “matericità del Sud”, “alle quali – scrive sempre lo studioso in Critico e Testimone (Moretti & Vitali, 2009) – non dev’essere estranea la tradizione spagnola”, da García Lorca a Jiménez. Tale innesto è tuttavia, qui, assai misurato, centellinato, mancando il canto d’amore coniugale, carnale e solare, come in Sigizie (1998), e il paesaggio sottraendosi al respiro dell’elegia, per diventare, attraverso segni emblematici (“il ciliegio in fiore”, “la camicetta stesa al sole” accarezzata dalla “brezza”, “il mandorlo e i prati fioriti”) metonimia della primavera
o, in altri passi, della calda estate, semi terrestri in cui traspare e respira l’eterno, vero protagonista di questo libro. L’io, infatti, è pensato quale luogo del rispecchiamento narcisistico, della chiusura, anziché crocevia dell’amore privato e della natura, a meno che l’io stesso, toccato dal bene, non riesca a comprendersi quale elemento imprescindibile (“sprofondare [...] senza perdere / me stesso”) di un eventualizzarsi del vero, che tiene nel proprio abbraccio i divini e i mortali, i senzanome e coloro che sanno spogliarsi del velo di Maya, per inoltrarsi in una “rorida marcia verso l’io / più colmo. / Verso Dio”. Tale acquisizione, mistica nell’intenzione, poetica nella realizzazione, inibisce lo slancio creativo individuale, che – assolutizzato – diverrebbe espressione della vanità, del tentativo di staccarsi ulteriormente dalla via maestra, da quella “luce”
che chiama a casa l’esserci, in esilio da quando ha pronunciato la parola “io”. In questo senso, poetico non è un termine da far coincidere con l’originalità del verso, la quale rimane, appunto, volutamente in sordina, bensì con lo sfocarsi del fenomeno, con il venire meno della distinzione netta fra gli elementi, propria alla descrizione scientifica, in favore di un vicendevole richiamarsi degli stessi, che in Dismisure si fa voce attraverso il cinguettio degli uccelli, il “refolo di vento”, il “brusio delle foglie”, le “piogge / fitte e dense”, canti corali che legano le parti, senza annullarle. Poetico, insomma, è il mondo creaturale, il suo nudo sostare nella presenza che è già sempre eccedenza, dis-locazione, non il gesto volontario del singolo che, modernamente, si stacca da esso, con atto eroico e, dunque, conflittuale; ed è questo il messaggio più innovativo del libro, pregno di non violenza e abbandono al tremore dell’essere, sul quale meditare a lungo prima di tornare nel gelo delle relazioni codificate, misurate col metro dell’utile, cui la civiltà contemporanea ci ha tristemente abituati.
Siamo sulla terra e nella mente
per vincere il senso di dismisura
che da ogni parte cinge.
Slegarci dalla gabbia del nostro
finito esistere e coglierti…
...............................e coglierci…
nel filo d’erba che sbigottisce
al vento.
**
Essere dismisura
è chiaro segno della mia
terrestrità.
Ma porgi il varco
– il lampo sempre rorido
della mente
di compiersi nella tua
parola,
............in te.
**
Impresa impari.
– Dovrei zippare l’intero
universo
in un solo punto di me
stesso
e restare un fioco lume
nell’abbagliante estate
d’essere umana tua
dismisura.
**
Se la parola è il palpito che
mi solleva
fino a poterti sfiorare,
vorrei oltrepassarla per osservarmi
nel tuo essere senza forma
né nome,
in una condizione di dismisura
del mio sguardo.
Ma torno a contorcermi,
a piegarmi, a parlarti,
a essere freccia-parola che
slega in parte
il mio/tuo essere qui,
e altrove.
– Mi turbina la mente.
**
Se questa parte del mondo
dove girano le ore
non fosse intimamente anche
da te abitata,
un bieco squarcio
ci separerebbe.
Ma siamo in te come nel Sole
il giorno.
**
Se mi apparto nel piccolo me
chiamato io, come posso cogliere
Dio che è somma infinità?
E l’alta infinità chiamata Dio
come può rapportarsi al piccolo me?
L’assurdo è solo apparenza
perché – dal basso – le due verità
non sono, ahimè, confrontabili.
Ma si ricompongono se – dall’alto –
si contempla questo nostro mondo.
Esiste il finito perché esiste Dio.
Ed esiste l’infinito perché esisto.
**
La mente – vaso incorporeo,
può accogliere i semi più vili
del mio breve esistere
e liberare dentro di me
le affondanti profondità dell’etere
che solo spazio e buio ha per confine.
E che da sempre aspettano.
– Essere così parte ardente e viva e in
atto del farsi del mondo
“che solo amore e luce ha per confine”.
**
Abbiamo bramato
specchiarci nel tuo crepitante
brusio disseminato di buio
e di astri.
E ti abbiamo scorto,
con il mandorlo e i prati fioriti,
in una fenditura di lacrime.
**
Schiacciato dalla tua diversa
infinità
che mi rende appena esistente,
mi hai dotato del tuo stesso sguardo,
piccolo anch’esso, ma che,
al contatto del vasto
impervio mondo,
si allarga e si spinge nelle tue
braci e risonanze,
e ti coglie nel Grande Istante
che mai si spegne.
Si svetta nella tua incompiuta
pagina.
E si è luce e vessillo.
In un perimetro dinoccolato e fermo.
Ma mi rimani proprio qui, accanto.
**
Non so quale sia l’origine
degli astri, della vita,
................e di me stesso.
So che c’è dell’ebbrezza
al fondo dello spazio buio,
...............e di me stesso.
– Attraversare il senso della terra
e – a mani colme – giungere
all’Altro, la più vera luce.
..................................La divinità.
**
Dolcemente la notte si va
spegnendo. Rincorsa dalla fresca
luce che già punge ad oriente.
Un brivido percorre il riapparire
del giorno.
Mi ergo – sola lama nella ferita
che in ogni dove
esulta.
– Essere al centro di quest’Ora,
come taglio nella carne di Dio,
e sprofondare in essa senza perdere
me stesso.
– Sbucare, con un mazzo di rossi
papaveri
all’altro lato delle Ore.
**
Per compararmi al tuo transfinito
sguardo
e al tuo infinito essere,
potrei specchiarmi nel semplice
sentire
e nel semplice vedere
– senza più un io che sente
– senza più un io che vede.
Il vedere senza fine in te,
senza me stesso.
*
Solo scheggiandomi nel cercarti
senza fine,
potrei echeggiare eternamente
te, in te.
...............– Qui, ora. Sempre.
**
..............In tanto io sono, in quanto tu sei con me
..............Nicolò Cusano
In questo giorno che di sé inonda
tutto il mare e tutta l’estate,
si disgela la tinozza dell’eterno.
Qui, sotto il mio segreto sguardo.
Le cose, al largo, si raccontano in luce
e golfi di luci, vibranti e deliranti.
L’armonia è nell’attimo che, pur brivido,
sembra fermarsi a contemplare.
– Severo diapason della mente
che come treno al palo
osserva, accoglie, registra.
Ed è l’eterno che, uscito in strada da me,
da te… da tutti… qui, ora,
si lascia cogliere nel suo abito di fuoco
del mezzogiorno estivo.
– Ferro rovente del fabbro che batte
sull’incudine. Cuore orfico dell’etere
pulsante in ogni fibra a modellare il cielo
e la terra. Sagace fucina d’un forte narcisistico
specchiarsi. Trasparenza e agio del mondo
liberatosi dalla culla del nulla e
rivelatosi in noi.
E specchiandoci… tutti a bere, anche Dio,
l’intenso fulgore del giorno quando l’anima
e le cose
cantano l’inno-ferita dell’esistenza.
Apologo
la brezza – come mai, passante, ti agiti da mattina a
............sera per le vie del mondo?
passante – sono stato inviato dall’Eterno.
la brezza – e per che fare?
passante – per liberare l’Essere dalla culla del nulla.
la brezza – e poi?
passante – ritornerò all’Eterno, portando in dono
............il senso della terra.
la brezza – amen.
Matteo Bonsante è nato a Polignano a Mare nel 1935. Vive dal 1976 a Bari, dove ha insegnato nella scuola secondaria superiore. Ha pubblicato:
Bilico, poesie, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1986
Ziqqurat, poesie, Centro Stampa 2P, Firenze 1996
Sigizie, poesie, Adriatica Editrice, Bari 1998
Poesie 1954 - 2004 (Bilico, Ziqqurat, Sigizie e le raccolte inedite: Esperidi, Nugelle, Prime poesie), Aliante Edizioni, Polignano a Mare (Bari) 2004
Iridescenze, un diverso possibile sguardo, poesie, Aliante Edizioni 2007
Dismisure, poesie, Manni, 2010
Una linea di fuga, romanzo breve, Adriatica Editrice, Bari 2001
Sperduto, romanzo breve, stampa in proprio, Polignano a Mare (Bari) 2003
Caldarroste, atto unico, Lo Faro Editore, Roma 1981
Dietro la porta, dramma in due atti, Tusculum Frascati 1984
Per solo donna, atto unico, Aliante Edizioni, Polignano a Mare (Bari) 2004
Nn so se la ripetizione, in varie liriche qui proposte, della parola “dismisura” sia, come io vado ad intenderla leggendo, un mantra o una formula apotropaica capace di traghettarci oltre il senso privativo del prefisso dis,
RispondiEliminafatto sta che il suo essere in bilico sul filo dell'astratto, allunga o ritorce a noi quel filo che non può perimetrare l'essere (compreso il nostro essere qui e ora), dato che non si tratta tanto, o non solo, di un “fuori misura”, quanto di un fuori della (portata della) misura.
Allora il gomitolo degli infiniti, trans e in “dismisura” lungo i livelli di filo che si accumulano sull'io che fa da spola, rende, come uno yo yo, il movimento di contrazione – espansione (affondare, sprofondare, vs disseminarsi, squarciarsi vs ricomporsi. Accogliere vs liberare, ecc... solo per dire alcuni che qui sono presenti) che percorre il senso di questi versi, sintetizzato ottimamente qui
“Solo scheggiandomi nel cercarti / senza fine, /potrei echeggiare eternamente”
Questo per dire qualcosa :), perchè la tua prefazione gugl è davvero ok.
ciao!
O.T. : l'ultima puntata di CERCANDO L'ORO DELLA POESIA per Tellusfolio: una puntata unica e speciale, qui (scopri perchè):
RispondiEliminahttp://www.tellusfolio.it/index.php?prec=%2Findex.php&cmd=v&id=11712
garzie Margherita. certo non facile da comprendere il tuo messaggio, ma se ne intuisce òa valenza!
RispondiElimina:) hai ragione! gugl, un casino aggomitolato (ma tu davvero delicato nel dirmelo!) Ritento :)
RispondiEliminaLa parola dismisura è privativa, sottrattiva (contiene fortemente l'idea di un limite conoscitivo: questo non può essere misurato, non puoi misurare) e nello stesso tempo apre ad un illimitato (fuori misura, che è anche, sempre a livello conoscitivo, un dire: fuori portata).
Mi ha molto colpito il suo uso iterato, perché essendo una parola "quasi"
(nel senso del bilico che dicevo nel mio primo intervento)
astratta, mi sarei aspettata che non venisse detta, ma "disegnata" (nn mi viene la parola) da un concreto al contorno.
da qui la mia sensazione, almeno ritmica, di formula apotropaica,
anche di una specie di yo yo (di contrazione-espansione) di senso e di livello (meta, o trans),
l'io come i polmoni- spola nel respiro, nella tessitura.
Tutto qui.
(boh, mi sarò incasinata di più? :))
ciao!
mi correggo,
RispondiEliminanon venisse detta sempre, ma più "disegnata" ancora di quanto non sia.
ciao.
no, ti sei spiegata benissimo.
RispondiEliminaè il concetto che è difficile :-)