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mercoledì 14 luglio 2010

Linguaglossa dice, Lucini risponde: la poesia è ancora praticabile?

Giorgio Linguaglossa

SECONDA LETTERA DI INTENTI
Faccio seguito alla mia Lettera di intenti del 10 luglio 2010 nella quale caldeggiavo:


1) «che ciascuno degli addetti al comparto poesia che scriva su cose di poesia, esterni quello che pensa realmente intorno all’oggetto poesia e non quello che conviene (opportunisticamente) che si dica (per via degli scambi di relazioni e convenienze «politiche»); vorrei appena aggiungere che attendo di conoscere il parere dei vertici delle maggiori istituzioni della poesia italiana, perché la questione è di pubblico interesse e la cosa chiamata poesia è una questione pubblica.


2) In quella sede, sollecitavo le personalità chiamate in giudizio ad esternare il proprio punto di vista. La mia richiesta era rivolta agli intellettuali e ai critici (se così possiamo ancora chiamarli), agli addetti agli uffici stampa delle case editrici.


La ragione è che oggi, in Italia, siamo arrivati ad un «punto» dietro il quale non si può più indietreggiare: la cosa chiamata poesia soffre di una gravissima epidemia che ha invaso un po' tutti i tessuti della istituzione-poesia (e del paese)... una riprova di quello che dico è nel silenzio indistinto e nebuloso dei vertici delle istituzioni letterario-poetiche, nonché nel silenzio (colposo e colpevole) di quei vertici. Il risultato è che siamo immersi in una marea sterminata di mediocrità letterarie che proliferano poeteggiamenti risibili e generalisti, "poesia" piccolo-borghese edulcorata e piastrellata di banalità... di cui l’ultimo esempio di poesia dalle piastrelle colorate è senza dubbio Roma (Guanda, 2010) di Franco Buffoni il quale ormai, privo di ritegno alcuno, pubblica un libro di piastrelle colorate ogni sei mesi, frutto di esibizionismo turistico, autofinzione autobiografica e topografica (Roma?). Siamo ormai arrivati alla discarica letteraria, alla raccolta differenziata dei rifiuti indifferenziati.


3) A questo punto, vorrei qui riprendere e rilanciare la proposta (scandalosa e paradossale) formulata dal poeta Luigi Manzi il quale in data 21 giugno 2010, chiedeva una «moratoria poetica», ovvero, una astensione dalla pubblicazione fino a data da destinarsi, una sorta di «autocensura», «visto che le parole non servono più per argomentare e i tropi letterari vengono usati neppure come artifici retorici ma come farmaci ipnotico-sedativi… bonzi e gonzi convivono in una sciagurata mattanza… in cui si muovono una quantità di furfanti, lenoni, profittatori, dispensatori di indulgenze e… uno stuolo di vittime inconsapevoli… Su di loro – su ingenui e finti ingenui – si fonda la vertiginosa babele sul cui apice nebuloso siedono certi illuminati delle università e delle case editrici…».


Roma, 13 luglio 2010



risposta di Gianmario Lucini



Ribadisco cocciutamente che, nonostante il mio sincero apprezzamento per la statura morale del critico Giorgio Linguaglossa e riconoscendo come sensate e utili gran parte delle questioni che egli pone, NON mi trovo assolutamente d'accordo con questa proposta, per alcuni semplici motivi:

a) non riconosco, come artista, nessuna istituzione al vertice della poesia italiana, casomai una degenerazione di quello che Adorno chiamava "Industria culturale", che di culturale non ha più nulla e forse neppure di industriale (un fai-da-te di bassa lega). Ma evito di leggere proposte che vengano da quella parte, non per manicheismo ma per mancanza di tempo e di interesse;

b) Le "rivoluzioni" non si fanno mai dall'alto: la storia insegni. Dall'alto ci viene solo repressione e se apriamo gli occhi ce ne accorgiamo. Occorre una proposta dal basso. Ne potrei fare, almeno due o tre; e se ci penso un giorno magari anche cento. La potrebbe fare chiunque, ma che partano dal basso, dai critici, dai poeti (specialmente) perché nessuno deve dirci che cosa è o non è poesia, ma soltanto accogliere o rifiutare io nostro personale modo di comunicare. Il lettore ha il compito di leggere, il critico di criticare, l'editore di editare, il distributore di distribuire, il poeta di scrivere. A ognuno il suo. E si può con un minimo di creatività, rompere le balle dal basso perché ognuno faccia il suo lavoro senza invadere il campo altrui. Il problema è che noi siamo così individualisti che NON RIUSCIREMMO MAI ad organizzarci: ci manca l'umiltà necessaria, lo spirito di servizio e la socialità. Ci vuole sempre un'autorità morale o economica che ci dica cosa fare e ci obblighi a suon di ricatti. E in fin dei conti, non è quello che già accade? Re Travicello insegna.

c) La proposta di Manzi io personalmente l'ho praticata per 10 anni. Non certo per sdegnoso diniego, ma per evitare di farmi sfruttare da questo giro squallido. Ho almeno 5 raccolte nel cassetto, nelle quali credo, oltre agli infiniti versi da macerare. Se Buffoni, come dice Giorgio, si sputtana, peggio per lui (io non l'ho letto: è da anni che non acquisto più un libro perché ne sono sommerso. Figuriamoci se, da critico, devo anche acquistare le opere da criticare... gratis: alla malora!). Anzi, chiederò che mi mandino file PDF: se il libro mi piace lo acquisterò. La proposta di Manzi è tagliarsi le palle per far dispetto alla moglie e, virilità o altro a parte, mi sembra una sciocchezza. Se un poeta non comunica non ha motivo per scrivere. La proposta di Manzi è il nulla invece del Caos. Dal nulla non nasce nulla, ma dal caos può venire qualcosa, se si usa intelligenza e apertura mentale - e il coraggio di lavorare insieme, come qui si sta facendo con queste mail, ad esempio, senza sentirsi i primi della classe.

Infine, io NON sono d'accordo che la poesia italiana vada male e addirittura si parli di punto di non-ritorno. Ho visto molti ottimi libri, in questi ultimi anni. E' vero, due o tre all'anno, non di più. Poi tanti libri buoni ma non eccellenti, e moltissimi libri mediocri e da non scrivere ("borghesi", appunto). D'altra parte, se ai tempi di Picasso avessero dipinto solo Picasso e Cézanne, non sono poi tanto sicuro che saremmo più colti e più raffinati nei gusti estetici. Anche il ciarpame ha un suo ruolo, e anche l'intelligenza critica che lo nota e lo smaschera. Bene, se riusciamo a produrre ogni anno tre libri di poesia che sia poesia, noi saremmo un popolo civile. Il ciarpame è per il giro dei gonzi? OK, che si strafacciano di questo ciarpame sui mass media o dove credono meglio strafarsi. Ma non possiamo pretendere di redimere la gonzità. Additarla, distanziarla, distinguersi dal coro di ranocchie, ecco, questo si può tentare. E anche rompere le scatole e provocare con furbizia e intelligenza: io ci sto. Ma la libertà è sacra, anche quella dei gonzi di essere gonzi e felici. Amen.

Abbracci a tutti

12 commenti:

  1. Ecco, appunto. Chissà se a settembre i termini della discussione cambieranno :)

    Luigi

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  2. non credo, però potrebbero allargarsi.

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  3. Caro GianMario, la tua proposta è compklessa, a dispetti di quello che dici e mi riservo di leggerla più ciorcostanziatamente in un'ora del giorni meno gravata dal sonno e da qualche bevuta in compagnia. Tendenzialmente non ho obiezioni e sarei disponibile a provarci anche se essa mi sembra ricalcare idee già avanzate in altri momento e puntualmente andate in fumo; ma si può ritentare. però, ripeto: voglio dedicare maggore attenzione al tutto.

    Non capisco invece la tua risposta alla mia proposta. Se gli autori la smettessero di pubblicare a qualsiasi condizione sarebbe un passo molto significativo: quanto meno ridurrebbe il peso degli affaristi. Comunque esprimevo un convincimento personale che si traduce in prassi e avrei dovito dirlo. Tu dici: come fare a impedirlo? Ti rispondo: certo che non si può impedire ma a furia di pensare che prima di proporre qualcosa devo pensare se la mia proposta impedisce qualcosa a qualcuno si finisce con il proporre nulla.

    Allora cerco di mettere le cose sul binario giusto. Io non pubblico a pagamento. Se un editore non può sostenere il rischio di esserlo non lo faccia. Pubblicai a pagamento il mio primo libro sollecitato a farlo da un noto poeta milanese che mi disse che era prassi normale. ero dubbioso, ma alla fine mi adeguai perchè lo ritenevo autorevole. Poi ho capito molte cose, forse anche che ci sono noti poeti che hanno il compiuto di convogliare autori a pagamento nei canali appropriati in cambio di una pubblicazione gratuita dei loro libri. Da allora ho sempre rifiutato di pubblicare a pagamento e ho scoperto che sono in molti a non crederci e anzi qualcuno è stato molto aspro quando l'ho detto: però è così.

    Quello che dici tu sulla distinzione fra business e costi vivi di edizioni ed editing sarebbe in teoria accettabile, ma si tratta di un principio del tutto astratto in una società capitalistica, che è tale anche nella produzione di libri e non solo di utensili di altro tipo.

    Buona notte. Franco

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  4. Franco carissimo, la mio ragionamernto era questo: SICCOME siamo una specie di armata Brancaleone (parlo dei poeti) far girare la parola d'ordine "non pubblicare a pagamento" significa che alcuni (magari i migliori?) non pubblicheranno e altri (magari i mediocri, i narcisi, in rampanti pieni di sé che non leggono nulla degli altri e non sanno neppure chi fosse Dante o Omero?) quelli comunque continuano a pubblicare. Il risultato è che non emergerebbe una "protesta", perché non organizzata, mentre continuerebbe ad imperversare il peggio, sempre di più...
    Lo stesso per l'editoria a pagamento. Un libro di 80 pagine, a stampa, con carta decorosa (non di lusso), in 500 copie, oggi oscilla a costi vivi da 750 a 1200 €, più o meno. Mettici il costo della cura (un autore NON può curare 40 o 50 libri all'anno... se no sclera), della lettura a un comitato di redazione (se vuoi essere serio ed evitare abbagli sempre in agguato), metti le spese (oggi esose e piratesche) postali, metti che una trentina/cinquantina di copie le mandi ai critici (che giustamente non devono pagarlo...) metti la distribuzione, metti quello che devi mettere, il prezzo quasi raddoppia. Chi può rischiare 100.000 € all'anno per un giro editoriale decente di poesia (50 / 60 titoli)? I soliti noti. Quelli ai quali contestiamo la pessima editoria. No grazie. Preferisco uno che mi dice: tu paghi 1200, magari in un anno o due per agevolarti, io ti do' "n" copie, ti mando i libri alla critica, alle librerie, su Internet, dove vuoi, e ti riconosco una percentuale del 15 / 20% sul titolo, che ti fa rientrare dalla spese e quindi pubblicare gratis. Personalmente non avrei problemi a pubblicare con uno così. Ma neanche un briciolo. Certo, ci guadagna, ma se deve sopravvivere deve guadagnare: mica è Teresa di Calcutta, l'Editore: ha famiglia, deve vivere, fa un servizio importante se lo fa bene. Io rischio 1000 € ma se lui non vende, anche se non rischia 100.000 € lavora gratis... e chi lo fa? Dunque: so che lui DEVE vendere, altrimenti, spese o non spese, fallisce comunque. Come Autore, questo cerco, che lui venda, perché il mio obiettivo è comunicare, farmi leggere, non che mi stampi gratis (certo, se lo fa, sarebbe meglio, ma così non mi pare disonesto il discorso...).
    Questo è il mio pounto di vista.
    Salutissimi

    RispondiElimina
  5. Franco carissimo, la mio ragionamernto era questo: SICCOME siamo una specie di armata Brancaleone (parlo dei poeti) far girare la parola d'ordine "non pubblicare a pagamento" significa che alcuni (magari i migliori?) non pubblicheranno e altri (magari i mediocri, i narcisi, in rampanti pieni di sé che non leggono nulla degli altri e non sanno neppure chi fosse Dante o Omero?) quelli comunque continuano a pubblicare. Il risultato è che non emergerebbe una "protesta", perché non organizzata, mentre continuerebbe ad imperversare il peggio, sempre di più...
    Lo stesso per l'editoria a pagamento. Un libro di 80 pagine, a stampa, con carta decorosa (non di lusso), in 500 copie, oggi oscilla a costi vivi da 750 a 1200 €, più o meno. Mettici il costo della cura (un autore NON può curare 40 o 50 libri all'anno... se no sclera), della lettura a un comitato di redazione (se vuoi essere serio ed evitare abbagli sempre in agguato), metti le spese (oggi esose e piratesche) postali, metti che una trentina/cinquantina di copie le mandi ai critici (che giustamente non devono pagarlo...) metti la distribuzione, metti quello che devi mettere, il prezzo quasi raddoppia. Chi può rischiare 100.000 € all'anno per un giro editoriale decente di poesia (50 / 60 titoli)? I soliti noti. Quelli ai quali contestiamo la pessima editoria. No grazie. Preferisco uno che mi dice: tu paghi 1200, magari in un anno o due per agevolarti, io ti do' "n" copie, ti mando i libri alla critica, alle librerie, su Internet, dove vuoi, e ti riconosco una percentuale del 15 / 20% sul titolo, che ti fa rientrare dalla spese e quindi pubblicare gratis. Personalmente non avrei problemi a pubblicare con uno così. Ma neanche un briciolo. Certo, ci guadagna, ma se deve sopravvivere deve guadagnare: mica è Teresa di Calcutta, l'Editore: ha famiglia, deve vivere, fa un servizio importante se lo fa bene. Io rischio 1000 € ma se lui non vende, anche se non rischia 100.000 € lavora gratis... e chi lo fa? Dunque: so che lui DEVE vendere, altrimenti, spese o non spese, fallisce comunque. Come Autore, questo cerco, che lui venda, perché il mio obiettivo è comunicare, farmi leggere, non che mi stampi gratis (certo, se lo fa, sarebbe meglio, ma così non mi pare disonesto il discorso...).
    Questo è il mio pounto di vista.
    Salutissimi

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  6. Luigi Manzi19/7/10 10:42

    Caro Giorgio,
    nell’articolo Una lingua superstite eri pronto a scommettere che: “ fra trenta fatidici anni il Sacro Capitalistico Impero, con la sua eterna Arcadia, la sua clericatura, con i suoi paggi e i suoi riti, sarà sempre lì. Ineffabile ed eterno”.
    Io non sarei così ottimista. Dino Campana, nel 1906, a proposito di alcuni articoli apparsi su La riviera ligure, scriveva: “oggi in poesia ci sono troppi rospi e troppi anfibi”. E Mario Novaro gli rispondeva in questi termini: “ La riviera fa quello che può – ma io non so come occupare le mie poche pagine con tutta roba buona, e i rospi e gli anfibi e i paysans, qualcuno o per un verso o per un altro bisogna tollerarli fino almeno che non si possano cacciar tutti. Ciarlataneria, idiota volgarità (che non è punto conosciuta per tale) sciatteria indolente e impotente hanno campo. Amen. Aspettiamo un po’ di sincerità vera congiunta a finezza.”
    Come vedi arriviamo almeno con un secolo di ritardo. A pensarci bene, la vera, eterna questione è se schierarsi con Dino Campana oppure con Mario Novaro. Nel dibattito e nelle polemiche che si sono aperte con la pubblicazione del tuo La nuova poesia modernista italiana (1980-2010) vengono riproposte sostanzialmente le ali estreme contenute in questo scambio epistolare.
    In quella stessa lettera di Campana, non a caso, si trova anche una espressione (io più centrale) che porta, dritta dritta, alla questione etica/estetica della poesia italiana (attuale).
    Campana lascia intendere che, quando si deve esprimere un giudizio critico su un autore, bisogna esplorarne la parte più profonda: fiutarlo e pedinarlo fino alle scaturigini della sua scrittura e del suo atteggiamento di fronte alla pagina bianca. Verificarne insomma, senza ricorrere a grandi apparati sovrastrutturali, la fedeltà a quel patto d’onore che garantisce al lettore la limpidezza e la genuinità del testo. Alla base di questo patto sta l’onestà intellettuale di chi scrive. Certo, con Dino Campana siamo ai reperti della critica vetero-romantica con tutti i suoi lati deboli, la sua intrinseca pericolosità e fallacia relativistica. Tanto è vero che, molti dei giudizi che vengono da lui, alla fine non hanno resistito alla corrosione del tempo. Però il criterio che ci propone ci fa riflettere meglio su la temperie culturale (e politica) che viviamo.
    Se accettiamo la suggestione campaniana, l’esplanazione preliminare dell’io più centrale dello scrittore dovrebbe costituire una sorta di a priori - un elemento pre-critico - che può indurre al ri-fiuto immediato di un libro (da leggere o da pubblicare). Ciò andrebbe praticato da ognuno di noi, fino alla utopistica rinuncia con un atto di autocensura. Se riuscissimo a farlo, avremmo alleggerito la piccola editoria di molta della morchia che l’assedia e sopra la quale spesso galleggia complicemente per motivi economici. In caso contrario ci consegneremmo alla “classe elevata” dei critici, con mandato ampio e definitivo. Sarebbe un po’come affidare a delle agenzie di rating tutto quanto viene prodotto in poesia. Forse è proprio da questa rinuncia e da questa espropriazione che nascono le inquietudini che ci sorprendono davanti a un’opera moderna. So che sto aderendo a una sorta di agostinismo (o di zen letterario), ma io non riesco a farti un’ offerta migliore per sottoscrivere quella che tu chiami, con un termine un po’ curiale, lettera di intenti.

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  7. Luigi Manzi19/7/10 10:43

    Penso che i poeti scrivano in larga parte con la fronte, ma anche con la nuca. Il lettore, mentre legge, attiva più o meno consciamente l’una e l’altro porzione del proprio cervello: legge cioè negli interstizi della scrittura e percepisce il significato degli atti mancati. Se quindi il poeta fa ricorso a artifizi ingannevoli, alla fine diffonderà veleni: che verranno assorbiti con la lettura e verranno riemessi con la scrittura. Da qui la sua responsabilità morale prima che estetica. La visione che ti propongo, della poesia riletta attraverso Dino Campana, è romantica, retorica e sorpassata? Potrebbe esserlo - e sicuramente lo è - però io non riesco a rinunciarci. D’altra parte, quando tu parli di insincerità di un autore o di furia scritturale o di atteggiamento minimalistico, non esprimi in fondo un tuo giudizio morale? Non lo bracchi fino al suo più nascosto io più centrale?
    Il ragionamento provocatorio che ti ho espresso presenta un craquelage pessimistico che mi fa trovare d’accordo con quelli dei tuoi interlocutori che ritengono più utile darwinisticamente la pars destruens (da pesce piranha) della critica letteraria; senza doversi arrabattare ad enucleare nomi alternativi, spesso poco luminosi (a proposito, Sebastiano Vassalli ci dice che nasce un Poeta a ogni passaggio di cometa). Insomma, botte senza plausi: per mettere sul chi va là chiunque intendesse pubblicare: fino a mostrarne le più oscene nudità. Altro che democratica tolleranza! Se pensi per un attimo a Alfonso Berardinelli e a Giorgio Manacorda (più al secondo che al primo), vedrai quanto hanno ragione i tuoi interlocutori.
    La proposta della moratoria poetica servirebbe a evitarti la bella fatica di leggere centinaia (?) di libri l’anno. Immagina un po’ come ti troveresti ad agio in quel deserto refrigerante. Purtroppo sono proprio i poeti del cassetto (quella torma indistinta e importuna che assedia gli editori con raccolte piene di scempiaggini da conservate in un bestiario/prontuario) a costituire una vera e propria barriera che impedisce l’assalto al bucintoro dei dogi paludati: perchè per loro rappresentano la gerarchia di riferimento e la ragione di esistenza.
    Così oggi tantissimi poeti laureati possono circolare liberamente e dare per scontato il loro stato di edenica innocenza. Sculettano per lasciare intendere, a ingenui e finti ingenui, che si nutrono del panis angelicus, mascherando con rituali e messinscene il do-ut-des al quale tu hai accennato. Poi magari li ritrovi a compulsarsi a pagamento per una prefazione a un autore, per lo più giovane, del quale provano il voltastomaco. Ne ho conosciuti, caro Giorgio, da far orrore persino a Mamma Ebe. Per non parlare poi di certe associazioni culturali e di premi letterari finalmente affiorati all’opinione pubblica che hanno usufruito di danaro pubblico, salvo poi sembra a utilizzarlo per fini privati attraverso parentele e amicizie, alla barba dei bilanci e degli apparati burocratici di salvaguardia.
    Prendi queste mie osservazioni disorganiche come estemporaneità durante una conversazione amicale, e nulla più: con i pregi e i difetti di chi, documenti alla mano, può soltanto venirti in soccorso con l’esperienza maturata durante una lunga battaglia di rigore non ancora conclusa: e che perciò arriva già logorato agli assalti che tu proponi a tutti noi con entusiasmo e assoluta onestà.
    Scusa per il ritardo con il quale rispondo alle tue sollecitazioni, ma i miei tempi non riescono a stare al passo con la velocità impulsiva delle polemiche. Anche perchè la stagione torrida e le pre-ferie accumulano i miei impegni professionali fra operai e ponteggi. Ciao, Luigi

    P.S. Perché Vittorio Bodini è ormai quasi dimenticato (eccettuata qualche pubblicazione di Besa) e non ha mai trovato aperture critiche più attente? A me sembra che soprattutto da lui, per quanto imperfette, sono venute le indicazioni stilistiche più efficaci per la sprovincializzazione della poesia italiana.

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  8. Maurizio Soldini26/7/10 11:07

    Entro in punta di piedi nella querelle aperta dalla pubblicazione del libro di Giorgio Linguaglossa “La Nuova Poesia Modernista Italiana” per Edilet, che ho letto attentamente e che ho apprezzato, come mi capita di fare con la maggior parte dei libri con i quali entro in contatto. Sulla condivisione o meno di tutto o parte di quello che leggo è un altro discorso. E in questo caso non voglio addentrarmi nel merito. Resta un fatto, che Giorgio Linguaglossa ha sollevato numerosi problemi e questo gli torna ad onore. Anche se va detto che i problemi sollevati si sono amplificati attraverso i numerosi interventi che si sono succeduti soprattutto in seguito alla lettera di intenti. Mi sembra di scorgere tra l’altro una deriva (pericolosa) che spesso fa sì che si tralasci il metodo e il linguaggio della critica e ancor di più la poesia sic et simpliciter per assumere l’abito della polemica in un orizzonte di sociologia letteraria con spunti di economia che saranno anche interessanti, ma che sinceramente lascerei a chi si occupa di sociologia, economia, etica.
    Giorgio Linguaglossa nella lettera d’intenti afferma in modo perentorio che “ciascuno degli addetti al comparto della poesia che scriva su cose di poesia, esterni quello che pensa realmente intorno all'oggetto poesia e non quello che conviene (opportunisticamente) che si dica (per via degli scambi di relazioni e convenienze "politiche")”. E conclude con l’auspicio che “ciascuno degli addetti al comparto poesia si assuma le proprie responsabilità”.
    L’intento sarebbe soprattutto di natura morale, visto il richiamo conclusivo alla responsabilità: aderenza alla verità (la propria) riguardo l’oggetto poesia che andrebbe esternata con convinzione e portata avanti con coerenza senza nessuno scopo di natura utilititaristica. Ma qui ci troviamo subito davanti ad un’aporia dal momento che la coerenza è tipicamente pragmatica e quindi ha a che fare con lo scopo, con l’utile. Quale potrebbe essere allora la possibilità di uscita da questa aporia? Se la poesia è oggetto, l’oggetto cade sotto la possibilità di un’analisi scientifica, come tutti gli oggetti, e si finirebbe così davanti ad un orizzonte positivistico che mirerebbe all’universalizzazione generalizzante, al modo della legge scientifica, escludendo in tal modo le forti valenze delle differenze. A caldo non mi sembrerebbe percorribile neppure questa strada. E allora? Sinceramente non saprei. L’unica cosa che mi viene in mente è quella di cercare di spostare lo sguardo dal mondo moderno, che ci ha imbevuti di scienza fino a portarci al bivio o del pragmatismo utilitarista o della gnoseologia e della deontologia kantiana, nel tentativo di sussumere nuovamente una mentalità pratica (mi rifaccio ovviamente alla praxis aristotelica recuperata e riabilitata da Gadamer e dall’Ermeneutica).

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  9. Maurizio Soldini26/7/10 11:08

    Brevemente, proprio sul filo di quanto appena detto, mi viene da pensare e da dire che la poesia non può essere assimilata ad un oggetto. E comunque, anche quando sia sussunta come oggetto, questo può essere visto solo come dato finalizzato agli studi filologici e comunque accademici. Tutti sappiamo che la poesia è ben altro che accademia.
    Ritengo che la poesia si nutra di intelligenza solo per incidenza accidentalmente, mentre abbia molto a che fare, sostanzialmente, con la percezione sensibile che muove le corde e fa vibrare i precordi. Insomma, se vogliamo usare le categorie scientifiche e in modo grossolano, senza arrivare alle recenti acquisizioni delle neuroscienze cognitive riguardanti i neuroni a specchio, possiamo affermare che la poesia trova recezione nell’emisfero cerebrale di destra piuttosto che in quello di sinistra.
    Insomma che la poesia sia minimalista o no, che la parola voli alta o bassa, questo lo sappiamo tutti per esperienza di lettori e fruitori della poesia (e talora di scrittori di versi), che può piacerci o meno, che può emozionarci o lasciarci indifferenti. Del resto anche grandi poeti (grandi perché riconosciuti tali dalla sensibilità e dal plauso dei più) hanno avuto momenti di minimalismo poetico e nonostante tutto sono rimasti grandi. Pensiamo a Montale e alla sua Satura. E sicuramente ci sarà chi si ri-specchia di più negli Ossi piuttosto che in Satura e viceversa. E il canone continuerà ad essere indecicibile.
    Che la poesia oggi si muova da una visione e da un orizzonte ontici a una Weltanschauung ontologica è un fatto. Bisognerebbe avere il coraggio di accettare entrambe le posizioni, perché queste posizioni fanno parte del gioco (non solo linguistico) della vita e delle persone, ma anche (per via indiretta) dei poeti (del loro Erlebnis) e pertanto della poesia.
    Per concludere, mi auguro che, pur ritenendo che la critica abbia un ruolo molto importante, così come la sociologia e l’etica della letteratura, si tra-lasci la deriva meta-poetica per poter approdare alla poesia. Il nostro mondo è per-vaso di scienza e di analisi, le filosofie analitiche imperversano, il meta, ovvero il parlare analiticamente sopra, sembra oggi essere lo sport preferito a tutti i livelli. La meta-poesia sarà pure importante, ma io mi accontento di continuare a fruire del canto, della parola, che si esprime attraverso la poesia e mi offre l’occorrenza di comprendere piuttosto che di capire.
    Mi ritrovo pertanto a mio agio con le parole di Giuseppe Conte, che recentemente in un suo intervento (http://www.ilgiornale.it/cultura/cortellessaco_galli_litigiosi_pollaio_nichilista/21-07-2010/articolo-id=462362-page=0-comments=1 ) ha affermato che “questo ribollire di faide, scontri, insulti, abiure, condanne, mi ha sempre fatto più ridere che indignare”. Sempre Giuseppe Conte dice: “Tutte queste risse, così enfatizzate dai media, sono sussulti di irrealtà, dimostrazioni che il letterato italiano mediamente è rimasto quello di sempre, un narcisistico, ipertrofico servo del potere, votato alla chiacchiera, all’irrilevanza e al vuoto spirituale. La letteratura e la poesia sono un’altra cosa”.
    E l’auspicio è che si agisca per fare in modo che la letteratura e la poesia siano.
    Maurizio Soldini
    Roma, 26 luglio 2010

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  10. Seguo, ora che ho tempo, gli sviluppi delle provocazioni di Giorgio, che a volte sono un proseguo di risposta e di discussione, a volte sembrano aver provocato, nel sentimento di chi interviene, una rapida ri-considerazione sul proprio scrivere, in senso anche fortemente etico. E mi fa piacere.
    E io stesso provocato dai due ultimi interventi, vorrei avanzare alcune ipotesi o punti di vista. Se mettiamo da parte la sociologia della letteratura (comunque a mio avviso molto utile e non da sottovalutare neppure per chi si occupa della propria poesia e basta), vorrei cercare un punto di condivisione su una ipotesi riguardo all’ontologia della poesia. Maurizio Soldini non arriva (o forse ho letto male) a una conclusione logica delle sue riflessioni: che la poesia è l’essere umano tout court, la poesia ha a che fare con l’ontologia, non tanto col linguaggio, che è una forma espressiva come tante altre (musica, immagine, ecc.). Quando parlo di poesia intendo questo e intendo che le “arti”, tutte, sono lo strumento di comunicazione dell’ontos poetico, dell’essere umano.
    In un altro passaggio Soldini sottolinea che “anche” il minimalismo che è una forma di poesia – se è poesia. E anche Antonella Zagaroli in qualche modo lo dice. Così come autentica poesia si trova nelle opere di ogni poeta avanguardista o anche dei poeti che meno amo, come D’Annunzio. Casomai bisogna vedere in che densità la si trova, questa “autentica” poesia, ma questo è un altro aspetto, ed ha a che fare con quanta forza di verità emerge, dentro uno scritto di poesia, l’essere che scrive. Peraltro, un barlume di persona lo si trova negli scritti di ogni autore (non in ogni poesia, forse) anche nei più vuoti. Il problema è l’autenticità, ossia della corrispondenza di verità fra lo/la scrivente della poesia (ossia dell’essere umano) e quello che viene espresso nella forma, nel linguaggio Ed è qui allora che entra in scena il linguaggio e dunque entra in scena una relazione con la cultura (i poeti e uomini/donne prima di noi, i contemporanei, quelli che verranno – si spera...) col lettore, con se stessi. Ed è indubbio che la relazione col linguaggio (della poesia prima di noi) in qualche modo influenza il linguaggio della nostra poesia – la “tabula rasa” dei futuristi è una patetica illusione... Una relazione di incontro/scontro, amore/disincanto, apprendimento /critica. Critica, appunto, perché critici lo siamo tutti, in qualche modo (se il cervello gira) così come tutti siamo poeti (tutti). Ed è a questo punto che entra in scena anche il gioco linguistico che ogni poeta adotta per la propria scrittura, insomma, l’estetica, che è sempre un fatto soggettivo – come l’etica – ma anche sociale – come l’etica, ancora.

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  11. Se questo ragionamento può essere condiviso, allora la conseguenza è che ogni forma d’arte, a rigore, è incriticabile nel suo codice espressivo (lingua, tecnica, suono, ecc.) se non a partire dalle sue stesse regole (dal suo gioco linguistico): il compito del critico è di cercare di rendere manifeste queste regole interne, quello del lettore di giudicarle dal punto di vista estetico e sociale (mi piace, non mi piace). Non possiamo dire che un sonetto è “sbagliato” se la forma è corretta: potremmo dire che il linguaggio usato è vetusto e logoro, arcaico, vezzoso, ecc., ma non “sbagliato”. Se noi criticassimo la musica anche solo di un fine-ottocento come Débussy con i criteri dell’armonia e del contrappunto usati da Bach, la troveremmo piena di errori: bisogna usare la scala elaborata da Debussy, per criticarla nella forma, mentre il poeta che c’è dietro lo si capisce al volo. Ovvio che ognuno è critico e ognuno è lettore: si tratta solo di sapere che abito mentale si sta vestendo, che cosa si sta facendo.
    In non poche occasioni mi sono trovato ad apprezzare questa coerenza nella scrittura, anche se il linguaggio non mi piaceva e va da sé che in quei casi dovevo rendere merito all’autore della sua coerenza stilistica. In non pochi casi però questi meriti linguistici passavano in secondo ordine rispetto allo spessore dell’opera d’arte e cioè al portato di stimolo e di sollecitazione rivolto al profondo, all’inconscio, alla sfera del senso e della creatività. Se manca questo, tutti i linguaggi più belli e perfetti diventano una insopportabile noia, giochini di parole fine a se stessi come dice Antonella – che però magari in un contesto più ampio e in un gioco di rimandi interni in una raccolta possono anche acquisire, improvvisamente, significati inediti e non veduti in prima lettura. Così come la musica di Débussy, dopo un primo attimo di smarrimento causato dall’impatto con le regole armoniche che lui usa, ci comunica un messaggio – eccome!
    Quando manca questa parte, dello “spessore”, riconoscerò l’abilità di mestiere ma non posso riconoscere la dignità artistica. Se prepondera la forma e tutto il gioco si basa esclusivamente su di essa (troppi ahimè, poeti di Mondadori Einaudi e quant’altro... a ovviamente anche dei piccoli editori) allora non è corretto parlare di poesia, così come, grossomodo, si parla di “artisti” per i pittori che esprimono questa loro poesia, e di “artigiani” per gli abili decoratori. Si potrà parlare di dignitosi esercizi di poesia, utilissimi come sono utilissimi gli esercizi di Czerny e di Cramer per uno che studia pianoforte. Anche il decoratore magari può esternare dei tratti di ispirazione, ma sempre decoratore resta, perché il risultato del suo gioco non è comunicazione di qualcuno (di una essenza di una ontologia) ma la ripetizione di qualcosa, una reiterazione di schemi alla moda. Così, nelle poesie dove non esce fuori l’uomo (la donna) che scrive, nell’irripetibilità della sua essenza, non c’è nulla di sapido non c’è caldo né freddo (biblicamente) o, se c’è, passa in secondo piano rispetto alla funzionalità di quei versi (gratifica del narciso, captatio benevolentiae rispetto a una tendenza letteraria, ecc.). Meglio una poesia brutta ma vera a una bella ma insipida e mascherata (non certo consciamente, o forse anche, ma il risultato non cambia).
    Orbene, se noi lasciamo da parte i nostri costrutti, gli schemi, tutto, e ci mettiamo a leggere un volume di poesia, capiamo subito, con pochissimi versi, i toni in falsetto, le verità glissate o taciute, la maschera che l’autore si mette o si leva, le protezioni che opportunamente o importunamente il suo narciso gli fa adottare: la “fragilità”, insomma, della poesia che manca dietro le parole o viene trattenuta o viene sacrificate ad altre istanze. Capiamo anche se non riesce a esprimersi fino in fondo, perché non è ancora il giusto momento, che si presume arriverà, col tempo.

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  12. La mancanza di spessore capita perché uno si mette a scrivere senza pensare non tanto a quello che vuole dire ma al perché si mette a scrivere; e perché non elabora una sua poetica mentre scrive. Da anni mi faccio questa domanda e non so trovare una risposta definitiva, ma so che è la sola domanda che orienta il mio scrivere, in senso, se vogliamo, anche etico.
    Ed è vero quello che dice Antonella: tu non puoi scrivere se non sei in comunicazione con te stesso, ma sei distratto da mille “variabili parassite”, compreso il desiderio di emergere e foscolianamente passare ai posteri (boh!), o magari fustigare i costumi o combattere una battaglia sociale o politica: la poesia sociale deve venire non dall’ideologico e neppure dall’ideale etico, ma da un porsi da poeta di fronte alla realtà, reagendo nella forma che ti riesce di reagire, dal profondo di un sentire umano. Se uno scrive e non comunica con la sua verità interiore, con il se stesso, non dice nulla, ma si limita a ripetere il mondo senza esserci dentro. Or dunque, anche la speme ultima dea lasci il poeta, se davvero vuole scrivere la sua verità, perché è pacifico che nessuno di noi è indispensabile alla letteratura italiana, anche se forse siamo di qualche utilità. La frustrazione per il marcio che c’è nella vicenda letteraria contemporanea la si fa, credo meglio, cercando di scrivere poesia vera e degna, non tanto meta-comunicando sulla comunicazione poetica.

    Ora, tornando alle nostre questioni, io trovo che l’enfasi di una critica centrata sul linguaggio è dannosa alla poesia. E’ giusto trattare l’argomento, ma non si fa del bene alla poesia cercando di capire se uno è poeta o no basandosi principalmente sulla critica del linguaggio. Quale linguaggio per la poesia futura? Francamente non me ne importa quanto il due di cuori quando la briscola è danari. In seconda battuta forse sì, ossia quando ho individuato se uno davvero dice poesia o dice il niente – ovvio che se dice sciattamente una poesia vera... ma non è facile, credo, dire male una poesia vera. Se individuo un poeta vero, in comunicazione con se stesso, anche il problema del linguaggio non si pone più: ne sono convinto. A mio avviso il critico dovrebbe allungare l’occhio in questa direzione e spendersi in considerazioni rispetto a questo orizzonte, che è di comunicazione e di senso. Anche la poesia del quotidiano, del minimale, persino del banale e dell’impoetico può essere poesia “vera”, SE dietro emerge la persona che scrive, unica e irripetibile, e non un cervello-computer che elabora frasi decorative. Anche uno spazzolino da toilette può suscitare vera poesia, persino lirica. Anche la cronaca può ispirare vera poesia, o la mafia, la politica più o meno mafiosa, l’economia, la cronaca nera... tutto ciò che può suggerire un’epica, un modo di essere di questo nostro tempo dentro le ere: il poeta, l’artista, è il veicolo per trasportare l’umano da un’era all’altra.

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