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mercoledì 24 marzo 2010

Roberta Bertozzi



Uno dei vantaggi di una recensione in rete è per esempio questo: con i links adeguati si costruisce un tessuto altrimenti impossibile, un discorso corale, plurale, da focalizzare sempre meglio in futuro, così che ciascuno concentri l'analisi su di un aspetto dei testo, evitando inutili ripetizioni. A proposito de Gli enervati di Jumièges (peQuod, 2007) di Roberta Bertozzi, libro organizzato in 18 sequenze straordinariamente ricche d'invenzioni, registri, toni eppure ostinate nel proporre la deriva quale struttura fissa del discorso, questa premessa è necessaria. Anche perché si è scritto bene intorno a questo libro, dentro la sua marea. A partire da quanto ne dice Pasquale di Palmo nella postfazione, ma soprattutto dall'analisi di Vanessa Sorrentino, la quale, dopo averci detto che il titolo riprende un dipinto di Evariste Vital Luminais "che raffigura due giovani distesi su una barca con i piedi e le caviglie fasciate [...] e lasciati alla deriva su una zattera lungo la Senna" in seguito alla bruciatura dei tendini inflitte dal loro padre vendicativo, ne indica con precisione in nucleo originario: "Ne Gli enervati si afferma l’impossibilità del parricidio, il superamento del complesso edipico è negato fin dall’inizio. Impedendo a se stesso ogni possibilità di continuare nella carne dei suoi figli, il padre inesorabilmente sgombera il campo da qualsiasi relazione d’amore con loro". Un nucleo, invero, che emerge volutamente solo a tratti, avendo nel contempo la scrittura da raccontare un altro viaggio: il travaglio della parola quando attraversa i crocicchi del possibile, là dove ogni segno lega potenzialmente con una serie indefinita di altri, convocati per vie subacque, secondo tensioni che snervano appena emerse o che divergono per ripartire vigorose, prendendo "il bivio dallo stesso / collo d'utero". Così come i gemelli, sul letto-tomba sciovolante "adagio" verso il nulla, non nascono alla polis, non diventano arché della stessa per volontà vendicativa dell'antiedipo che s'impossessa del padre, allo stesso modo la lingua della Bertozzi scivola nell'amnio di un paesaggio in fieri, imbozzolato nel grembo dell'immaginazione, non trovando l'approdo nella forma definita, rotonda, proprio per sopravvenuta disintegrazione del senso unitario, maceria reale che violentemente soffoca qualsiasi tentativo di erigere credibili mondi alternativi. La lingua infante rantola perciò sui proprio dolori sintagmatici, fattisi carne per conversione transustanziale, indugiando sul piacere sadico che le procura l'esser viva malgrado lo stacco dall'origine, quel madre-padre autoritario, che esige la continuità del senso a partire da un principio dato, dal principio realtà. La parola poetica che inscena questo libro accetta la separazione da esso, la rinuncia forzata al cordone ombelicale che avrebbe potuto garantirle un pacifico transito nell'ordine costituito, per edificare invece un testo perennemente fetale, che si muove ondivago come l'astronauta nello spazio-respiro mostratoci da Kubrick in una sequenza di 2001 odissea nello spazio o come La nave dei folli dipinta di Bosch e raccontata, nella sua pregnanza simbolico-sociale, da Foucault. Alla storia quale imposizione di una traiettoria decisa dai vincitori, Roberta Bertozzi ci consegna in definitiva l'estasi della voce libera d'essere infeconda, di striare l'acqua per mutarne le onde, in un gioco disperato, cara ai Vladimiro e Estragone beckettiani.




(I. la manifattura)


«Qual è la vostra giurisdizione?»
«Non lo so... ci sono dei posti
dove non siamo mai stati e come ci assomigliano.
nel buio mandano le ombre...»
«Dove siete diretti?»
«Indica avanti...»
«Nome?»

...

Per le saracinesche alle rètine filtra
in polvere l'albume della luce
nella leva del giorno - disseminato al risveglio
il tocco, il gesto
si rimembra lento ripara
una benda sull'altra, uno all'altro con cautela
il parto dei cicli nel legno,
..............................«Cavati,
che guardo a che punto, la sutura...»

l'occhio di corteccia della ferita,
..............................il taglio
a cui non facciamo resistenza
- un castone nella cute.

...

Nel letto del fiume, nella venatura,
dove s'intorbida
il linguaggio mai sperimentato

e quello che avremmo potuto farne,
prendere il bivio dallo stesso
collo d'utero:


.............«Amnios, ti dico, e prima un sodo
che non c'è un paragone!» (ti tiro per i polsi
e curvi e vieni senza frenare)

«Poi il gran decollo... la vasca rotta...
poi non me lo ricordo...»

La glicerina sull'acquitrino e tu adagio
(sollevi la testa, fai perno sul fianco) vieni
e dilania il tendine, la postura
cede alla corrente come un nastro - riavvolta
la pellicola del tempo.

Così l'oblio, così è regolare
letargia
questa sequenza senza congedo:
nasce l'uomo che non è ancora chiaro
e così continua nel nastro - nel sogno io
che disciolto in acqua risalivo
in negativo il rigagnolo di amnios
a ritroso l'antibiotico e fermavo il seme
prima del suo farsi segno.

...

L'alba, per qualche istante si fruga l'incisione
le dita spulciano la patria prima
di separazione - usi le forbici

come il patto di chiarezza di un film in bianco e nero
(per qualche istante al giorno
il tuo colore ha stanchezza di portare
l'intero della luce)
....................ripassiamo per l'affilatura:
la lama, un tornio
«Ti faccio male così?»
Premuta sul mantello della carne cedi
all'apnea, ruoti in altra anticamera,
per il traino
i tendini-vettori spingono la freccia,
l'urlo, il falco
(nella tua trasfigurazione l'orbita sfitta
dell'oppio) «Ti fa bene...
sta fermo... prendilo tutto...»
l'alba, il flusso idrofilo del fiume,
il sangue a fiotto.

Il coltello scava le sue urne di piacere
e ti storce l'occhio
a quel ciclo impraticabile in fronte
giurisdizione
di argille smottate
per San Lorenzo infiammato
non rubato spazio - arco
............(tu che riprendi la catena, la tua
manifattura)
solido dolore - confezione
claustrum
senza passione

...



(VII. lettera al padre)


Vira il giorno al crepuscolo. La melassa del condono
si stende sulle tue guance, arroventa i carboni
della tua bella adolescenza. E mai che s'incontri
l'uccellagione e il tagliaboschi e la brocca rotta in parti.
Qui continua l'età breve come dannazione.
Ogni volto perdere la sua decisiva ombra.

«Strano, andiamo eppure
sembra che non cambia...»

...

Caro padre, l'impronta del vento
non ha avuto pietà di noi, il volubile
si è infittito nel sangue
e temiamo per le fibre e le reni,
e quell'urlo cosacco nelle vene
torna a volte nelle notti caro
padre qui chi decide siamo e non siamo noi.

Allora misericordia tu con immutato affetto
tu caramente e col tuo stile inarrivabile
nel mettere il coperto e sempre più di quanto,
sempre più di quanto ci spetta;


perché il demonio, caro padre, il demonio
piovutoci negli arti, nella polvere il demonio
o alterazione del sangue a un punto della specie,
con tutto quel solido e dover star dritto,
e le gambe non lo reggono
incomparabile, tutto, non riescono...

Una raffica spazza l'apertura alare dello stormo
e ogni vita rialcova nel suo bozzolo.
La sentenza (ti chiudi nelle spalle
il riso, lo strozzi nei nervi). L'angelo della sera
si forma lentamente, sequenza dopo sequenza.

...

Sei così morto padre
prima ancora che tu fossi
e prima del tempo
così stupido sigillo tu.

Appesi al tuo capitale noi
snervati
chiavellati al tuo quintale e al sangue
sciolti - oppure ancora in bilico

ed è fatica se svoltare o se tenere il cadavere
appresso
e guarda come s'industriano i figli
quelli come contrattano -
si contendono con famelico pasto:

a Mùnster fatti giudici bambini
per delega ombelicale eletti
.................................i bambini
perché il governo fosse senza compassione,
inflessibile la regola del gioco:

non cresciamo e sposiamo questo temperino
per reticenza, in nome
aderiamo all'emulsione della foto:

«È quello che ti tiene in braccio?»
«No, ti sbagli...
quello devi essere tu, fammi vedere...»

...

Adagio si sente, ma il documento
non sposta di un millimetro
la soglia. E che il fiume
questo hanno detto
dentro - sopra, sotto, in qualche
ha un ripostiglio, una quota
che svetta di quarzo
un segreto giovane ha il fiume
un liquore - si dice che
..........................oltre e ancora
mallo - decidi
...................e io casco
e tu mi leghi - mio fraterno, altro genitore
per il preservativo di catrame delle strade
per questo lento vizio
e allora fallo, come ogni volta
per la buona volta

condizionami.

...





Roberta Bertozzi è nata a Cesena nel 1972, città dove vive e lavora. Ha pubblicato due raccolte di poesia: Il rituale della neve (Raffaelli 2003) e Gli enervati di Jumièges (peQuod 2007). È presente nell’antologia Il miele del silenzio, a cura di Giancarlo Pontiggia (Interlinea 2009). Collabora con il mensile «Poesia» e con diverse riviste letterarie. Fa parte del comitato scientifico dell’Annuario di poesia della casa editrice Puntoacapo. Nel 2000 ha fondato l’Associazione Culturale "Calligraphie", che promuove seminari, laboratori, readings e conferenze sulla poesia contemporanea, tra cui la rassegna “D’altrocanto” tenutasi per quattro anni consecutivi al Teatro Bonci di Cesena. Attualmente collabora con Giordano Giunta e Giampiero Cignani, musicista dei Bevano Est, nella realizzazione di performance e letture riguardanti la poesia del Novecento. Nell’aprile del 2008 è stata invitata come rappresentante per l’Italia al 4th International Festival of Contemporary Poetry di Zagabria. La sua attività critica e poetica è archiviata sul sito http://www.interno38.it/ (dove si possono leggere le recensioni cui alludo nella mia premessa)

5 commenti:

  1. Questi testi mi hanno colpita. Così sono andata a leggerne altri, su interno38, per avere una visione il più possibile ampia di questo libro. Il tema della deriva, della non-direzione, personale e collettiva, mi coinvolge particolarmente, e i testi qui proposti, insieme agli altri, e naturalmente il dipinto di Evariste Vital Luminais, mi hanno dato altri spunti.

    Le parole (i dialoghi, i pensieri spesso incompiuti, “il linguaggio mai sperimentato”) rispecchiano la deriva, la sospensione, la non-azione, e sembrano “sciogliersi” nel percorso (...disciolto in acqua risalivo / in negativo il rigagnolo di amnios / a ritroso l'antibiotico e fermavo il seme / prima del suo farsi segno). C'è qualche sussulto, l'imperativo di chi vuole essere annientato (e allora fallo, come ogni volta / per la buona volta // condizionami). Il nastro si svolge e si riavvolge, e riavvolgendosi si attorciglia e si rovina (ed è fatica se svoltare o se tenere il cadavere /appresso).

    Questo è quanto ho messo a fuoco, per ora. Forse sono andata “fuori tema”.. è che il tema mi sta molto a cuore :-)

    mi piacerebbe anche ascoltarli, questi testi.

    un caro saluto
    stefania c.

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  2. grazie Stefania, hai rotto il ghiaccio su testi che meritano un'ulteriore riflessione e che possiamo fare anche con l'autrice.

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  3. margherita ealla27/3/10 19:54

    Difficile aggiungere qualcosa alla tua presentazione gugl, come al solito ottima e, rispetto alla lettura che io faccio di questi testi (che hanno colpito molto anche me), davvero completa

    anche la sottolineatura di Stefania relativa a quel nastro – legame – bobina che "si svolge e si riavvolge, e riavvolgendosi si attorciglia e si rovina"
    bene si lega a quella della lingua che fascia e imbozzola
    (così traduco il tuo – gugl's- rilievo: "allo stesso modo la lingua della Bertozzi ....")
    attorno al "senso unitario" che però – appena toccato oppure svuotato -come utero del linguaggio feto si sfalda,

    perché il taglio dalla propria radice-padre, o, ancora, dalla cervice femminile, non è netto né dato (il parricidio negato)
    e pure con tutti i tentativi de le forbici, del coltello, ecc...
    (tentativi che cmq non sono quasi mai di recisione, bensì di scavo: -“si fruga l'incisione”- addirittura “indugiando sul piacere sadico” -gugl-)
    è il lavorio del “tornio” qui ad avere il sopravvento,
    il lavoro in tondo a modellare a propria immagine e somiglianza (cioè a condizionare), a lisciare e fluidificare, togliendo l'attrito
    (vedi la “glicerina”)
    di tutto ciò che è a sé (alla radice) nodo o alieno,
    enervando insomma (che è un altro modo per annullare la resistenza de) la materia che si vuole plasmare.

    In questo senso il linguaggio, ma anche un testo, questo testo, “perennemente fetale”come dice gugl, è un figlio che non si lascia completamente enervare (se non a costo di una completa “dissoluzione”) e il suo essere ondivago è il vacuolo, o la bolla di ossigeno che r-esiste, portando nuclei e nutrimenti di senso, dentro il fluido.

    Questo, per adesso.
    Grazie a tutti, ciao.

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  4. ottime osservazione, Margherita.

    dico "sadico" leggendo il libro completamente. qui ci sono solo 2 sezioni, su 18.

    buon pomeriggio!

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  5. Un grazie a Stefano per questa sua lettura, attenta e approfondita.
    Ringrazio anche Stefania e Margherita per le loro parole. Quello della deriva è senz’altro un tema centrale del libro, anche nella dimensione di deriva linguistica, di una lingua che tenta di ricomporre la significazione proprio deviando dalla rotta, delirando.
    Si trattava di spezzare l’unilateralità della sintassi quotidiana, del discorso che ci precede e ci plasma; di metterne in luce il potenziale coercitivo, ideologico, simulatorio. Di far emergere un sintomo, una sorta di resistenza.

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