Forte
Forti un tempo le costruzioni di guerra, tutte buchi adesso e riparo per le serpi. E forti i monti che nascosero soldati, staffette e bracconieri, sicuro il loro fiato nell’erta. Quel fiato buono che stamattina incontro sui sentieri del Pasubio: forte il suo rispetto per i morti.
Forte la memoria che vince la notte, quando tutte le vacche sembrano nere; la memoria nata per dimenticare l’inutile e farsi nuova, pur nella tenacia che stringe l’utile per noi: tenere forte in mente gli olocausti, gli inverni e mister Hyde, ma anche la luce che inchioda l’ovvio e il banale. Forte quella luce che scopre il re nudo, e forte questo sole, malgrado dicembre stia finendo.
Forte l’amico che apre porte e senso, l’amico disperato che ancora chiede la parola, mentre in TV muore. Forte il suo richiamo alla vita, malgrado ogni sequenza spenga la voglia di guardare e piova ovunque fuori. Forte l’incontro dei corpi quando respirano vicini e magari, di nuovo, salgono i monti dove i pastori un tempo si guadagnavano il pane.
Forte il pane che nutre conigli e li rende felici, il pane che è memoria di braccia, terra e di pioggia, il pane che nel frumento ha la sua forza. Forte la madre che allatta e forte imbraccia il futuro, forte l’uomo che si piega, e l’albero con la radice che dirama come rete o plinto, l’albero che tiene cielo e terra, che infila secoli sostando.
Forte la stagione dei padri pellegrini, forte la poesia d’erba e la sua foglia marcia. Forte il blues che dissangua la voglia di restare in quest’America quadrata, dello zero assoluto, dell’etica protestante che dà fuoco alla vocazione e centra il bersaglio. Forte la Francia che premia Moore e teme la fine dei propri contratti, forte il petrolio quando riscalda l’anima, che è della stessa sostanza, altrimenti il tutto non si spiega.
E poi c’è il forte vento, l’uragano dal nome umano che sfinisce l’America e incanta le TV, mentre qui c’è un covo dappertutto che fa polizia segreta e brigatista, fa estradizione, processo con tante cose da dire, e tutte forti, come se gridare fosse azione che spazza l’ordine dei mestieri, chiudendo bocca al capro, che intanto langue in croce e parla forte ma con la lingua monca.
Forte l’occidente, la terra che cade a precipizio fino a quest’autunno tropicale, dove ricevo strani messaggi di amici stanchi di sopportare l’umido novembre, che invero non piega le giunture degli ostaggi imbavagliati fra le onde degli spot. Forte nausea per le cose che leggo, per le frasi senza cose che trovo. Forte l’ironia della parola che ferisce e nasconde, lasciando la fame in strada e aprendo cottolenghi.
Forte il cuoio duro degli stivali, la parola d’ordine dei cancelli, l’odore dal crematorio qualche tempo fa, e forti le fosse della Bosnia, sbirciate per ozio dai satelliti dall’occhio vuoto. Forte chi ha dimenticato tutto questo e ancora traccia reticolati dove sistemare i clandestini, che toglie loro le panche per dormire e vieta gli spazi all’amore.
Forte rima con morte, talvolta, e non lo sa.
Debole
Deboli i forti sulla linea del fronte, tutto buchi adesso e riparo per le talpe. E deboli i monti che nascondono appena le ossa di sodati, staffette e bracconieri, insicuri a correre sull’erta, e caduti. La stessa vertigine che stasera mi coglie nel vallone, la stessa paura di morire.
Debole la memoria che si perde nel giorno, che lì s’annega per seguire l’intera vicenda, la memoria che uncina ogni più piccola cosa, che la conserva: nome dell’ostaggio, viaggio, torto e rimorso, l’inutile per noi: tenere malamente in testa gli olocausti, il gelo e l’angelo che soffre in mister Hyde, ma anche la tenebra che schioda la bellezza e l’incantevole. Debole quella luce che deforma il potere e debole l’ora al crepuscolo per la mia voglia di partire.
Debole l’amico che chiude per sempre, l’amico che, sperando, rinuncia alla parola e così vive d’inerzia. Debole il suo fischio vitale, il rosichìo sottoterra, malgrado il beltempo, bucando il video negli occhi dei sopravvissuti, inebri la forza del loro apparire. Debole lo spaiarsi dei corpi quando lottano vicini e il disamore così s’inabissa, là dove i palombari un tempo si guadagnavano il pane.
Debole il pane quando non sfama che l’olfatto, il pane che fa dimenticare il dove, il come e il chi, il pane finto, che nell’artificio ha la sua legge. Debole il padre celibe, che sceglie lo specchio per futuro, debole la donna manager e l’albero senza radici, fragili come la moda o lo stecco, la donna e l’albero che s’infischiano di cielo e terra, che sfilano perciò i secondi correndo.
Debole la stagione corrente, debole la poesia repubblicana e la sua marcia guerra. Debole la marcetta nelle cuffie dei carristi che rinforza la voglia d’ammazzare, debole quest’America testarda - della tabula rasa, dell’estetica devastante - che toglie chiese case e bellezza, centrando comunque il bersaglio. Debole la Francia che premia Moore, giocando con il fuoco degli inglesi, debole il petrolio quando gela i corpi, che non sono della sua stessa sostanza, e perciò si spiega l’inverno.
E poi c’è la debole brezza, che la TV gonfia per la notizia, esattamente qui, nel covo d’occidente, che fa disordine sulle strade e Genova scorsa, fa processo e manganello, con niente da dire d’altro, se non gridare, perché la voce sia azione che tormenta l’ordine dei pensieri, aprendo bocca al capro, che ancora langue in croce ma senza lingua.
Debole l’oriente, la terra che si fa città e precipita, in quest’autunno senza sbocchi, nel quale mando sinceri messaggi d’amore agli amici stanchi, con la mia ernia imbavagliata nelle parole, deboli per non ferire e nascondere, che ora frequento come fossero strade e cottolengo, con la stessa fame, lo stesso orrore.
Debole il cartone delle valigie migranti, il dialetto, l’odore del pane sul tavolo, e deboli i rifugi d’ogni luogo, visitati per sfizio dai turisti in pace. Debole chi ha dimenticato tutto questo e ancora scava trincee per rinforzare i confini, che mette loro sirene per non dormire e lascia agli altri l’amore.
Debole, talvolta, rima con forte e non lo sa.
sì, mi è piaciuta tutta la intonazione e i quasi vocativi-infinitivi, attualissimo..Bravo Stefano! MPia Q
RispondiEliminagrazie!
RispondiEliminaMooooooolto bello.
RispondiEliminaFrancesco t.
:-)
RispondiEliminaQui c'è passato e presente.
RispondiElimina...forte l’amore che resiste a tutte le debolezze umane.
Forte l’amore che si lascia amare.
Debole e forte fa rima con amore e morte (?)
Ciao grazie sempre
Gianluigi
ciao Gianluigi. a presto
RispondiEliminagugl
grazie stefano.
RispondiEliminaroberto
grazie a te per la lettura.
RispondiEliminaCiao.
RispondiEliminaA me oltre ad uno specchio per la coppia di opposti, che se c'è lo specchio significa il dritto rovescio di un unicum (una medaglia di realtà),
mi fa venire avanti il simbolo proprio bianco-nero dello yin yang, la nascita-distruzione.
questo lo osservo anche nella forma, quando la ripetizione di "forte " o "debole" crea l'intaglio per un incastro del doppio (l'intaglio come la linea di riflessione dello specchio).
Buon Anno! (a tutti, naturalmente)
ciao
infatti :-)
RispondiEliminaauguri a te. non esagerare :-)
io voglio che me lo leggi dal vivo :D
RispondiEliminatiziana cera rosco