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domenica 22 novembre 2009

Gabriela Fantato




Gabriela Fantato, in Codice terrestre (La Vita Felice, 2008), "rimette parzialmente in gioco le certezze acquisite nei libri precedenti, rimescolando «linee e acqua» per una nuova alleanza delle forze intramondane, in cui ribadire la radice robusta del legame familiare e amicale, nella consapevolezza che ogni cosa, in terra, è mortale. Ciò è particolarmente chiaro nel legame amoroso, mai così intensamente indagato, vissuto all'insegna del taglio che «rifiorisce», a patto che gli amanti sappiano tenacemente riconoscersi vivi: «ritorniamo nell'angolo ogni sera», recita ostinazione, adunando sconfitta e battaglia rituale nell'agone domestico, ma aprendo nel contempo alla fiducia nella ciclicità naturale, alla morte con rinascita cui allude l'arcano maggiore, indagato in Enigma (2000) e implicitamente richiamato, qui, nella quartina finale: «Nelle mani un'ostinazione/ come la falce nel grano./ Ripetiamo il gesto antico che taglia/ e rifiorisce». Tutto il paragrafo sull'amore coniugale ripete invero la funzione del «taglio», del separare. Ecco infatti i «coltelli», il «solco», la «linea», le «rotaie», i «binari», la «crepa», i «morsi» e l'«alba», infine, «che beviamo/ e ci segue e ci apre come solchi» (Le notti): somiglianza, quest'ultima, che tiene insieme la scissione ma anche l'accoglienza, l'incisione e la maternità (solco in quanto aratura), per un nuovo cominciamento tutto terrestre. Altra parola chiave del libro è «bianco», che riveste di tristezza Milano (Una geometria, forse, III) e illumina il fare domestico della madre, il cui sguardo, pascolianamente, posa sul bianco delle ossa (Era il bianco); bianco che è il colore del lutto (Galileo che chiede: «Se sono destinato al bianco,/ dimmi, dove posso annegare in pace?») e dello spaesamento, come nella «ninna nanna» senza luna (Nascite imperfette), ma anche il tono con il quale «sentire/ la gioia che manca» (Canto per Galileo, I), sino al «bianco ostinato» inciso «a puntasecca» nella «fatica del paesaggio» della poesia che chiude il volume. Come nei libri precedenti, l'infanzia e l'adolescenza sono un serbatoio inesauribile, tra desiderio e spavento, raccontate a lacerti decisi e spigolosi, capaci ancora di ferire, pur avendo a cuscino la memoria del padre e le parole della madre, che tuttavia in questo libro perdono la centralità che avevano negli inediti del Tempo dovuto (2005). Se infatti in quello, il poemetto dedicato al padre si compone di 10 liriche, qui Al tuo delta si riduce ad una sola poesia (la IV del libro antologico, con tagli e riorganizzazione metrica dei versi), ed è inserita in una sezione in cui il maggiore spazio spetta allo zio Silvio, fratello della madre, disperso nella guerra d'africa nel 1942. Anche gli amici prendono maggior rilievo, anticipando quella «fedeltà ai pochi» della poesia conclusiva i quali, come scrive Milo De Angelis nella prefazione, «hanno assunto i tratti di una necessità a lungo confermata, i lineamenti di un destino».
Altri temi ricorrenti, e in sintonia con l'intero percorso della Fantato, sono la città, corpo inospitale, attraversato da «cunicoli e ombre» (Città in sotterranea), e la casa, che non protegge abbastanza la sua ospite quando si sente vulnerabile («Luce, c'è tanta luce oggi./ Entra in casa, viene a cercarmi»), o che custodisce i segreti della propria genealogia, tramandati di generazione in generazione, come quelli sulla morte dello zio Silvio; o, ancora, nella quale si consuma la partita dell'amore: una casa, questa, che ha «tane» abitate da «insetti e baci», da «azzardi e carezze» (l'azzardo). Casa, città, amicizia, affetti familiari e amore coniugale, memoria storica e memoria personale costituiscono dunque lo scheletro, tutto terrestre, del libro, ne sono il codice, la chiave con cui leggere la biografia della Fantato, poeta e intellettuale, donna della Milano cementizia, che ama tuttavia riconoscersi nella la metafora della palude, della «terra mobile/ con le radici aperte sino al mare» (Una geometria, forse, II), a sottolineare la propria origine terracquea, arginata esistenzialmente da una caparbia intelligenza e, artisticamente, dal rigore formale, dal continuo lavorio sullo stile. Interessante sarebbe, in questo senso, un’analisi delle numerose varianti contenute ne il tempo dovuto, rispetto alle edizioni originali e, ancora di più, verificare l'edizione degli inediti pubblicati in via definitiva nel Codice terrestre. A proposito della prima questione, riferisco, solo a titolo esemplare, il lavoro di lima dell’ultimo addio (in Moltitudine) che, nella versione conclusiva, ha perduto quattro versi interi, un sintagma, una congiunzione avversativa, modificando altresì la scansione strofica e l’uso della parentesi, il tutto, mi pare, al fine di togliere l’eccessivo espressionismo («schiacciato il pudore, al soffitto») oppure messo in atto per migliorare la continuità sintattica, in una pulizia del canto che si vuole denso ed essenziale, ma non ermetico, talvolta sorretto dall’enjambement (magistrale in tal senso il passaggio ne al naviglio grande, dove «un’onda che arrivi a quest’acqua salvata» diventa «un’onda che arrivi a quest’acqua/ salvata», operazione che, ripetuta nei versi successivi, acquista un'idea del ritmo cara a Caproni), talaltra governato da una musica in sordina, che lascia alle parole i loro spigoli, le loro anse, quasi isolandole alla maniera del Sereni maturo. Per quanto riguarda il Codice terrestre rispetto agli inediti, il lavoro è stato ancor più minuzioso, nella cancellazione di interi periodi e nel riordino degli a-capo: in generale, il precedente verso lungo ha dimezzato il metro, acquistando in tensione, sostenuta da un venire meno di alcuni nessi logici, lasciati impliciti per maggior fiducia nell'intelligenza del lettore. Anche la cura lessicale è giovata. Si veda per esempio la sostituzione di «rosicchiano» con «mordono» della poesia d'apertura, così che il verbo, attraverso l'agglutinazione "ord", si armonizzi non solo con «ricordi», tre versi sotto, ma dia anche ritmo più sostenuto alla quartina, attraverso l'allitterazione in "d": dall'originale «I figli sempre rosicchiano le dita/ ai padri per sentire dove/ iniziò il viaggio – perché, ricordi,/ dicevo anch'io perché? –», si passa infatti a «I figli mordono ancora/ le dita ai padri per sentire/ dove inizia il viaggio./ Perché, ricordi, dicevo anch'io/ – perché?». Inoltre, a caricare ulteriormente di tensione il concetto, per l'effetto fonosimbolico dello spostamento d'accento tonico dalle "e" alle "o", si noti la sostituzione di «sempre» con «ancora» (che va a sostenere «mordono», allitterando in "or", là dove «sempre» anticipava le "i" di «rosicchiano» e «dita»). Infine, la scelta di coniugare al presente il verbo («inizia») anziché al passato remoto («iniziò») lega grammaticalmente meglio l'azione dei figli (sostenuta dall'avverbio di tempo «ancora») e contribuisce a dare l'impressione che l'inizio di cui si parla sia costantemente attivo nel presente e, appunto perciò, il morso sia percepibile". (in Senza riparo, pp.165 - 168)





Rispetto alla versione definitiva, che qui riporto, vi invito a confrontare le varianti postate in Epitaffi, il blog di Bianca Madeccia.



Una geometria, forse


I


I figli mordono ancora
le dita ai padri per sentire
dove inizia il viaggio.
Perché, ricordi, dicevo anch'io
- perché? nell'età prima che nomina
e divide.

Ancora non si sazia la fame e il giorno
è senza nome.
Tento di ricongiungermi
spalla e braccio come i sassi alla terra,
rinasco ramo e radice.
Resurrezione
nel poco che conosco.

Non che io sappia lo sbocciare esatto
della viola, non l'ordine dell'estate
dentro la morte secca dell'inverno.
Tento una geometria,
linee e acqua.



II.

La terra è tutta solchi – una marcia.
Un mettersi a sognare
dove i pioppi sono una palude vasta,
con dentro l’Adriatico
e un’adolescenza negli zigomi.

I sentieri invece non ricordano
il sollevarsi e cadere
in una fotografia.
Non sanno la geometria della fatica
– l’orizzonte è questa insufficienza,
una faglia
dall’altra parte dello sguardo
e la memoria si fa spavento.

Resta una terra mobile
con le radici aperte sino al mare
anche la notte,
sino al gelso nel cortile di mia madre.

Il debito è nelle spalle,
precisione di un ritorno
e sembra tutto chiaro
nel cadere.



III.

Luce – c’è tanta luce oggi.
Entra in casa, viene a cercarmi
dove la corteccia cerebrale è
sale e acqua.
Un ramo in attesa con tutto il corpo.

L’edera si arrampica nell’autunno
bianco di Milano, mi cerca gli occhi.
Alcuni rami sono spogli
dove la pioggia è più tenace
nel togliere e dare – la vita,
una scena a testa bassa
punto su punto.

Verso terra le foglie si aggrappano
come facevo anch’io
prima che il giorno fosse rabbia sottile
hanno il colore della gioia.
Un rosso sfacciato e breve.

Domani non saranno più qui,
perché si compie l’anno in questo ottobre,
con una dolcezza che fa male
e consola.



dalla sez. Un bacio dopo l'ultimo


(l’arrivo)

Seguo i metri – uno su uno,
sino al colpo, sino all’abbraccio.
Vengo da te che mi strappi e sei
la mia stanchezza.

Forse è vero, sarei la tua terra,
– un solco per la mietitura.
La città sale dentro le lenzuola,
il racconto è sirene
e allarme.
Solo l’inondazione di rughe
e figli placa il cielo, questo bianco.

Mi distendo nell'incavo dell’estate,
paziente alla resa.
Insisto la richiesta, salto alle radici.
Tu respirami
pesce d’oceano – ricorda la bocca.



(invocazione)

Tienimi quel battere tre volte
alla casa – mi riconosci?
allora scrivilo nel conto delle tue verità,
scrivilo vicinissimo al cervello,
rosso, solo rosso senza nome.
Regalami l'innocenza
i sandali dell’infanzia, il passo dove
l’acqua è un bordo della pelle.
Ti darò la solitudine liscia
dei miei tre anni senza vento
dove vederti
e perderti.

Dammi il bianco dell’inverno,
inventa la gioia a consolare
l’arsura.



(ostinazione)

Ci affrontiamo in giocattoli di latta,
grandi come le mani.
Ritorniamo nell’angolo ogni sera,
proprio come un’aquila va al nido con il cibo,
come marzo apre la forma dell’estate.
Cancella tutti i mesi che vengono,
dici, non vuoi il calendario.

Stiamo qui, legati
al sorriso di una madre
dentro la cucina immobile
di minestre e legno
– i coltelli non sono armi,
sono solo il taglio nella carne.

Nelle mani un’ostinazione
come la falce nel grano.
Ripetiamo il gesto antico che taglia
e rifiorisce




Posto infine alcune poesie tratte dalla silloge vincitrice del premio Gozzano 2009 e dedicate al padre, venuto a mancare recentemente. La silloge documenta e, al tempo stesso, eterna, sia la distanza immedicabile che la morte tiene aperta tra due esseri amorevoli e sia la loro meraviglia per come la vita, in questa vicinanza dolorosa, rinforzi il proprio seme.



A DISTANZE MINIME



I.

Le mani sulla tua mattina,
la maglia ruvida al contatto
delle dita.
Chiedi un massaggio contro
il male dei muscoli, il brusio.
Contro l’impotenza.
Ancora, mi dici – ancora
e offri la schiena.
Invento un ritmo, una danza.

Le dita sulla tua schiena
– senza sosta,
un massaggio, una ninna-nanna
nel buio che sarà.

Forse è solo mio questo
incantesimo - farmi minuscola
e salire dentro la gola,
oltre lo sterno, sino all’inizio
del danno nei tessuti.

Ti distendo – un panno
ben messo nel cassetto,
cosa tra le cose.




III.

E’ così punto-linea-punto
così sussurra la materia,
un alfabeto di cellule
dove scorre il brusio del sangue
e si fa vita.
Lo vedi, non so leggere
la lingua muta del polmone
dove si gonfia la notte
e diventa giorno poi ancora
notte e così vivi, così passano gli anni
sino al giorno che non sarà
mai più.


E’ così il dolore
un prato bruciato.
La musica si fa tana di ogni silenzio.
Sottile, troppo sottile è il passo,
posso solo stare qui a guardarti
come fosse per caso.
Ti tengo l’alba vicina al letto.



VI.

Te ne sei andato come chi deve
con i giorni dentro l’orizzonte.
Nel comando, dicevi, è sempre
esatto il passo del plotone.
Era quello il filo delle tue costellazioni.

Te ne sei andato nella domenica
sbagliata al calendario.
Sei dove non c’è più paura
e il sonno è senza voce, senza
quel tremare.

Te ne sei andato con l’obbedienza
della pietra scesa a picco sul fondo.
La mano agitata nella stanza dove
non potevi avere che una sedia
e gli occhiali dentro la paura.

E’ stata veloce la fuga nell’inverno
di Milano e senza neppure
il mare per dire – dove andiamo…



Sempre in Epitaffi  la biografia.

9 commenti:

  1. Lieta di rileggere questa bella carrellata di testi di Gabriela Fantato, una poeta con una vena di scrittura a forte impronta geometrica, simbolica e metaforica che ho apprezzato molto. Un percorso denso, quella di G.F., che merita molta attenzione.

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  2. margherita eallaigamma23/11/09 23:32

    wow che meraviglia di analisi critica! ritrovo ampliate e approfondite certe mie sporadiche "impressioni" (ho appena appena conosciuto in un post G. Fantato), anche se qui i testi presentano altre dimensioni della sua poetica, qualcosa che ha a che fare con la terra, con la radice cordone ombelicale. Ma devo leggere con più accuratezza e lo farò (nn sono sul mio pc). Per intanto complimenti a te e all'autrice dei testi.
    ciao

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  3. ciao Bianca ciao Nargherita. grazie a voi.

    Fantato è da leggere e da pensare, anche la sua produzione saggistica.

    gugl

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  4. Una poesia raziocinante, che si muove in ambiti prevalentemente urbani ma con vocazione alta, pronta a porsi le domande estreme.
    L'autrice, come ricordato, è anche una figura importante nell'attuale panorama delle riviste e della critica. Ricorderò sempre con piacere la serata milanese in cui l'ho conosciuta, nell'ottobre del 2005.
    Un caro saluto
    Antonio Fiori

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  5. Parlare di Gabriela, è parlare di un'amica più che ventennale, oramai..ogni parola rende meno della emozione di quella lunga e fedele amicizia..Una nostra intervista sulla sua produzione, attende questi ultimi versi,ma già cammina.Attende di confrontarsi anche con le parole i versi ultimi del dolore, un poema ininterrotto, che a stento rientra nella geometria di Codice, perché lo travalica. Molte osservazioni sui nessi grammaticali e semantici, andrebbero fatte,e faremo.. Sulla tessitura prosodica mi discosto un attimo dalla bella analisi letta, avendo letto anche la "esecuzione" di un'altra variante, con ictus differenti nell'incipit. (Una inversione di "sempre mordono le dita ai padri", creante altre allitterazioni altre catene sonore, e piedi metrici..)
    Non è sede, non ora.
    Bellissimi auguri a G.F. e a questo poema che verrà, da MPia Quintavalla

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  6. Nella fretta dei giorni, di questo vivere precario alla ricerca di futuri che ridono al mattino per sfasciarsi la sera, fare poesia è una sfida intima che ci chiama a resistere. Ma come è difficile. Ecco, la scrittura di Gabriela aiuta a porre un rimedio, è un abbraccio chiesto e ricevuto per rimanere eretti e continuare la salita, nel silenzio delle cose minime e di quelle molto, molto più grandi. Si percepisce un camminare insieme cercando e trovando gli appigli necessari. Poggiando uno a uno i piedi, con la massima concentrazione, su incavi e sporgenze miracolose di una arrampicata precisa, con pochi tentennamenti. Per non cadere. Per tenere il passo contro il vento, guardando con sguardo asciutto la cima, e qualche volta il baratro. luisa pianzola.

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  7. Alessandra Paganardi2/12/09 06:21

    Questa magistrale analisi delle varianti (operazione, come si sa, indispensabile in filologia moderna) rende piena giustizia al lavoro poetico di Gabriela Fantato; lavoro che non è solo di lima, ma soprattutto di scavo, alla ricerca della parola sempre più esatta e necessaria. Proprio dall'esempio vivo dell'autrice, nel corso della nostra ormai lunga frequentazione poetica e del nostro comune impegno nella rivista "La mosca di Milano", da lei diretta, ho imparato che scrivere un testo significa essenzialmente riscriverlo molte volte, nella mente e sul foglio, rispondendo a domande semplici e terribili per un poeta: "Che cosa veramente volevo dire? Dove mi porta questa metafora, che cosa nasconde, quali spiragli di senso? E' il caso di aprirli ulteriormente in questo stesso testo, oppure di chiuderli e di riparlarne in un successivo? Meglio approfondire oppure estendere?". Un po' come calarsi in un pozzo artesiano, dove la lampada frontale è la ricerca della parola scolpita. In un mio scritto chiamo l'uso della metafora in Fantato con un nome di mia invenzione, "sinafora": appunto perchè in lei significante e significato non sono mai separati, l'uno porta con sè l'altro. Le dita morse o rosicchiate dei padri sono proprio dita fisiche, non soltanto preoccupazioni genitoriali, erosione di una vita matura a favore di un'altra giovane, o quant'altro ancora. Il delta non è soltanto crocevia di vita, ma preciso luogo geografico e d'anima. Non c'è posto per l'astrazione in questa poesia - e dubito, del resto, possa esserci qualcosa di simile all'astrazione in ogni vera poesia. Perchè in poesia il senso non è mai congelato in formule e dicotomie; in poesia l'esattezza non è soltanto geometrica, è carnale. Le varianti in Gabriela Fantato, e lo studio di Stefano Guglielmin su di esse, sono una bella lezione d'esattezza viva. Varrà la pena, proprio a partire da questo lavoro critico, di ripensare la produzione di Gabriela, una produzione già ampiamente storicizzata eppure in grado di regalarci sempre nuove sorprese di senso. Ora e in futuro, ne sono convinta. Alessandra Paganardi.

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  8. ringrazio Luisa, Maria Pia e Alessandra per gli interventi, assai stimolanti per future analisi critiche.

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  9. una delle poetesse che più amo, grande analisi quella del gugl.

    Complimenti

    Antonio Bux

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