domenica 2 dicembre 2018

Elio Grasso su Nanni Cagnone



Nanni Cagnone, Le cose innegabili, Avagliano Editore, Roma 2018


Prodigo Cagnone, negli ultimi anni, a rendere ragione di una traversata non esauribile e poco rapportabile, per fortuna, a gran parte della produzione poetica contemporanea. Senza offesa per alcuni esercizi (evitando limiti generazionali) a cui occorre avvicinarsi, senza troppi dubbi né incaute censure. Ma qui è un’altra storia. E la storia andrebbe verificata, quanto meno, nella imprescindibile e dilettevole biografia pubblicata di recente presso Coup d’Idée: Dites-moi monsieur Bovary. “Basato su una storia vera”, precisa l’autore, e dove hanno sede gli “inevitabili”. Inevitabili sono appartenenti a una fauna dove s’incontra di tutto: chi tenta di ridurre i grafici della poesia a mero copyright e coloro che si trovano emigrati nella scrittura come vi fossero accalcati dalle ruspe. Cagnone, da molte decadi ormai, manda a farsi fottere spintonanti e spintonati. E non facciamoci troppe domande sul perché e sul percome. Affari suoi. Se non fosse che molti di questi affari concernono la poesia e quanto consideriamo, a torto o a ragione, su di essa. Il suo pensiero, a tal proposito, lo troviamo raccolto nell’imprescindibile Discorde. Quel che pensiamo noi sui versi di Cagnone, divulgati negli ultimi anni, andrebbe ponderato con saggia cautela, e con prodigalità di tempo a disposizione. Ci sarà modo. Per ora può bastare affermarne l’accadimento, poiché sono numerose le pubblicazioni giunte nell’ultimo decennio. Una di queste uscì in forma di strenna degli amici presso le edizioni della Galleria Mazzoli di Modena. Anno 2010, settantuno stanze con traduzione a fronte di Paul Vangelisti, amico americano di Cagnone, oltre che poeta lui stesso (e di gran valore) e legato in anni imbevuti di sanguigna mitologia a Adriano Spatola. Altre epoche, non addomesticate. I settantuno testi, Le cose innegabili, leggermente rivisti sono proposti oggi dalla collana di poesia di Avagliano. Azione da mettere in evidenza, accogliendo il fatto che la raccolta ha posizione egemone nella recente ricerca poetica dell’autore. Innegabili dunque sono le cose attraversate da radiazioni penetranti o scontrate con discreta forza, ma innegabili sono pure le singole poesie disposte. Classicità aristocratica, critiche individuali, apparizioni poco inclini al setaccio, orditi sgualciti dal tempo eppure commossi da nuovo indagare, tutto finisce nell’oggettività fulgida del libro. Lasciando perdere le contemplazioni impotenti, Cagnone replica orgogli e ricchezze affettive senza alcun impulso di resa, giammai vi fosse stato un fugace pensiero, e avviene che prodigi e grandezze stiano ben presenti all’eventuale fastidio (“Neppure la grandezza è esente da noia: e questa resta tale anche per chi riesca a giustificarla”: Discorde). Raggiungere un’età non offre esenzione dall’inclemenza delle polveri: rese abbondanti dai morti definiscono profili non lieti. A Le cose innegabili possono altresì collegarsi immeritorie fabbriche umane, piene di cretini, da sempre visualizzati da Cagnone senza mezzi termini. Costoro lo additano come “accordatore” rompiscatole. Ligure è, Nanni, stimandosi spesso ostaggio di altri lidi. Le diatribe mentali del popolo di Liguria, regione anche mia, lo portano lontano dal mare – ed è lì che si rianima, in foreste e in mezzo a mostri. Vita scomoda, riesumata in libri come questo, e nei successivi Tornate altrove e Ingenuitas, includendo i racconti “etnici” di Cammina mare. L’invincibile poesia continua a vestire gli anni del ligure di Carcare, lei stessa dotata di abiti conoscibili e tuttavia remoti: da Eschilo (l’Agamennone ha sciupato diversi astanti) in poi vediamo fierezza talvolta ostentata e talvolta addolcita d’affetti sicuri, vertiginosi intrecciati versi da accordare sulle cose. Cose mai scoraggiate dall’inesausta profondità a cui tutti siamo richiamati: è innegabile.


Elio Grasso



I
Non sarà l’annuvolato cielo,
né il difettoso patto,
a tralasciare uno dei due
su mulattiere d’infanzia –
saremo noi, senza fretta
in un istante, contenti
d’assordarci e guarire.

Eravamo pretendenti,
poi spericolate serietà
di cui nessuna
attenta a uno spiraglio,
solo un trasalire di colori
in falso lume.

Noi come siamo
ora, noi che siamo
distanziato sogno.


IV
Ed ora, perché
meravigliare d’altri suoni
il prato notturno? Laggiù
sanno quel che devono,
senz’invidia d’accadere,
laggiù si giace in molte lingue
(nessuna grammatica però,
né scontentezza di legami),
accanto a uno strepito d’acqua
che nei secoli
afferma la floridezza –
lei, l’incompresa.


V
E un giorno
non si resiste più
ai particolari: l’intonaco
ancora screpolato
qui, l’esclamazione
d’un libro accantonato,
quell’insistere d’ombre
verso il buio. E noi,
alberi sfrondati, ignari
dell’abbondanza del disegno
e minuziosamente asserviti.

Anomalìe – tra selci
e amuleti, respinti doni.


VI
Andando senza moto,
intimamente,
e correndo ai ripari
quando sgualcito il tempo,
facendo nascondiglio
nel condiviso mondo
così docile a nostre figure,
che alla burlesca fa ritorno
lungo i sogni. Andando
per impuntarsi di colpo,
impigliarsi, nell’ordito
che non dipende da noi,
nella pretesa saggezza
di nostre disfatte.


X
Addietro, ove per tempo
l’antagonista delle lontananze
addomesticò il vuoto,
quante cose custodite
che non sono, esuli in serre
che non han stagione.

Quel che germoglio qui,
non mai disfatto –
per indolenza di fioritura.


XIII
Questo lento inverarsi non è il mio,
che saprei precipitare il mondo
come un disastroso condottiero,
almeno incontrando cose
invece di guardar avanti
se sopravvivano a loro stanchezza –
le cose innegabili, esordio senza sigillo
il cui adempimento richiede il tu,
temerario ornamento dell’io.


XVI
Alle radici, da ragazzo,
preferisco il culmine
dei cedri, che – si dice –
svettano e più volentieri
oscillano, quando
a commuoverli
il vento di ponente.
Quel verde approfondito
che di notte si fa
incompiuto nero
è l’insegna di pochi
che non fan ritorno,
se lasciarono una terra
che sanguina legami.


XXV
Pinus halepensis
alto alla scogliera, solo
e non nel periodare del bosco.
Poi, su lo stanco viottolo,
un fanale. Tenendo a mente
come in basso agisse il mare,
riguardi il tratto
ruvidamente schiarito
che dice il primitivo rossore
della terra.

Passi senza cognizione
tra cose variate
che si eguagliano,
guardandoti bene
dal far domande.


XXXI
Vegliare accanto ai solchi
ove semi insonni maturano
senza rumore, senza sognarsi
spighe, poi andar via,
orme superstiti
su rovesciate zolle, simili
al coltivatore dell’inverno,
orfano di terra, che inutile
andrà verso una casa
come farebbe la grandine.


XLIV
Al fine, scrivere la storia
delle cose minute –
la vicenda d’un pettine
ai capelli
o il culto delle scaglie
di madreperla.

È tempo di destarsi
per consistere
nell’ardua interezza
dei frammenti:
è qui che si viene vinti –
un vetro offuscato,
un appuntamento
con la polvere.


XLIX
La macchia d’inchiostro
conviene al foglio scritto,
racconta cose
che accadono fuori,
più individuali
di quanto si creda,
e la premura d’una gomma,
il suo rimedio, è un’altra
quotidiana servitù.

Quante cose ci vogliono
per far di noi
qualcosa di semplice?


LX
Anni invernali, da cui
per falsamento di luce
non si vede la soglia.
Uno di noi, cullato
e già rimpianto
da dolenti stridule parole,
riconosce infangate
le sue scarpe.


LXIII
Cose scartate
avranno in altra vita
rinomanza, vita a dirotto
senza teologie senza preamboli,
non altro che intridere vegliare
lasciarsi mescolare,
e veder folgorato il restìo.
Smarrirsi, una volta sola,
nel vecchio fruscìo radiofonico
di quando
non scarseggiava la distanza.


LXVI
Quasi ottant’anni –
poi, curvando il tempo,
rivedi la via, se non la casa,
dell’origine. Via
senza vagiti, silenziosa.
Molti vi saranno morti
nel frattempo, a sminuire
la tua pretesa, rammentarti
che non c’è rispetto
tra nascere e morire,
e non si fa amicizia
con l’intermedio vuoto.


LXXI
Nello sguardo
di chi si ferma
e non saluta il qui,
stremato il divenire.

Poi, nel tempo fra gli anni,
frastuono di fiumi sotterranei
e orme di terra sui pensieri,
e tutti questi libri da sfogliare
da non lèggere, perché
corroso contorno del cuore.


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