giovedì 6 settembre 2018

Paolo Gera recensisce Fabrizio Bregoli (seconda parte)



Le tre stazioni successive sono “Iconoclastie”, “Memorie (da un futuro), “Diversa densità degli infiniti”. Possiedono analogie di struttura e sono collegate da un’unica linea di percorrenza. Se si prende spunto dal titolo iniziale le si possono immaginare come saloni sghembi di una stessa area museale, in cui paesaggi, ritratti, rievocazioni storiche, sono collocati gli uni accanto agli altri in una sequenza sorprendente, ma per nulla fortuita. I personaggi inquadrati sono reietti e oscuri e la loro leggenda nera farebbe la felicità di Guido Ceronetti e delle sue allucinate biografie, ma se là la tragedia è raccontata alla maniera di un notturno e sanguinario cantastorie, qui non si rinuncia alla cesellatura formale, il dolore risulta rappreso, il sangue raggrumato. Laszlo Toth, Cassandra, Elena Ceausescu, Frau Goebbels, Jack the Ripper, Leni Riefensthal, tanto per dire. Anime compromesse, destini andati a male, anche nel caso di chi lavora con la luce e ritrae muscolosi e scolpiti atleti ariani.
La rievocazione storica che mi colpisce maggiormente è “Dàyuèjìn – Il grande balzo in avanti”, dove le false promesse della propaganda maoista, il riscatto rappresentato da un futuro migliore attraverso la fatica infernale del presente, è reso attraverso la màcina della ripetizione anaforica (“riso sterile piantiamo e piantiamo”) ad ogni nuova strofa e l’inserto di versi danteschi:

Riso sterile di sterile zolla noi piantiamo
lo piantiamo e piantiamo alba dopo alba
ne cresceremo pula pula e cenere
queste misere carni, e tu le spoglia
la morte bussa piano ha l’orma lieve
loro danzano madre nelle stanze solatie
di voi faremo sabbia e spighe brezza e fiume
traete sangue e pane la pietra ha mani d’aria
quel tuo cuore madre è un uscio un uscio lieve
(Dàyuèjìn-Il grande balzo in avanti, vv.32-40. P.53)

I paesaggi di “Zero al quoto”, rappresentano il nostro centro storico o l’azienda davanti a cui siamo sempre passati e che ora sta per essere riconvertita: riconversione del lavoro, degli sguardi, delle pulsazioni cardiache. Oppure l’alienazione delle banlieue dove si preparano inneschi esplosivi o le promesse non mantenute dopo il terremoto in Abruzzo: preghiere crepitanti e svanimenti, nuove soluzioni abitative e perdita di memoria. Tutti questi luoghi sono uniti da un senso di precarietà e di perdita che, al di là di ogni giudizio morale, indicano la stessa unità di misura di ogni esistenza umana.

Vivere è la calibratura esatta
di un’orologeria millimetrica
a scandire il rintocco della fine
(Banlieue Shahîd, vv.18-20, p.54)

Ma allora non riesco, non riesco a rispettare la mia consegna e a procedere in maniera logica e ordinata. Vado a sbattere contro la poesia “Tomtom” e lì ottengo dal poeta la licenza di abbandonare gli strumenti tecnologici, a cui ci affidiamo ormai anche per raggiungere i luoghi che si trovano dietro l’angolo. Ed è ovviamente una benedizione anarchica.

Quei peripli tra identiche campagne
in cui ci si ritrova all’insaputa
- smarrire unica rotta -
e quello svicolare tra le ghiaie
impolverate tra la luce e il vento
che sbucano in un prato senza fine
più oltre solo un palpito di cielo.
Quello schianto frontale col silenzio.
(Tomtom, vv.18-25, p.70)

Così ritorno indietro e a un precedente svincolo poetico e mi ritrovo in una cameretta, dove si celebra il rito sempre valido delle buone cose di pessimo gusto. È una vera e propria dichiarazione di poetica, che mi sento di condividere a pieno titolo sin dal titolo che è “Di un incomodo peluche”.

Ma altro ti significa quell’indomito
relitto d’infanzia. È nell’imbarazzo
in cui giace attonita sul foglio
indugio su indugio, verso su verso
la circospezione la maestria
tua di scrivere, perché non è afflato
di memoria non sura non bestemmia
perché come quello sconcio ippopotamo
mai nulla cambia né mai serve
a nulla mai la poesia,
declinazione esatta
prontuario dell’inutile. Inutile
e irrinunciabile.
(vv. 16-29, pp.67-68)

Che la poesia, come un ippopotamo di peluche, che ha attraversato con la sua affettuosa inerzia tutti gli anni della vita, sia inutile e irrinunciabile, è fatto pienamente condivisibile. Di certo non potrei trafugarlo ai ricordi e alle manipolazioni attuali di Bregoli, ed è così con altri miei giocattoli personali che affronto le lande sconosciute di “Amba Alagi”. “Amba Alagi” vive di quadri che riconducono alla nuda materialità dell’esistenza, a oggetti che rivendicano un proprio senso, non colonizzato dall’impiego quotidiano degli uomini. A partire da questa nuova dimensione si aprono squarci ideali, inviti al viaggio, ricerca di Altrove che naturalmente non possono essere che liberi.

Perché sai in fondo è questo: rimediare
col senso contraffatto d’una vita
la trascrittura errata d’una nascita
fino a giungere, tutti e ognuno, ad una
regione di mezzo, una zona franca.
Ad una terra esatta, impareggiabile.
(vv.9-14, p.91)

Il titolo “Amba Alagi” offre però un’indicazione ambigua, come se il desiderio di evasione all’inizio caratterizzante i poeti decadenti e poi tutta la società borghese, riveli in controluce la cattiva coscienza dell’imperialismo e l’illusorietà di ogni idea di fuga dalla realtà.
In ogni caso, dopo la ricerca del posto al sole o dell’utopia, si torna tra le mura domestiche ed è lì che si possono trovare i deragliamenti più impensabili.

Ma pure un piatto sbreccato, una spilla
un guanto liso, un pettine rivendicano
talvolta dignità a esistere, intrudono
nella geografia consueta di anni
la deriva d’un continente prossimo.
(vv.6-10, p.89)

Jacqueline Risset spiega bene in una sua introduzione a “Il partito preso delle cose” (1942) di Francis Ponge, la tendenza della cultura francese con Sartre e l’école du regard – sotto l’influenza diretta della fenomenologia di Husserl - a ridefinire non pregiudizialmente l’universo degli oggetti che ci circondano:

“Si tratterà quindi, scrivendo, di “aprire gli occhi” e di vedere le cose, nella loro superficie netta, liscia, intatta, le cose “che sfidano la muta dei nostri aggettivi animistici o casalinghi”.
Nei due casi vi è scoperta di un’estraneità radicale, avvicinamento a una sorta di nudità sconosciuta – sconvolgente e tragica per Sartre, neutra, trasparente, quasi scientifica per Robbe-Grillet. Ma da tutti e due è il linguaggio a essere messo sotto accusa – il linguaggio che “copre”, nasconde, che riduce le cose esistenti allo stato di puri strumenti, o che per mania di profondità, impedisce la percezione della loro superficie”.
(J. Risset, De Varietate Rerum, p.VIII, in F. Ponge, “Il partito preso delle cose”, Einaudi, Torino 1979).

Ma in Francis Ponge la radicalità è spinta a un punto tale che anche le parole stesse possono essere considerate al pari della realtà oggettuale da loro evocata e dunque ricevere la luce di un nuovo sguardo percettivo. Si realizza l’assimilazione necessaria tra cose e parole. Ecco come Ponge descrive i frutti di bosco:

“Sui cespugli tipografici costituiti dal poema, su una strada che non porta né fuori dalle cose né verso la mente, certi frutti sono formati da una agglomerazione di sfere che una goccia di inchiostro riempie”.
(F. Ponge, Le more, ibid., p.15)

E Fabrizio Bregoli:

Torni alla familiarità coi gatti
quella stirpe intermedia tra confini
di mondi che dialogano per lessemi
provvisori, collimazioni, ellissi.
(Amba Alagi, vv.1-4, p.92)

Prendo ora come lasciapassare i versi “ti sentirai a casa/dove il tempo non ha coniugazione” (p.93), per superare l’ultima frontiera, quella di “Per una poesia possibile”, stazione d’arrivo dell’opera e che già dal titolo indica impegni programmatici, proposte progettuali. Se di manifesto si tratta non pare comunque affidato all’archiviazione di file perfetti, ma destinati allo sganciamento irrecuperabile nello spazio della virtualità. Piuttosto la sua vocazione è di incollarsi a un muro di affissioni, di avere come impegno un’adesione del tutto materiale allo spazio pubblico, di avere come destino gli strappi, le scritte sovrapposte, ma anche gli sguardi interessati dei passanti, di dare la sua testimonianza di messaggio urgente e deperibile. In questo ultimo lascito Bregoli è come se si ricongiungesse alla scaturigine della poesia e all’identificazione del suo compito nell’artigianalità laboriosa del suo processo, vizio assurdo, tormento di stile, ma anche unica possibilità di riscatto, rivendicazione di povero utile strumento umano.
È il “boves se pareba” dell’indovinello veronese, è Guinizzelli indicato da Dante come “il miglior fabbro del parlar materno”, sono “le triste penne isbigottite, le cesoiuzze e ‘l coltellin dolente” di Guido Cavalcanti, sino al “faccio scrittura e non sono scrittura” del “Bisbidis” di Edoardo Sanguineti.
In “Per una poesia possibile” il poeta riflette sul senso problematico del suo mestiere all’interno della società e vi riflette non con proclami massimalisti, ma con una disamina sottile, amara, provocatoria delle forme stesse della poesia.

Davvero sai il mestiere. Hai arguzia, tecnica.
Spezzare il verso, la sua ostia nera
farne vino, ubriacatura lirica.
Così dici non s’abdica. S’invera.

Come bastasse una rima gaglioffa
un’ora d’aria, l’ultima
sigaretta. Il bicchiere della staffa.
(p.105)

Quella di Bregoli è poesia densa in un’epoca di poesia volatile e quando scherzando accetta lo status quo  e gli idola tribus, così descrive la sua finta conversione a poeta di regime, la sua nuova predisposizione antisdrucciolo:

Serve rigore attico, accento piano
un rimare ruffiano.
Suv Moncler Spritz a mite dittatura.
Vincere sempre, male di pianura.
(vv.14.17, p. 115)

Lo stile non può essere neutrale. La riflessione sui suoi meccanismi ideologici rivela il valore alto, etico e non solo estetico della poesia intesa come gioco linguistico.

 Bregoli ha lasciato la sua maschera di raffinato poeta cortigiano, si è trasformato nel Matto di Re Lear che soffia la verità sull’apparenza di questo mondo contraffatto, quindi è diventato Amleto. Sono fuori.

Uno due polizia, tre quattro carabiniere, cinque sei vecchia strega, sette otto buonanotte.

Esiste un luogo, zona periferica di una nostra qualsiasi città, dove è possibile toccare con mano il recinto altissimo da cui siamo imprigionati. Occorre farne saltare la tensione elettrica con una metafora ben innescata e poi con il grimaldello di un endecasillabo cercare una maglia rotta nella rete che ci stringe, balzare fuori, fuggire. Con questo plagio montaliano – furto dichiarato – sottolineo la differenza tra la mia lettura critica e la scrittura di Bregoli. Nella sua poesia aleggiano le diverse voci della sua ispirazione e del suo disadattamento che lui trasforma in un afflato forte e originale. Io semplicemente non posso che essere la poesia di un altro.

4 commenti:

  1. "Bregoli ha lasciato la sua maschera di raffinato poeta cortigiano, si è trasformato nel Matto di Re Lear che soffia la verità sull’apparenza di questo mondo contraffatto, quindi è diventato Amleto". Bregoli ha lanciato il suo sasso nello stagno.

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  2. Poesia alta, illuminante quella di Fabrizio Bregoli il quale con i suoi versi dall'afflato forte e originale accompagna il lettore con levità straordinaria nel labirinto della ricerca, della meditazione attiva, delle pause di riflessione: Così si impara a morire / sopravvivendo / alla consuetudine / dell'ora, del non detto / qui, nella disequazione / di parole / e senso,se solo nella provvisorietà / del tempo è commiato.

    Ringrazio di cuore Paolo Gera per questa così articolata e bellissima recensione, Fabrizio Bregoli ovviamente, e Stefano Guglielmin che ci propone sempre articoli di notevole rilievo ed interesse.

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  3. Grazi a voi per i commenti

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  4. Grazie per la vostra stima, mi avete lasciato senza parole.

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