mercoledì 20 aprile 2016

Alessandro Ricci

È uscita di recente un’antologia su un poeta che non può mancare in Blanc, sia per l’originalità della sua indagine, il mondo classico, in particolare latino,  e sia perché il libro contiene una scrupolosissima analisi semiotica di Stefano Agosti. Si tratta de I colloqui di Elipinti (Edizioni d’arte di Enrica Dorna, 2015) di Alessandro Ricci (1943-2004), opera voluta da Francesco Dalessandro, custode testamentario del poeta.

Agosti riconosce a Ricci grande abilità nell’uso della tecnica dei moderni (“ellissi dei tempi forti del racconto; le soppressioni […] degli elementi referenziali […], l’eminenza visiva […], la focalizzazione a ingrandimento di certi dettagli […], l’espansione abnorme della metonimia […], il dispiegamento assai frequente del discorso indiretto libero”, che si applicano, ci dice l’eminente studioso, per attualizzare la temporalità storica, per stare vicino al fatto, togliendogli la patina d’antan che ha uno sguardo quando invece legge nostalgicamente i tempi eroici che mai più torneranno.

Condivisa la lettura di Agosti, da parte mia trovo l’operazione interessante nella misura in cui Ricci dimostra, nei fatti, che la sua è una via praticabile in un’età, la nostra,  dove il tempo storico raccontato sembra chiudersi nella zolla dei decenni, se non addirittura schiacciarsi totalmente nel presente. I poeti civili italiani contemporanei spesso cercano nell’evento storico (la stagione partigiana, in primis), il fondamento di azioni moralmente ancora spendibili nell’oggi corrotto; così facendo, adottano un modello etico a cui il presente si dovrebbe uniformare, per salvarsi. Ne consegue, tra le due aperture temporali, una distanza insanabile, che mette il presente in difetto, sino talvolta a caricarlo di nostalgia dal sapore romantico.

La bravura di Ricci sta nel mettere in secondo piano il lutto per la perdita dell’origine, per focalizzarsi su quanto ancora rimane, ancora si conserva di quell’autenticità ossia l’essere-nel-mondo dell’esserci, quello stare in situazione tra progetto e gettatezza, che costituisce il grande tema del primo Heidegger. Quando per esempio Ricci ci mostra l’imperatore Giuliano passare in rassegna le proprie truppe, “dopo una notte insonne ma non / inquieta”, e lo segue poi in battaglia, colpito dal nemico, e nella tenda fra i generali amici, attraverso strategie retorico-stilistiche e strutturali, sembra parlarci di un uomo vicinissimo a noi, ai nostri tremori e alle nostre preoccupazioni fondamentali. Quando Giuliano l’Apostata si interroga sulle azioni compiute, sulle responsabilità che quelle scelte comportano, lo sentiamo fratello proprio perché l’intenzione di Alessandro Ricci non è di immortalarne l’epicità e nemmeno di additarlo come exemplum, bensì di entrare nel suo intimo, per riconoscerne il travaglio ma anche quella leggerezza che qualche volta i dettagli del mondo ci infondono, particolari che forse non salvano, ma, se diamo loro ascolto, sono capaci di epifania. Si legga per esempio “Baia, un suicidio per acqua”, con quello spostamento continuo dei piani, che rende la passeggiata verso la morte un viaggio avventuroso, qualcosa che assomiglia alla felicità, se solamente il protagonista sapesse cogliere la freschezza dei dettagli (“una notte di luna / ardente” le correnti che balenano nel golfo, la baia fiorita, le barche sul molo, “i sandali di Veranio”), belli proprio in quanto enti caduchi. È come se Ricci volesse comunicarci che, per sentirsi nel vivo della vita, non occorre per forza combattere contro i persiani né che dipendano da noi le sorti di un impero; basta essere consapevoli di quanto la morte di ogni cosa sia fondamentale per una vita autentica, di come, heideggerianamente, la morte sia per l’esserci la più autentica possibilità, liberandolo al possibile anziché alla staticità dell’ente. Per quanto, va detto con chiarezza, questa liberazione poggi sul nulla, sull’infondato.

In questa prospettiva, la vicinanza che Fabio Ciriachi, nel blog “Critica impura”,  trova fra Ricci e Albert Camus non consiste solamente, per entrambi, nel cogliere l’attimo in cui la natura ci benedice con la sua gratuità, “quel pozzo fondo di natura – equivalente a solare gioventù, a confusa beatitudine degli inizi”, ma, più profondamente, nella comune idea che passione e pensiero, morale e verità stiano insieme a dare struttura ontologica all’uomo, che di per sé è un ente ingiustificato.

Se c’è un poeta italiano al quale mi piace accostare Alessandro Ricci, per la precisione e ricchezza lessicale, oltre che per la comune passione verso la cultura latina, questo è Pietro Tripodo. Come scrive Flavia Giacomozzi in Campo di battaglia (Castelvecchi, 2005), “in Pietro non c’è […] alcun ‘snobismo intellettuale’, ma solo estrema cura e ricercatezza”. Lo stesso vale, a mio parere, per Alessandro Ricci, seppur diversissimi nell’organizzazione ritmica e sintattica della strofa, compattissima e tendente all’endecasillabo in Tripodo, spezzata eppure quieta in Ricci.



da  I COLLOQUI DI ELPINTI
“Coup d’idée, Edizioni d’Arte di Enrica Dorna”, Torino 2015


GIULIANO

Allora Giuliano, dopo
una notte insonne ma non
inquieta, all’alba quando
ogni tenda del campo
gli parve una duna come
ben oltre le sabbie,
infinite a perdita d’occhio, lisciate
dal levante che le invadeva, le issava
in un mare di chiaro:
                                        là:
percorrendo piano il perimetro
senza il contegno del capo,
rispondendo con un sorriso
al saluto quasi commosso
delle guardie di turno,
insonnolite all’ora del cambio
– saluti e sorrisi così simili
a quel lontano silenzio vibrato
nell’aria ferma, così diversi
dall’uso, così
nuovi –, pensò alla consapevolezza
e ai sussurri, a quella morbida
e rassegnata complicità,
pensò alle navi
che s’era bruciato alle spalle
i cui fumi forse si mescolavano 
al velo gentile dell’enorme
giornata che si gonfiava,
ad altri pochi momenti,
in un solo ricordo adunati,
invadente ma non spietato,
senza rimpianti.
                               Poi,
pensando a tutti
i suoi uomini che di lì a poco la tromba
avrebbe svegliati, si disse piano
che suoi erano pure l’errore e la colpa
del destino che li attendeva, ma non
del suo, cui mancava
appena qualcosa,
un gesto,
per la piena armonia.



I CAVALLI DEL NEMICO

Un dolore fermo, non acre, forse nel mezzo della corazza,
li aveva scartati tutti. Alcuni non gli parevano
sconosciuti. Al doppio segnale dell’ennesimo
attacco era sembrato inevitabile
scontrarsi un’altra volta
con loro, ma non era
successo. Di tre
o quattro
catafratti invece
ricordava chiara-
mente la furia e la destrezza nelle prime
fasi della battaglia, la velocità
delle fughe e i reiterati
assalti. E le ferite leggere
che gli avevano inferto: pochi graffi
quasi rimarginati, se non proprio
invisibili.

Uno dopo l’altro, li aveva osservati con attenzione.
La fila era stata lunga: di molte,
alte clessidre,
eppure erano le bestie
strappate ai vincitori.

Si chiese allora sgomento quanti cavalli del suo
esercito decimato fossero già nel campo persiano,
inadatto forse
a contenerli tutti, quanti nemici
li avrebbero ridomati, addolciti,
addestrati, infine caracollati
al decisivo assalto, al disastro,
al macello finale.

La filza degli animali catturati, ben più umani
dei pochi prigionieri così meno afflitti,
sembrava finita.

Nel vuoto dopo l’ultimo scalpiccìo,
apparvero nella pianura gialli e sfocati roghi
molto, molto lontani. E s’udirono,                                                                                                                 
ma non appena, strazi e lamenti:
dei piagati, dei moribondi e,
come un’eco,
dei morti.

Così tramontava quella giornata terribile.

Quanto male, misto a quel sordo
vuoto nel petto,
s’accaniva con l’impazienza.

Fu dal buio che s’allargava, a un’irruzione di gelo nel ritardo,
quando emersero i due mancanti: erano stati loro, più loro
di chi li aveva montati, a colpirlo nel petto,
e vide finalmente l’asta a due punte
che l’aveva trafitto:
il primo era un cavallo chiaro, morbido e triste, quasi
luttuoso. L’accompagnava, serpeggiandogli fra le zampe,
un gatto vecchio e ostinato: nella bocca sdentata,
in una presa insicura, la carogna d’un ratto
troppo grosso, ridotta a poltiglia
sanguinolenta.
                       Poi l’altro: un puledro aspro e impaziente,
avido ancora di zuffa, cui s’accodava, a distanza,
a fatica, forse per caso, un bianco
cane tremante.


                                                                                                    

LA SERA


I

“Le fiaccole a rovescio, l’olio
che sfrigola e non cade
dal cielo della tenda, quante
fiammelle guizzano all’ingiù, là
su vedo molte calvizie di comandanti,
dei migliori veterani, qualche
semplice legionario intorno
al mio letto, la resa
così sofferta dei medici,
il bacile del salasso, mosche
ronzanti, il molosso a catena e
al margine del quadro il
pianto muto d’un’ancella che credevo
svogliata o ribelle e mi sbagliavo,
più al centro la pozza del sangue
che uno schiavo deterge.
Ma.
                   Ma non trovo,
non trovo me che lo colo:
nella volta io
non sono dipinto,
manco.
                                                                                                                                            
‘Svellere il giavellotto’,
amarne il cavo: quello
hanno detto e fatto gli amici
con morbidezza, di questo avverto
solo un brusio, quasi
suono – cembali da quale
dove? – da parte
a parte purissimo, piuma,
su e giù,
che accarezza i suoi spiragli
e che m’induce
da vita a morte
senza dolore.

Che c’è di vero in tutto questo?
Hanno issato uno specchio
enorme che mi esclude,
privo solo di me, per rispetto
di me? Forse
ho ben meritato
di loro, e temono ch’io guardi
il mio corpo trafitto?
Ma no, sento che l’hanno coperto
di soffice lana, sono
semplicemente cieco, e se le pupille
sbiadiscono in albume, come si dice
che accada, il cuore crescendo
le sostituisce, fonde
memoria e invenzione, tutti
i granelli della clessidra,
dipinge gli aspetti
di uomini e cose, liscia
i contorni, quasi      
li tocca.


Più lui,
più lui di me dunque v’invita
a calici ricolmi, a festa piena,
alla mia smania, alla mia idea
di gioco.

Non vi riesce questa ch’è,
o non è, così ennesima
una finzione, un mero atto?
                                            Lo so, siete ancora
troppo viventi, non potete
seguirmi, grazie
lo stesso. Ma se
restate, come
mi sembra, a somma distanza
dall’allegria, mummie
tristi, impalati
tormenti, vi
chiedo d’uscire di qui. A rivedere
il giorno, l’aria,
i cavalli”.


II

Come al solito il suo,
non fu un ordine perentorio. Cipressi
di rito o di sepolcro, loriche
impolverate, spade          
scheggiate nei foderi, rudi
sgomenti, rimasero tutti.

Parve a Giuliano invece
d’essere completa-
mente solo,
con quei brani di sé, stati
o mancanti,
che una nostalgia sorridente,
sottilissima e quieta,
non gli volle tacere.

E in quella buia
e lampeggiante tenda
a Giuliano rivenne il bianco
cavallo addormentato nell’horto, fra
il suo risveglio di ragazzo un tempo
e la vista all’alba
del Ponto, trasparenza fra
trasparenze, un addio
dopo l’altro come l’ultimo scettico,
sfiorato sguardo
dei molti amici poco prima
della battaglia. I giusti amori:
i cani Mario e Duilio,
soffici negli occhi più che
nel pelo, due
giovani donne che non
l’avevano amato, volate
di volo azzurro ogni volta che le
guardava: suoni delirati, un non
esserci mai per loro. E rare                                                                                                     
folate d’incontinenza
negli inguini delle matrone, e l’onta,
e i sudori; ma
in quelle mischie d’impudicizia, azzanni
viperini, l’altra,
altissima quota delle lontane, accecanti
ali per sempre: che implacabile
sua devozione, così sparsa,
così persa.
                     E allora la conoscenza
e il dolore. O all’inverso la sofferenza
e il capire, e l’arrendersi, e il non
odiare. Così, imperatore deriso,
ripensò agli inganni evaporati
ai quattro capi
del mondo e alle speranze
terribili: distratti, stordite
dalla stanchezza
e dal fuoco, alle partenze,
agli arrivi d’esagerati
tragitti, senza una pazienza
o un riposo, in mezzo
a caterve d’uomini privo
d’una carezza, una parola,
una vigilanza, una cura. Ma
la foresta fu sua,
o il mare.
                   Suoi? suoi come?
suoi quanto? suoi quando?
Gocce pari d’acqua oleosa.
E tutto gli cominciò intorno
a girare insieme: testa, corpo,
mondo… Che intorno
a che? Non come i molti,
folli galilei, lui
non l’avrebbe
saputo mai.

Mehr Licht...   Perché
                                             la
                                                      luce
                                                                    s’irradia
                                                                                 oltre
             


                                                                        

All’alba del mattino dopo – 26 o 27 giugno del 363 d.C. –, Ammiano Marcellino, che aveva assistito alla morte del suo imperatore (e che avrebbe descritta nelle sue ‘Storie’), mentre osservava l’opera paziente dei medici imbalsamatori (il cadavere avrebbe dovuto vincere calura e distanza per essere inumato a Tarso, in Cilicia) e cercava di ricordare le volte in cui Giuliano gli aveva detto di sentirsi morire, quando citava sorridendo un’epigrafe funeraria sull’Appia o chissà dove: “Sono morto mille volte, ma così mai”, ne sentì la voce bussargli piano alle tempie, mentre fuori uccelli partivano e soldati arrivavano nei pressi della tenda a deporvi un’impronta o una lacrima, subito riarsa in quella sabbia desertica:

Mehr Licht… Perché la luce s’irradia
oltre l’ostacolo? Lo fa anche il pensiero?
l’amore? l’anima?... Io non devo
alcun pollo ad Asclepio: devo
me, nessun oltre
me… Je vois un port rempli de voiles et
de mâts… Non viverti, non
t’esaltare: consider Phlebas, who
was once handsome and tall
as you: fa’ scivolare questi
tuoi versi estremi
nel cavo della
ferita.
Poi muorine,
a loro insieme.

Per tutto il giorno, camminando piano nel campo sotto un sole stranamente velato, mentre gli ufficiali del genio davano ordini quasi sussurrati ai soldati che smontavano le tende, Ammiano sentì ripetersi quelle parole, fino ad impararle a memoria. Vi riconobbe Platone, ma non chi parlava in quella, o quelle lingue strane.





Alessandro Ricci, nato il 14 agosto 1943 a Garessio (CN), un “paesone al fondo” dell’Alta Val Tanaro, dopo la laurea in lettere alla Sapienza, con una tesi su Beppe Fenoglio, sceglie di fare l’insegnante.
Nel 1972 partecipa alla realizzazione del film di Vittorio De Seta Diario di un maestro (è il vero maestro che deve preparare i ragazzini interpreti del film). Da allora, lavora anche come sceneggiatore.
Alcune sceneggiature, scritte in collaborazione col regista Claudio Bondì, diventano film per la televisione e sono pubblicate nel 1980 dalla ERI in un volume dal titolo La storia a misura d’uomo, con introduzione di Giulio Cattaneo. L’ultima sceneggiatura è tratta dal poemetto De reditu suo del poeta tardo-latino Claudio Rutilio Namaziano; il film, con la regia di Bondì, esce nel 2003 col titolo De reditu – Il ritorno.
Fumatore accanito, Ricci è morto di tumore ai polmoni il 27 marzo 2004 a Roma. Riposa, come volle, accanto al padre, nella nativa Garessio.

Ha pubblicato in vita due soli libri di poesia: Le segnalazioni mediante i fuochi (1985) e Indagini sul crollo (1989), ormai introvabili. Un terzo, I cavalli del nemico, da lui preparato, esce postumo nel maggio 2004. A cura di Francesco Dalessandro, sono state pubblicate due raccolte d’inediti: L’arpa romana (2007) e L’editto finale (2014). I colloqui di Elpinti è un’antologia delle sole poesie di argomento storico. L’accompagna il saggio, L’antico e il tempo, di Stefano Agosti.



5 commenti:

  1. Fabio Ciriachi20/4/16 22:38

    Ringrazio Stefano Guglielmin per l'accurata acutezza con cui contribuisce alla conoscenza della poesia di Alessandro Ricci

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  2. Analisi acuta, 'illuminante', ricca di preziosi incitamenti all'approfondimento di un poeta alto come Alessandro Ricci, ma da molti sconosciuto. Apprezzo molto il riferimento a Fabio Ciriachi, profondo conoscitore della poesia di Ricci e a Pietro Tripodo. Non a caso Stefano citi "Campo di battaglia", un saggio con una accurata e incisiva nota introduttiva di Gabriella Sica nel quale Flavia Giacomozzi(sua allieva) pone lo sguardo sulla poesia italiana degli anni ottanta nel secondo novecento. Di Alessandro Ricci ho avuto il gran piacere di leggere in primis L'arpa romana e l'Editto finale. Ne scrissi anche una recensione sul blog di Sebastiano Aglieco "Compitu re vivi". Soltanto in un secondo momento ho avuto modo di leggere I colloqui di Elpinti e trovo quantomai opportuno il tuo accostamento a un altro poeta alto come Pietro Tripodo, anch'egli purtroppo scomparso prematuramente, il quale a sua volta è stato un grande e acuto conoscitore della poesia di Beppe Salvia. Ricci, Tripodo, Salvia, poeti appartati e schivi, ma grandi. Ciò mi consola molto, rafforza ancor più in me la convinzione che il messaggio poetico, quando è autentico, fa lunghi voli, ma poi centra il bersaglio. Grazie Stefano e auguri per il tuo nuovo bellissimo libro! Rosa

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  3. Grazie Rosa. Quanto dici mette in luce il movimento della poesia romana nella sua fase più pregnante.

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  4. Segnalo anche, a proposito de I colloqui di Elpinti, una dettagliata recensione di Antonio Devicienti su "Carteggi letterari".

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