lunedì 1 febbraio 2016

Maria Grazia Insinga


Raccolta vincitrice di “Opera prima 2015”, Persica (Cierre grafica-Anterem Edizioni) di Maria Grazia Insinga, si inserisce nel ventaglio di poetiche presentate da anni da questa singolare collana veronese, sostenuta da un autorevole consiglio editoriale guidato da Flavio Ermini. Singolare perché il consiglio finanzia metà dei costi di produzione, ma anche per l’azzardo di scegliere sempre scritture difficili, non disposte a compromessi con un pubblico principiante o che cerchi diletto. Il premio è inoltre avvallato dal litblog “Poesia 2.0”, uno dei più autorevoli siti che si occupano di poesia contemporanea.

Esce dunque con le più felici premesse questo libro della Insinga, autrice siciliana, e lo si sente. Anzitutto per quel gusto del contagio plurilinguistico, dello parola usata come una vanga per scavare nel corpo della realtà, sempre intesa nella sua valenza tragica. Penso alla Insana e a tutti i grandi narratori, da Verga a Consolo a D’Arrigo, abili anzitutto nell’organizzare un discorso in cui il tragico si gioca nello stile ancor prima che nella trama. Ad essi va aggiunto Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il cui tardo racconto, Lighea, costituisce il motivo ispiratore di Persica. Entrambi infatti mettono in scena il canto afasico della Sirena, il suo aprirsi nell’ambiguità dirompente di cui ogni silenzio è capace. “Lighea resa all’acqua / senza rudimenti di nuoto / – l’afasia – è un infrangersi / che soverchia la voce”.

Il gran rumore delle parole pronunciate da Maria Grazia Insinga, il suo canto spigoloso sembra galleggiare fra i marosi di un bianco mare abissale, silenzioso, del quale non possiamo che cogliere un flebile eco. Il senso dell’opera si produce in questo attrito, nello scontro fra l’immobilità silente del già stato, del perduto, dell’origine doloroso di ogni evento, e la superficie mossa, canora, della costruzione versale, che sembra procedere come ghiaccio artico alla deriva, con i suoi detriti (il senso residuale e in parte decontestualizzato di ciascun elemento) imprigionati dal freddo dello stile. Ecco un esempio: “isola persica bocca / di terra lilia e lingua di terra nera libro porta e / morso segno logo e nicchio anaïs femmina e / conchiglia”, dove la concatenazione analogica, qui e altrove, vira la storia in mito, sotto il segno della voce in guerra col silenzio, dell’hybris in lotta con la quiete.

A governare il canto è la sua parcellizzazione, la forza della sillaba in un viaggio senza riparo, sia per il poeta e sia per che dice io nel testo, spesso accostato a “l’altra” (“io, l’altra sobilliamo i nomi della luce”) in un conflitto che s’immette nel profondo dell’identità ed è fortemente legato alla necessità destinale, come ci rammenta lo stesso testo incipitario, “Partenogenesi”: “Leggevo a caso le fratture le strisce / il pellegrinaggio, la purezza fulva a me predestinata”. Una necessità che, modernamente, incontra il caso, e che trova, nella “purezza fulva”, l’ossimoro perfetto per nominare la condizione del Malpelo verghiano, innocente nella misura in cui non riesce a vedersi vivere, come direbbe Pirandello. Allo stesso modo, la Insinga agisce stando attaccata alla metamorfosi del reale, ne diventa la bocca parlante, che ci racconta lo sfacelo dopo la perdita degli orizzonti, tra Cibele e Proserpina, tra l’Orfeo antico e quello di Campana, una bocca che, mordendo la pesca (la persica), vede il futuro di tutti noi, e per noi inorridisce. Ma anche, come rileva Bruno Moroncini nella postfazione, ci indica dove andare, la meta a cui siamo destinati, ossia “verso il mondo che crolla, verso il buio, verso l’altro bestiale e divino”, in una visione in cui gli opposti agiscano con sinergia vitale.



Partenogenesi

La tigre voleva solo nicchiarsi nella mano
credo fosse gravida e non esisteva per questo
alcuna spiegazione. Capire da che parte
fosse entrata era impossibile e all’ora delle doglie
senza alcun mondo - se non un delta tra le schiuse -
spaccavo, leggevo a caso le fratture a strisce
il pellegrinaggio, la purezza fulva a me predestinata.




La drupa

Parlava e così fui sommerso, dopo quello del sorriso e dell’odore,
dal terzo, maggiore sortilegio, quello della voce.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “Lighea”


Non s’apre la drupa carnosa
la forzi e fuoriesce la voce il sortilegio
argentea moneta a rovescio incuso il delfino
guizzante nel porto falcato fuori corso e prima e
dopo e in corso d’opera voce corriva o circospetta
nelle scorribande del timbro ode e ancora sigillo non
casuale occorrenza corre ricorre pietra sempre corrosa dall’acqua…

… e raffiche di realtà penetrano il sacro recinto di ulissidi per forza
io senza rumore a ogni punto di morte recito il nome
forzo la sbergia recido litanie isola persica bocca
di terra lilia e lingua di terra nera libro porta e
morso segno logo e nicchio anaïs femmina e
conchiglia fòlade risacca e lunaria cibele
lighea e luce e semenza e poesia.




Santa Maria dello Spasimo


Dai nomi falsi allo spasimo
io, l’altra sobilliamo i nomi della luce
sibilliamo tagli di confine
carnei allo scadere del mondo
e il carniere colmo al muro
- sublime doppio - al muro
dove finisce il mondo
permane di bene, male.

Implora d’indulgenza il tremore alla luce
chiedile qual è la paura, al panico di cosa
fa’ che mai più nomini
dai solo nomi falsi e lascia che fluttui
dentro il buio, riprenda il suo schianto
lascia che lei ti porti con sé in alto
lo sai? - in immagini rispondo ogivale
mia prima d’esser mia.


*


Cala a sgravare l’acqua
per i catusi e cala cala
su Calafarina la grazia
scabra di infanzie non più
immobili quando ancora
la luce non cala quando
ancora la rabbia ci frana.


*


Il corpo, la biblioteca
perduta a discriminare
tutto nell’indistinto:
gli occhi all’indietro
un rosso alla persica
la veggenza nel morso.



Lo squaglio


Il moto a comandamento di luce
la soglia dei brusii appena accennata
l’unità nell’occhio e il dettaglio ardito
che arde una cera ignara allo squaglio.




Salmo


Dentro il libro folle a marosi.
Qui fuori nessuno. E di nessuno
rosa di nessuno verso di nessuno direzione
di nessuno contro di nessuno vento di nessuno
corrente di nessuno voltare di nessuno andare
a capo di nessuno ultimatum di nessuno riguardo
di nessuno paragone di nessuno prossimità
di nessuno approssimazione di nessuno sangue
di nessuno denaro di nessuno acqua che precipita
di nessuno rovescio di nessuno pari di nessuno
pollice di nessuno dipinto di nessuno papiro
di nessuno moneta di nessuno credito di nessuno
gonfalone di nessuno salmo di nessuno nessuno.



Maria Grazia Insinga nasce in Sicilia il 20 aprile 1970. Dopo la laurea in Lettere moderne, il diploma in Conservatorio e in Accademia, l’attività concertistica e di perfezionamento e l’insegnamento nelle scuole secondarie, si trasferisce nel 2009 in Inghilterra per poi tornare in Sicilia quattro anni dopo. Nell’ambito degli studi musicologici censisce, trascrive e analizza i manoscritti musicali inediti del poeta Lucio Piccolo. Suona in un duo pianistico ed è docente di Pianoforte presso l’Istituto “Vittoria Colonna” a Vittoria (Ragusa). Nel 2014 la raccolta La porta meta fisica riceve la segnalazione al Premio Montano. Sempre nello stesso anno - con il sostegno dell’Assessorato alla Cultura di Capo d’Orlando - idea il Premio di poesia per i giovani “Basilio Reale” La Balena di ghiaccio giunto alla seconda edizione e presieduto da Emilio Isgrò. È membro della giuria del Premio Internazionale di Poesia Don Luigi di Liegro, partecipa al Rito della Luce di Antonio Presti nel 2014 ed è ospite di Enzo Campi a Bologna in Lettere nel 2015. Alcuni testi si trovano nell’antologia Il rumore delle parole (Edilet) e in vari blog. Nel 2015 vince il concorso Opera prima iniziativa editoriale a cura di “Poesia2.0” con la silloge Persica.


9 commenti:

  1. un flebile eco? ma non è una flebile eco? Ma chi è costui che scrive recensioni senza conoscere la lingua italiana?

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    1. La Crusca: "sebbene meno ricercato, si trova anche un impiego di eco al maschile singolare.". Ciao Anonimo saputello

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  2. Grazie di cuore Stefano per la tua attenta lettura.

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  3. Faccio notare al dotto Anonimo che nel vocabolario Zingaretti della lingua italiana Eco è qualificato sia come maschile che come femminile, mentre al plurale è solo maschile. Mi permetto di aggiungere che la nota critica del recensore è molto buona mentre raffinate e colte sono le poesie di Maria Grazia Insinga.

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    1. Grazie Renato per la precisazione e per il commento.

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  4. fortunata scoperta per me, questa lettura della Insinga con aperture e chiuse eleganti, leggere. Grazie della proposta lettura. Maria Pia Quintavalla

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    1. Grazie infinite per il gentile commento a Maria Pia Quintavalla

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  5. Un grazie anche da parte mia!

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