venerdì 10 aprile 2015

Francesco Tomada


Due nuclei compongono l’universo poetico di Francesco Tomada: la famiglia e il luogo natio, entrambi terre madri dove piantare radice, che “ti fanno sempre  sentire al centro esatto del mondo” a patto che siano abitabili. È nel desiderio di ricomposizione di quei nuclei, franti per necessità storica e biografica, che si gioca la sua parola poetica, nucleo terzo e finalmente centrato sull’ordine comunicativo, sulla disambiguazione sintattica, tale da farlo sentire a casa, al centro del mondo, nel senso antropologico di luogo in cui avviene l’epifania del sacro e, dunque, del senso.

Portarsi avanti con gli addii (Raffaelli, 2014), “chiude e completa […] un trittico prezioso”, scrive nella bellissima postfazione Fabio Franzin, riferendosi ai due precedenti libri dell’autore goriziano, L’infanzia vista da qui (2005) e A ogni cosa il suo nome (2008), nei quali, appunto, padre, madre, sorella, moglie e figli – creature della terra, ciascuna in un travaglio proprio, che egli racconta con partecipata compassione, a volte, o rabbia, o amore – e confine geopolitico, che tiene insieme Mediterraneo e Mittleuropa, Triveneto e Slovenia, Caporetto e lotta partigiana, sono messi in scena per necessità esistenziale, identitaria, prima che estetica e civile. Tutto questo nella consapevolezza che “la vita è una somma algebrica di piccole salvezze” ossia che sia compito di ciascuno assumersi la responsabilità della relazione felice con l’altro, senza aspettarla da una decisione superiore: non c’è infatti rivoluzione né redenzione collettiva, bensì un camminare insieme, riconoscendoci mortali, creature sempre in bilico fra il sacrificio di sé e l’atto egoistico, tra la fortuna e la scelta.

Torniamo all’assunto di partenza ossia alla discrepanza fra reale e ideale quale movente della scrittura tomadiana entro una prospettiva sacrale, dove il cerchio armonico salva mentre le crepe (domestiche e sociali), per quanto minuscole, lasciano spazio alla solitudine, all’incomunicabilità, avvertita in tutto il suo dramma esistenziale e perciò esorcizzata nella vita come nella poesia, che qui ha il compito di tradurre per tutti la verità della vita ordinaria. Non ci sono infatti eroi tragici nei sui libri eppure, egli ci dice, tutti meriterebbero di essere almeno nominati, per avere vissuto tra miseria e gloria, come dei gesù crocifissi dalla natura o dalla storia e a volte salvati dall’amore di qualcuno.

Il nucleo familiare è il più denso e commovente del libro. Se, nei precedenti, qualcosa rimaneva non detto e il racconto sui genitori si fermava a un’età ancora salubre, ora padre e madre sono raffigurati nei loro ultimi giorni, con le piaghe e gli odori dei loro corpi che trasmettono la bellezza dei vivi nella loro fragilità. Splendida la poesia sulla vecchia madre, lavata come una bambina e finalmente conosciuta, senza vergogna: “Ho imparato prima ad essere padre”, scrive il poeta ricordando nei versi precedenti il cambio dei pannolini ai suoi piccoli, “e solo dopo figlio / appena in tempo, mamma, ma ce l’ho fatta // adesso puoi andare” . Un addio secondo natura, crudele ma inevitabile “come dirsi buonanotte” quando è l’ora di separarsi. Un addio che chiude il cerchio, trasformando il dolore in seconda nascita per il figlio, ora pronto a diventare uomo.

Più conflittuale il saluto al padre in “A te papà non racconto”, organizzato nei modi elencativi cari a Eros Alesi quando scriveva: “Caro Papà tu che ora sei nei pascoli celesti […] Che avevo 6-7 anni quando ti vedevo Bello – forte – orgoglioso – sicuro – spavaldo rispettato e temuto dagli altri, che avevo 10-11 anni quando ti vedevo violento, assente, cattivo”. Scrive Tomada: non ti racconto “di come da piccolo mi sembrassi invincibile / quando indossavi la divisa militare / quando stendevi le malte / quando sparavi con la carabina / e lo sentivo che mi avresti protetto per sempre // di come crescendo le cosa siano cambiate / e tu mi abbia prima trascurato e poi dimenticato / perché non ero il tipo di figlio che volevi”. Due strofe che vogliono essere limpide nel dettato e crude nel messaggio, anche se poi, per il padre, tutto stempra in una vita coniugale difficile da gestire, che ormai il poeta, padre a sua volta, ha compreso e forse giustificato.

Dei propri cari, Tomada ha sempre parlato. Come in un dialogo privato, a cui noi partecipiamo quasi fossimo vecchi amici di famiglia. Veniamo a sapere molto della moglie Paola, dei sui tre figli, qui e nei libri precedenti. E mai che traspaia un sentire piccolo borghese, una meschinità. Se c’è, quella resta fuori dalla poesia perché questa non soltanto mette in forma a chiare lettere e per tutti ciò che sentiamo, ma vuole anche, e ci riesce, calcare la sua funzione classica, diventare sapienza: parecchie sono le chiuse dalla forza aforistica (per es. la già citata “la vita è una somma algebrica di piccole salvezze” e: “Siamo capaci di disegnare il percorso di un fiume, // non la sua ira” oppure: “Non è detto che chi ti sta aspettando / sia sempre qualcuno che ti vuole bene”). Sapienza che nasce da una sensibilità acutissima, che vede l’ombra anche là dove la gioia splende. Ed è qui lo scarto fra desiderio e biografia cui riferivo all’inizio: se con il padre il conflitto è nominato, nella propria famiglia non accade nulla di straordinario, se non l’inevitabile distanza che ciascuno chiedere per crescere o per respirare, riconosciuta dal poeta come crepa potenzialmente distruttiva. Un’ansia che la disfunzione cardiaca del figlio maggiore (“Le apparenze ingannano”) e la scomparsa prematura della sorella hanno sicuramente contribuito a creare, sorella mutata in spirito della puerpera, in “letovana”, alla quale dedica due poesie centrali, dominate dal suo fantasma domestico, indimenticabile.

Il tema della memoria, principalmente covato nel nucleo familiare, ha una sua consistenza ineludibile nell’adolescenza: “Qualcosa che ti porti sempre dentro / anche se non sei più tu”, scrive nella poesia che dà il titolo al libro, un chiodo di gioia e ingenuità, di scoperta e lotta, piantato per sempre nella personalità adulta. E con quegli occhi, Tomada guarda il suo mondo, che ha anche una memoria storica, leggibile nell’intricata vicenda dei confini italo-sloveni e, prima, italo-austroungarici. Un tema presente sin dal primo libro, a ribadire l’importanza di una terra comune dove aspettare, operosi, il futuro. La sua poesia vuole infatti avere anche questo compito: farsi terra dove benedire le creature che l’attraversano, i lettori e gli  uomini che la vivificano. Anzi, le molte donne, vere protagoniste di questo libro: madri, operaie, mogli, amiche, tutte a portare un carico di fatica e di sopportazione (a volte di rassegnazione), ma, nel profondo, mai sconfitte. E perciò portatrici di vita, per sovrabbondanza di essere. Lo dice benissimo questa poesia coniugale, che riporto integralmente: “Lo puoi vedere anche nei miei occhi: / sono stato un bambino con poca gioia // invece il tuo sorriso esplode spesso senza alcun motivo // allora ho pensato che ne potesse avanzare per me / e anche per altri // per questo è nel tuo ventre / che ho cercato i miei figli”. Il verso finale parla del dono e dell’accoglienza, parla dello spirito d’avventura e del pericolo che ogni viaggio comporta. E parla dell’amore, che riassume dono, accoglienza, pericolo e avventura, a partire da un fuoco conosciuto nell’infanzia e che ci tiene vivi in seguito. Se poi, come Francesco Tomada, hai il dono della poesia, non puoi sottrarti a questa responsabilità, che rende conto dell’umano tremore dei viventi ai viventi stessi; animali compresi, direbbe Rimbaud.

Due parole sulle immagini che corredano Portarsi avanti con gli addii: 8 disegni a china dello scenografo Anton Špacapan Vončina, lirici per la carica analogica e il segno sospeso, di un surrealismo delicato, che accompagnano con garbo le sezioni del libro, ben impaginato da Raffaelli.



Sez. prima: Penso sempre a tante cose

III.    La grammatica

Quando i bambini cominciano a parlare
non pronunciano frasi intere
ma singole parole ridicole e imperfette
però palla è palla
gatto è gatto
ed è una cosa imparata che resta per sempre

a me di tutto l’italiano basterebbe poco
soltanto qualche vocabolo, ma da dire con quella sicurezza
come madre padre figlio
e la parola casa come una parentesi che chiude
la parola noi



IV.     Gli anni di piombo


Quando ritrovarono il corpo di Aldo Moro
nel bagagliaio di una Renault rossa
oppure
quando il Partito Comunista alle politiche
prese più voti della Democrazia Cristiana

ricordo il silenzio assoluto di mio padre
credo pensasse che cosa accadrà adesso?
ma non lo diceva

è lo stesso silenzio con cui ci guarda oggi
suo fratello i miei figli e me
ormai senza capire chi siamo

la vita intera passata a combattere
contro il nemico sbagliato

alla fine non è stato il comunismo
ma la malattia
che ci ha resi tutti
spietatamente uguali



VI.     L’Italia (è un melograno)


Io in vita mia ho comprato e trapiantato un unico albero
un melograno

ho scelto un angolo del giardino
da dove si vede la ghiera dei monti
dal San Gabriele fino al Nanos
quella cresta è stata Italia e Jugoslavia e poi Slovenia
è stata terra dolorosa e di rancore

i confini dovrebbero essere come gli orizzonti
quando ti muovi si muovono anche loro
se ti fermi si fermano con te
ma ti fanno sempre sentire al centro esatto del mondo

e patria è dove
un uomo pianta un melograno
e può aspettare di mangiarne i frutti


Sez. seconda: Terra di nessuno


I.       Le donne della Seleco



Le ho viste uscire alla fine del turno
camminando ma senza toccare il suolo
guardando i lampioni ma senza vedere
la luce e mentre svanivano le ho
immaginate aprire la porta
baciare i figli scaldare in forno
la cena e poi ripulirsi e a volte
giacere sotto un marito qualsiasi
con l'aria di chi da anni ha imparato
che manca sempre mezz’ora di troppo
alla fine del giorno


Sez. terza: Otto polaroid da Campoformido

II.

Eravamo questo:
le partite a calcio nel pomeriggio
borc di sore contro borc di sot
nel campetto dietro l’Osteria al Trattato

io giocavo in porta
ero proprio bravo a tuffarmi ma soltanto verso destra
sarei potuto diventare davvero un buon giocatore
però a metà, senza simmetria

non ho rimpianti, questo no
l’unico segno rimasto
è che sorrido senza un motivo apparente
se capita che in mano mi resti
un calzino spaiato



Sez. quarta: Portarsi avanti con gli addii

VIII.    Portarsi avanti con gli addii, pt. II


Il silenzio è la materia di cui sono fatti i tronchi degli alberi
i sassi
e spesso anche mia madre

è il pettirosso ucciso dal gatto
che si decompone nella terra del giardino

il silenzio cementa le malte dei muri
si stringe sui chiodi piantati
abiterà le stanze quando i nostri figli
saranno andati via

io e te quel silenzio
dovremo vuotarlo come un salvadanaio
per vedere se prima
lo avevamo riempito


Sez. quinta: Via Degli Orzoni (a mia madre, a mia sorella)

II.      Il nono anniversario


Le donne morte di parto diventano spiriti
Letovane, si chiamano così
di notte le puoi sentire lungo il fiume Stella
lavano i vestiti della famiglia che era loro
insomma aiutano per quanto
possono aiutare

perché mi viene in mente questa storia
della Bassa adesso

Stefania ci sono giorni in cui riesco quasi a non pensarti
non oggi
non oggi che nostra madre
ha chiesto di celebrare una messa per te
sicuramente ti ha anche portato dei fiori
non oggi che guardo il disordine in casa
il mucchio di biancheria sporca che trabocca dalla cesta
                                              e comincio a lavare



VI.     Anime salve


Dieci anni fa cambiavo i vestiti ai miei bambini
lavavo la loro nudità e lo sporco
prima di averli pensavo che mi avrebbe impressionato
e invece no

oggi faccio lo stesso con te
e quel pudore assoluto che ci ha sempre accompagnati
non esiste più, non c’è vergogna
in nessuno dei due

ho imparato prima ad essere padre
e solo dopo figlio
appena in tempo, mamma, ma ce l’ho fatta

adesso puoi andare


Sez. sesta: E poi, noi

II.      A te papà non racconto


di come da piccolo tu mi sembrassi invincibile
quando indossavi la divisa militare
quando stendevi le malte
quando sparavi con la carabina
e io sentivo che mi avresti protetto per sempre

di come crescendo le cose siano cambiate
e tu mi abbia prima trascurato e poi dimenticato
perché non ero il tipo di figlio che volevi

di come tu mi abbia fatto scavalcare
una rampa intera di scale con un unico calcio
avevo sbagliato ma la tua rabbia
non era soltanto contro di me

di come io poi ti abbia scoperto misero e meschino
di come fra le poche cose che mi hai insegnato
la più importante sia stata l’odio, quello vero

di come io fossi un adolescente presuntuoso
dunque convinto di avere sempre ragione

di come tu non mi abbia telefonato per più di vent’anni
e io ti chiamassi solo per le ricorrenze
dimenticandone qualcuna ma senza sentirmi in colpa

di come ormai ci siamo solo io e te
di come io sia ancora convinto che avevo ragione

di come adesso che sei vecchio tu abbia perso tutto il tuo potere
non sei più invincibile anzi
sei già vinto

di come mi guardi con gli occhi troppo trasparenti
di chi non ricorda più nulla
chiedendomi le cose importanti e quelle banali con lo stesso tono

di come non sono capace di perdonarti
ma almeno mi sforzo di dimenticare e spero che basti
ho aspettato per tanto tempo una possibile vendetta
che adesso non mi serve più

di come tu ora ti fidi unicamente di me

di come non so se questo sia il tuo modo di volermi bene
o soltanto aggrapparti a me perché ti sono necessario
se questo sia il mio modo di volerti bene
o soltanto accudirti per puro senso del dovere

di come sia inutile anche domandarselo
perché qualsiasi cosa sia dobbiamo tenerla stretta
è tutto quello che ci resta



Francesco Tomada è nato a Udine nel 1966 e vive a Gorizia, dove insegna Biologia e Chimica nelle scuole superiori. Ha partecipato a letture ed incontri nazionali ed internazionali, così come a trasmissioni radiofoniche e televisive in Italia e all’estero. I suoi testi sono apparsi su numerose pubblicazioni, e sono stati tradotti in una decina di lingue straniere.
La sua prima raccolta, “L’infanzia vista da qui” (Sottomondo, 2005), ha vinto Premio Nazionale “Beppe Manfredi” per la migliore opera prima; la seconda raccolta, “A ogni cosa il suo nome” (Le Voci della Luna, 2008), ha ricevuto riconoscimenti in diversi concorsi a carattere nazionale. Ma i premi che non ha vinto sono molti di più.
Recentemente ha curato, per le Edizioni Biblioteca dell’Immagine, un’antologia sulla produzione letteraria della Provincia di Gorizia dal 1861 ad oggi.


17 commenti:

  1. E' un libro capace di entrarti nel cuore e di restarci. Con il suo sguardo sincero fino a far male, Francesco Tomada ci porta nel mondo onesto e nudo di quando le cose si sono attraversate dal proprio angolo intimo, con un ascolto profondo. Perché credo che solo così, solo con consapevolezza onestà e attenzione (che spesso richiede solitudine - incontro con se stessi), si possano *vedere* davvero le cose per farle proprie e donarle ugualmente limpide a chi si ritrova a incrociarne la strada.

    Davvero con tanta stima e gratitudine saluto qui Francesco.

    Ciao Stefano, grazie anche a te per il tuo lavoro prezioso.
    iole

    RispondiElimina
  2. Grazie, Stefano, per questa recensione. Hai colto molto bene le qualità che rendono così autentica e riconoscibile la poesia di Francesco. Quella capacità di abbassare la voce, fuggendo qualsiasi tentazione retorica, per arrivare al cuore delle cose. Anche dopo molte riletture, il senso di meraviglia è immutato.

    Guido

    RispondiElimina
  3. che bell'incrocio... anche qui si toccano tutti i punti del dolore, che sento, precisi..

    RispondiElimina
  4. Apprezzatissimo. Ho avuto il piacere di leggere sue poesie da Nazione Indiana ed é stata una folgorazione. Ottima anche la tua nota critica, come sempre hai colto nel segno.

    RispondiElimina
  5. Che dire, Stefano? Ho sempre apprezzato le tue letture, perché sono molto di più che letture. Così ritrovarmi adesso ad esserne oggetto mi onora nel profondo. E le tue parole sono di grande lucidità, mi spiegano a me stesso. Mi fermo qui, come ti ho già scritto non sono molto bravo nei ringraziamenti, sono imbarazzato per davvero.
    Grazie di cuore a te, e uno a uno a chi è intervenuto a lasciare un segno.

    Francesco t.

    RispondiElimina
  6. Ho conosciuto questo grande poeta italiano la prima volta in una bellissima traduzione in greco. Poi ci sono state tante altre cose, perché dietro la vera poesia , dietro la vera scrittura , ci sono persone vere e di conseguenza tante altre cose. Però io a novembre, capita, rubo melograni dai muretti di pietra. Chiedo venia.
    Abbraccio. Angy

    RispondiElimina
  7. Ho scoperto la poesia di Francesco con il suo secondo libro: 'A ogni cosa il suo nome'. Ricordo che ne rimasi folgorata - reazione alquanto rara quando leggo autori maschili. Poche volte infatti le poesie scritte da uomini riescono ad emozionarmi e a colpirmi tanto. Sto leggendo il secondo libro ed ecco che ritrovo la stessa scrittura profonda, immediata, semplice. Curatissima. Una poesia che entra dentro con prepotenza. Un saluto a Francesco con i miei vivi complimenti per questo nuovo libro, e un applauso a Stefano per questa bellisima lettura. Daniela (Raimondi)

    RispondiElimina
  8. Grandissima bella umanità che si fa parola con naturalezza e precisione. Chapeau. luisa p.

    RispondiElimina
  9. Parole asciutte eppure mai secche, la quotidianità sofferta della poesia onesta, che dice e riporta tutto in alto passando per la terra. Francesco Tomada, ancora una volta, lascia il segno, cesella e colpisce dritto al tronco delle cose. Maurizio Mattiuzza

    RispondiElimina
  10. Siamo arrivati al punto.
    Rubo le parole ad un maestro come Carver per farne una domanda: "Di cosa parliamo quando parliamo di poesia?". Bene, oggi, nell'esplosione della "supernova" dei canoni, tra i neo, trans e post dei modernismi, barocchismi e classicismi (e chi più ne ha ne metta), ecco, io direi: di Tomada. Perché Francesco ha una poesia che tiene insieme il "grado zero" della definizione di poesia (ossia la massima concentrazione delle emozioni contenute in un testo breve), limpidezza formale (struttura narrativa archetipica "incipit, sviluppo, climax") e "sostanza umana" di ogni testo.
    E' tutta una perifrasi per dire che stiamo parlando di universalità.
    Ovvero, di ciò che, leggendo, ci fa precipitare dentro il corpo dell'autore, e sentire, la poesia, come parte sensibile della propria carne.
    Nino Iacovella

    RispondiElimina
  11. Grazie ancora, davvero, per il vostro apprezzamento.

    Francesco

    RispondiElimina
  12. Come sa Francesco, davvero ho pianto su questo libro, davvero dilania la sezione Via degli Orzoni.
    Vi sono brani che scuotono non solo per la spinta spontanea ad immedesimarsi (ogni lettore, credo, è portato a rivivere su queste pagine i suoi lutti mai completamente elaborati), ma anche per la rivelazione che ogni perdita non si estingue e che ogni assenza dovrebbe farci riflettere sulla nostra caducità, su quanto di noi resterà di umano e benevolo. Sì, questa che leggo e in cui mi riconosco è parola universale, che mi dice del senso del vivere e del morire.
    Un caro saluto a Francesco e a Stefano,
    annamaria ferramosca

    RispondiElimina
  13. Una poesia davvero notevole; una parola forte, densa, emozionante. Grazie
    Paolo Agrati

    RispondiElimina
  14. Poesia sotto forma di diario, stile asciutto e chiaro
    si legge scandendo le parole come una prosa
    non è musicale, è particolare
    e senza età.

    RispondiElimina
  15. La musica sta nell'attenzione al ritmo e a sonorità eufoniche

    RispondiElimina
  16. a tratti è un ritmo faticoso
    comunque non ho detto che non mi piacciono, ho detto che le trovo particolari e le leggo più come si legge un diario.

    RispondiElimina
  17. questo suo andare delle parole
    mi alza sempre la pelle. Poeta. fin nel midollo

    RispondiElimina