domenica 19 aprile 2015

Daniele Maria Pegorari, Il fazzoletto di Desdemona

Questa mia recensione è uscita nel numero 286 de "l'immaginazione", marzo-aprile 2015 (Manni editore). 

Il titolo esatto del libro è Il fazzoletto di Desdemona. La letteratura della recessione da Umberto Eco ai TQ (Bompiani 2014) 


Pegorari è un raro intellettuale che ha fatto tesoro del disincanto vittoriniano laddove, nell’editoriale al primo numero del “Politecnico”, invita gli scrittori a occuparsi anche “di pane e lavoro”. Il fazzoletto di Desdemona, infatti, racconta la disfatta politico-economica italiana del XXI secolo e gli incalcolabili danni, sotto il profilo esistenziale e dei diritti di cittadinanza, delle fasce deboli, primi fra tutti i giovani salariati e il ceto medio. Questa realtà emerge attraverso l’analisi delle opere narrative (una quindicina, uscite fra il 2004 e il 2013) dei trenta-quarantenni, fautori di una rinascenza civile antiepica, da leggere sia come espressione autentica di una generazione senza futuro, consegnata alla precarizzazione professionale e identitaria, e sia come effetto dell’industria culturale, che, dagli anni sessanta, assorbe le spinte antagoniste per metabolizzarle nel mercato.

L’indagine sociologica e l’analisi letteraria sono i due fili che tessono il fazzoletto di questo giovane studioso, uno dei pochi accademici a seguire seriamente lo svolgersi della produzione estetica delle nuove generazioni, qui intersecata con le motivazioni socio-economiche e con il processo storico in atto, particolarmente colpito dalla crisi del 2008.

La domanda d’apertura mette subito in chiaro l’obiettivo del saggio: che ne è della letteratura in un’epoca di recessione? E, ancora più profondamente: che ne è della realtà nella fase postmoderna, laddove il moltiplicarsi delle agenzie culturali, l’evoluzione tecnologica e l’ipertrofia dell’informazione agiscono sui fenomeni, deformandoli, creando con ciò una “postrealtà” dentro la quale finzione e verità tendono a confondersi? Domande che Pegorari usa come grimaldelli per  smascherare la narrazione capitalistica e la falsa liberazione annunciata della new economy, quel discorso totale di una globalizzazione del mercato che è racconto senza alternative, “ordine unico del mondo”. Tesi che trova un riscontro filosofico nel recente libro di Diego Fusaro, Minima mercatalia (Bompiani), e dalla quale forse è possibile ripartire per un discorso sul postmoderno che non sia una resa al labirinto costruito dal mercato, bensì una via per ripensare le categorie fondamentali (soggetto, oggetto, relazione, verità, realtà) dopo che la modernità liberal-capitalista le ha svuotate di ogni relazione con il finito.

Lo sganciamento dalle coordinate spazio-temporali ordinarie, con il suo carico fecondo di futuro, ha trovato nei giovani scrittori una necessità esistenziale prima che stilistica e/o ideologica: ce lo racconta bene Pegorari analizzando, nel primo capitolo del libro, i romanzi sul lavoro, dando particolare spazio a Michela Murgia, Silvia Avallone e Mario Desiati, senza trascurare la poesia operaia, dove emerge, per completezza e sensibilità, Fabio Franzin.

Il secondo capitolo mette al centro il ‘libro’, come prodotto mercantile e quale risultato ultimo di una filiera di una manovalanza intellettuale, chiamata da qualche anno “cognitariato” (traduttori, operatori culturali, insegnanti, redattori ecc.). La crisi dell’editoria, ci spiega l’autore fornendoci un dettagliato resoconto statistico, poggia sulla svalutazione della cultura umanistica, vero volano della democrazia, in quanto capace d’insegnare il pensiero critico e il confronto non belligerante. È evidente la motivazione civile del Fazzoletto di Desdemona, che peraltro esiste solo come ebook, a riprova delle critiche dinamiche di trasformazione dell’attuale editoria.

Il terzo e ultimo capitolo sintetizza e approfondisce le acquisizioni teoriche precedenti, prendendo spunto dall’Opera di Umberto Eco, considerato il miglior fabbro e al tempo stesso studioso acerrimo del “capitalismo informazionale”, ossia di quell’ente capace di riformulare l’orizzonte di senso a partire dalla fabulazione onanistica del reale. Questa scelta è particolarmente interessante, nella misura in cui Eco incarna, con Calvino, una certa idea di postmoderno che non si lascia trascinare dall’equivoco per il quale, essendo tutto interpretabile all’infinito, la realtà si dissolve: c’è un punto solido, infatti, un nodo al fondo di ogni fatto che resiste al suo dissolvimento (ne parla anche Maurizio Ferraris sin da Ricostruire la Decostruzione). Ne consegue che l’Opera dell’Alessandrino, analizzata con grande maestria e ammirazione da Pegorari, lungi dal fare propri i tic del postmodernismo più à la page, giunge al cuore delle debolezze postreali contemporanee, tentando una ricomposizione della totalità, di “un principio d’ordine conoscitivo” per quanto impossibile; un tentativo via via segnato, in Eco, da un crescente pessimismo nei confronti dei poteri costituiti, primi fra tutti quelli legati alla retorica politica e mediatica, capaci ormai di un racconto totalmente menzoniero eppure convincente, come accade appunto ne Il cimitero di Praga in cui si racconta la nascita dei cosiddetti Procolli dei savi di Sion, presupposti teorici falsi della purtroppo realissima Shoah.

Chiudendo il cerchio, Il fazzoletto di Desdemona ritorna al fondamento civile che ispira il lavoro del suo autore: se infatti, nella prima parte, la falsificazione diventata realtà si mostra nel tessuto sociale, attraverso alcuni romanzi, non tutti straordinari, della giovane letteratura italiana, l’ultimo capitolo ci conduce per mano dentro il labirinto rizomatico di Eco, in cui il disvelamento infinito della verità dentro la menzogna (e viceversa) costituisce l’approccio della demagogia contemporanea, raccontato in sei romanzi esemplari; uno studio, questo di Pegorari al semiologo, che è anche un invito a riconoscere la sua qualità creativa, troppo spesso liquidata come il lavoro di un intellettuale erudito in prestito alla fiction.





15 commenti:

  1. Molto interessante. Acquisterò il testo. Intanto mi chiedo cosa sia accaduto agli studiosi e ai cultori di materie umanistiche che amano la politica. Come mai coloro che hanno compiuto studi umanistici oggi sono per lo più fatalisti postmoderni, incapaci di indagare e comprendere i meccanismi decisivi del sistema?
    Come mai Guido Calogero o Concetto Marchesi erano laureati (anche) in giurisprudenza e in Assemblea Costituente Mario Alicata e Paolo Taviani dialogavano alla pari con giuristi ed economisti, mentre oggi molti umanisti con passioni politiche sembrano volersene restare fuori da tutto e vivere in un mondo di sogni? Su Eco e Ferraris poi, credo che il ritorno alla realtà propugnato dai new realists (l’inglese è d’obbligo, e non è solo una raffinatezza cosmopolitica, ma indica un volontario adeguamento servile) non è che il rovescio della medaglia del postmodernismo: è il ritorno ad una realtà frammentata di oggetti del tutto disconnessi dal legame dialettico con una totalità espressiva. In questa fase speculativa del capitalismo assoluto (assoluto in quanto absolutus, sciolto da precedenti legami borghesi e proletari) abbiamo bisogno di un sapere assoluto nel senso di Hegel. Per evitare i soliti equivoci pregiudiziali, sono con Remo Bodei, indiscusso conoscitore della dialettica hegeliana che dice: “Si pensa che il sapere assoluto per Hegel sia qualcosa di manicomiale, come se sostenesse che con la sua filosofia si sa tutto. Ma le cose non stanno così: absolutus vuol dire sciolto da ogni legame, e cioè da ogni condizionamento del passato”. Meglio non avrei saputo dire (del resto Bodei è Bodei). Ma oggi ilsapere assoluto è il sapere filosofico sciolto da ogni legame con la pretesa del presente capitalistico di essere la fine della storia. Questo è oggi il “sapere assoluto” di cui abbiamo bisogno. Dove sono i letterati su questo? Grazie

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  2. Se Hegel ha pensato dialetticamente e oggi nessuno si assume questo compito, una ragione deve esserci, e, per essere coerenti con Hegel, non può essere soggettiva. Rifletta su questo

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  3. Leggerò anch'io questo saggio. Mi ha molto incuriosito la recensione di Stefano Guglielmin il quale non smette mai di sorprendermi con le sue acute e raffinate "scritture". Quanto a Hegel, egli crede profondamente nella razionalità del reale, ma da quanto letto viene fuori un pessimismo profondo e inquietante. Certo le utopie, come quella hegeliana o marxista che si basa su un rovesciamento della dialettica hegeliana in termini di contenuto, sono necessarie al fine della ricerca di possibili soluzioni politiche, ma non devono essere vissute come valori assoluti, bensì come punti di riferimento da cui partire per interpretare e tentare di cambiare il contingente storico. Oggi le ideologie sono sparite, l'Occidente vive una crisi profonda e irreversibile, l'ipertrofia mediatica ha determinato un appiattimento della cultura e un'omologazione mortificanti. Per tutte queste ragioni è davvero difficile, per usare un eufemismo, offrire risposte politiche a una società apolitica e relativistica (nel senso bieco del termine). Tanti gli interrogativi, i dubbi laceranti, ma quante le possibili risposte? Rosa Salvia

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    1. Grazie Rosa. Certo definire utopie i sistemi dialettici è già uno schieramento che meriterebbe approfondimenti.
      io credo che l'umanista - per tornare alle considerazioni del commentatore anonimo - debba appropriarsi anche dei saperi e dei metodi delle scienze contemporanee e cominciare a lavorare in equipe: non c'è altra via per riconoscere le linee della complessità

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  4. Sono completamente d'accordo: leggere la realtà dialetticamente non vuol necessariamente dire arrivare alla "nottola di Minerva che ha compiuto il suo volo"... In tal modo si entrerebbe in un sistema definitivo e statico. Le utopie, come ad esempio sostiene Rossana Rossanda, hanno un obiettivo al contrario dinamico. Condivido pienamente anche la tua riflessione circa la necessità di una collaborazione costruttiva fra cultura umanistica e scienze contemporanee al fine di uscire dalle pastoie in cui ci ci dibattiamo. Rosa

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    1. Grazie. Guarda che non siamo in tanti a pensare che scienza, poesia e filosofia non siano sorellastre in conflitto, ma una bella famiglia sinergicamente alleata contro le brutture della storia e gli scossoni della natura. Ciao!

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  5. Un saggio che per tematica e modalità di indagine mi incuriosisce molto. Potrebbe entrare nella mia lista degli acquisti.

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    1. essendo in e-book costa anche meno :-)

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  6. Purtroppo sono un maniaco cartale :)

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  7. Se Hegel ha pensato dialetticamente e oggi nessuno si assume questo compito, una ragione può anche non esserci? Forse che il capitalismo assoluto ha creato l'insopportabile e gli uomini che lo sopportino?.

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    1. l'assoluto qui è nominato secondo lo spirito hegeliano: un senza-resto che toglie all'uomo la possibilità di scegliere altrimenti. Come fa allora lei a riconoscerne l'esistenza (del capitalismo come spirito assoluto che si sa e si vuole), a distinguerla dalla sua?

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  8. Lei mi vuole condurre fenomenologicamente? E' pur fenomenologico rispondere alla domanda: "Che effetto mi fa il capitalismo? Se l'effetto che mi fa è sgradevole, cosa significa? E posso scegliere altrimenti? Posso scegliere da solo o cado in contraddizione? Nel senso che cado nell'egoismo capitalistico, dal momento che la preoccupazione dei liberali è innanzitutto bandire dalla vita politica anche solo i riferimenti a una concezione comune dell'etica e della rettitudine (il capitalismo odierno si basa solo sul Mercato e sul Diritto, possibilmente di fare massimamamnte quel che si vuole, i limiti essendo quelli di non generare alcuna etica collettiva che accomuni)? Troppa roba per un blog di poesia. Mi scuso per l'intrusione.

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  9. Dimenticavo.....la sua domanda la comprendo. E' la stessa di Vattimo. La questione del messianismo-capitalistico (il mercato come bene per la maggioranza degli umani), può essere interpretata come deterministica, soltanto se si pensa alla Storia come un oggetto dato davanti a me. Se io sto come agente dentro questo processo nella totalità, non posso neanche articolarla come "ad A segue B necessariamente, ecc.". Agendo dentro questo processo ermeneuticamente ho un ideale sicuramente, che è quello che mi viene suggerito nella secolarizzazione dall'eredità, o meglio dalle eredità depositate dalla tradizione (che sono scelte storicamente condizionate) e sono legate alla nostra storicità (io preferisco vivere in Italia perchè sono italiano e mi piacciono gli spaghetti, e non in papuasia fino a che qualcuno non mi convince che dovrei farlo). C'è dunque un tessuto che non è necessariamente deterministico e in qualche senso messianico: c'è una promessa, qualcosa che mi si presenta come la possibilità giusta, quella buona, e io lì mi impegno. Vattimo, onorevolmente, al contrario di altri della sua generazione, si dice "comunista", nel senso che non è l'adeguamento ad un verità o rivelata o data di tipo scientifico, ma come una collocazione esistenziale e umana all'interno di un presente storico. Il merito di Vattimo è quello di essere sì un postmoderno, ma non cinico e disincantato. Con lui sono solo in disaccordo sulla teoria della verità, in quanto, a mio parere, egli vede nella verità un pericolo. Vede (vedete?) nella rivendicazione di verità (morale, etica, ecc.), l'anticamera della pretesa autoritaria di imporla in maniera dispotica. Altri (tra cui io) vedono nella verità non tanto una oggettualità cosale di fronte a loro, quanto piuttosto un processo dialettico dentro cui siamo interni, che ha come un "telos" infinito (questo è l'unico punto in cui darei ragione a Kant) che non va verso alcuna fine della Storia, ma va verso delle determinazioni sempre più ricche. Hegel non è un pensatore della fine della Storia, ma un pensatore che ritiene che il suo tempo storico (1820) avesse già maturato un livello migliore della variante Rousseauiana, di quella di Metternik, che di quella degli inglesi (ma qui il discorso si farebbe troppo lungo e suggerisco di seguire gli ottimi studi di Bodei, ma anche del più giovane Luca Illetterati a Padova). Grazie molto a lei dello scambio, prof. Guglielmin.

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  10. grazie a lei per il contributo. Aggiungo, di mio, che essere contro il capitalismo è un diritto come esserlo contro il comunismo o il qualunquismo. Io non difendo il capitalismo, ma dubito della possibilità di pensarlo in quanto totalità, dalla quale sia esclusa "la possibilità giusta". Se è totalità, anche il suo pensiero è un modo del capitalismo; se non lo è, siamo liberi di essere-altrimenti. E allora, vista in questo prospettiva, il problema non esiste. Invece, è chiaro che il problema della disuguaglianza e quello dell'ingiusta distribuzione dei diritti e dei beni, sono reali. Non c'è dubbio che questi due problemi (misurabili con buona approssimazione) siano in relazione con il processo del capitale e del lavoro. Dire di più, si torna a fare metafisica ossia religione laica. Inoltre, che in queste dinamiche complesse, l'uomo si debba schierare, mi sembra necessario, come lei stesso dice.

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  11. Forse mal mi spiegai, ma pure io penso che i sia la possibilitá di un non-ancora. Infatti, seppure il capitalismo si dia come totalitá unicamente pensabile (un po' una sorta si impero del male minore), non credo lo sia. Certo, esso presuppone che la condizione necessaria e sufficiente per istituire un ordine umano efficace stia nell'attitudine degli individui a sottoporsi alle logiche del Mercato e del Diritto, e cioè a fare affari e rispettare i contratti, e presuppone che tale atteggiamento salutare sia per forza di cose "naturale", dal momento che all'apparenza non richiede niente altro se non la facoltá (a sua volta ritenuta naturale) di agire ciascuno secondo il proprio giusto interesse. Ora, tale assiomatica dell'interesse è di per sè tutt'altro che scontata. Che cosa ha unito i popoli (e ancora in alcuni casi li unisce) prima del mercato e del diritto? Forse dei riferimenti possibili all'idea di decenza e virtù morale? Che siano mai queste religioni laiche, da estirpare come necessariamente dispotiche. Del resto questo capitalismo del mercato e del diritto sta rivelando u suoi fragili fondamenti proprio non garantendo beni a molti ma solo a pochi, e diritti civili ai più, ma a scapito dei diritti sociali. È quindi solo una questione di aggiustare il tiro all'interno dello stesso paradigma che contraddice se stesso, o tentare di riaffermare il primato del decente sul giusto, in altri termini il primato socialista della giustizia dal basso (matrice di ogni common decency) su quell'ideale di neutralitá assiologica del Mercato (quello che lei chiama "beni") e del Diritto, che in fin dei conti costituisce il paravento ideologico ideale per tutte le giustizie dall'alto?

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