lunedì 22 dicembre 2014

Adam Vaccaro, "Seeds"


Seeds (Chelsea Editions) di Adam Vaccaro organizza l’esperienza autobiografica in due fuochi, in due semi: il primo luminoso e fortemente segnato dal mito delle origini, il secondo conficcato nel buio della città, in quell’opaco dove sopruso e ingiustizia sono di casa. Nato a Bonefro, Molise, il poeta vive da quasi cinquant’anni a Milano: due patrie di sangue e sudore, eppure di linfa diametralmente opposta. Se infatti l’infanzia contadina incontra la violenza intrinseca alle culture arcaiche, (“guardavo scannare i maiali / con allegra tranquilla innocenza / lanciavamo stecche appuntite di ombrelli / contro civette crocifisse alle porte” ), la vita metropolitana custodisce quella lontananza dolorosa dal centro del senso, che porta ciascuno a una solitudine spaesante, nell’ “aperto inferno”, in quello “immenso spettacolo lunare / accerchiato da una vita accanita”, che spinge ciascuno a rifondarsi nel privato amoroso,  “ a ripartire da te / da questa punta di miele mattina / per viaggiare lungo gli orli / dell’orrore”, per sopportarli quegli orli, armati del coltello-amore. Se nella comunità contadina, la natura è zolla dura ma anche orto del bendidio, “tra voci perse ruscelli e uccelli” e le case raccontano la vita di fame e latte, nella società urbana cova “l’odio feroce”, la violenza, entro “sommersi / viali di pizze stracci fumi e giarrettiere”. La città moderna, infatti (già lo sapeva Baudelaire), è diventata selva, disordine artificiale dove regna l’hobbesiano homo homini lupus.

Riassumendo: i due semi che Vaccaro cerca di rivitalizzare con la sua poesia sono, uno, la memoria felice di un’infanzia cresciuta nel cerchio buono del paese e, due, la relazione amorosa, l’unica salvezza entro le tenaglie gelide delle città industriali. La scrittura, come “un piccolo graal”, può forse “aprirsi e vendicarsi della morte” perché noi, in qualsiasi latitudine e condizione viviamo, non siamo che gazzelle costantemente in pericolo. Questo annuncio, incipitario nel libro, è la chiave antropologica con cui leggere i due fuochi antitetici, campagna e città, infanzia età adulta, gioco e lavoro; nessuno di questi è paradisiaco eppure non per questo  risultano equivalenti.
Sono molto belli versi che ci descrivono “l’ortogiardino” dove “brillano rose fiori di zucca e pomi / doro” al riparo delle siepi, facendo “rifiorire l’attesa / il progetto, la gioia”, per quanto sia ben chiaro che la terra è bassa, dura zolla, secca. Ma altrettanto efficace è il verso quando racconta la città-labirinto, dove puoi trovare enclave premoderne, come “Quintocortile” (e non è un caso se proprio lì, ogni anno, si svolge una giornata di letture poetiche organizzata proprio da Vaccaro) o quando dal suo grembo infernale escono figure tragiche come Clitennestra, assassina del suo protettore. Fuori da mito, tuttavia, ce lo spiega bene il poeta, la morte violenta non è che gesto solitario e disperato entro una logica che fagocita il bene e il male in nome del profitto o della sopravvivenza biologica.

Le ultima sezione del secondo seme, intitolata “Nilo maggiore e minore”, allarga lo sguardo sulle malefatte dell’occidente e alle guerre giuste dei differenti monoteismi, nati dall’astrazione ontologica, dalla rarefazione della carne in puro spirito totalitario. Qui il sarcasmo, soprattutto verso i costumi turistici nostrani, si fa bruciante e non risparmia nemmeno i poeti che si compiacciono dei loro “lumini accesi”, mentre nuotano beatamente “nel mare delle cose // appesi alle code dei saldi.”

La penultima poesia, “Meta!” condensa tutte queste tematiche, le fonde nel crogiuolo del ritmo e della forza immaginifica, e se qualche volta l’intento moralizzatore sfoca l’armonia creativa dell’insieme (“questa madre che impotenti / s’ostinano a voler violentare”), la qualità stilistica e conoscitiva del libro rimane intatta, a testimoniare l’esperienza di un poeta che prende posizione nel mondo, che crede nella funzione civile della scrittura, nell’etico prima che nel estetico, e che intende tenere aperta la comunicazione con il lettore, a costo di perdere, qualche volta, il sacro fuoco della creatività, subordinato alla necessità del messaggio. Ma questa abbassamento del canto appartiene a molti poeti lombardi, così come una certa passione civile di radice illuministica. Sotto questo profilo, anche Milano ha seminato la parola terrestre di Vaccaro, trovando in lui una terra ancora bagnata dal sole molisano e da una tenerezza mai vinta dal grigio dei suoi cieli inquinati.


SEMI

I parte

Che sia questo un piccolo graal
simile a un seme che può forse
aprirsi e vendicarsi della morte

del male stupido che ci invade
e delegittima la vita quale
gazzella dall’occhio attento che

si abbevera al ruscello e ascolta
rumori di foglie secche e vento
convinta di tenere a bada così

i pericoli che incombono
e come occhi silenziosi e
non visti di ragno tessono



(l’ortogiardino

curava mio nonno un luogo un
giardino per me d’incanti e fatica.
Il mio braccio – mi disse – si sposa
qui con questa terra e polla d’acqua

e ne fa bellezza e frutti che nessuno
può sapere fuori da quel cancello
là in fondo se non sale quest’erta
di sassi e spine e non sa che qui

brillano rose fiori di zucca e pomi
doro che al riparo di siepi di un orto
giardino appeso al mio dito con ali
di foglie gira gira intorno al mondo 

sognando l’infinito



(Lo scalpellino)

Ricordo tra tutte le pietre dure della vita
quella che briciola su briciola graffiai
da ragazzo e che ora pare
riposi architrave di questa casa

Fu quel giorno col dito nel sangue
che venni folgorato dalla verità del dolore
folle fuggendo alla ricerca della gioia e
quella pietra diventò l'architrave della mia vita




(biciclette)

frotte di biciclette nel sole annegate
imbiancate tra polvere e sassi arrampicate
sulle colline molisane spietate e ricche
di cicale stordenti in coro ininterrrotte
al cigolìo di freni selle e pedivelle
tra ansimi e perle silenti di sudore

Sentenzio sciamando in cima tra sogni
castagni e quercioli col cuore balbettante
nei calzini gridò tra risate e pernacchie
a quell’impasto di luce e fatica un modo
a suo dire d’imparare a sudare le regole
del piacere s’una forma di piacere delle regole

In discesa a testa in giù come siluri dalla guerra
ormai finita al sol dell’avvenire cui nemmeno Sentenzio
sapeva che dire mentre i padri scappavano in cerca
di fortuna e schiavitù a noi sembrava bastare
quella scodella di polvere luce e sassi bianchi
fino a quando
                       ci ritrovammo muti
                                                       attorno alla testa rossa
scomposta da un invisibile sasso – impietoso sasso
incastonato nel piacere di una nuvola bianca
di calzoni corti e biciclette anni ’50  




(feroci innocenze e oltre

guardavamo scannare i maiali
con allegra tranquilla innocenza
lanciavamo stecche appuntite di ombrelli
contro civette crocifisse alle porte
e arrostivamo feroci zoccole finite
disperate in gabbie fischiando
un’uscita cercando da fiamme d’inferno
eppure già (di)versi cantando
                                               m’illumino d’immenso

e nessuno può dire se fu quel piede fondato nella terra e
nel letame che diede una spinta a sogni d’assalto al cielo
o s’aprì in quei primilampi di parole un oltre
                                                                         possibile
nel vortice sempre nuovo
                               sempre vecchio di questi decenni
                  pur avendo già un grido nel cuore
che poi la curva ridiscende
                                           ed è subito sera




II parte

Nell’aperto aperto Inferno

Coltello necessario

(immenso spettacolo e lunare

accerchiato da una vita accanita
che sguarnita e inarresa annusa
come un orso ferito
                                 al cuore

ma conviene ripartire da te
da questa punta di miele la mattina
per viaggiare lungo gli orli
dell’orrore. Amore
unico coltello necessario
a fare dell’orrore un ventre aperto



(Quintocortile

Milano infila tunnel del metrò
per rincorse di istanti veloci
che sommati fanno un niente

per farne montagne di macerie
tra sogni di un perduto verde e
incanti di incontri che a settembre

fumavano salsicce e bandiere rosse 
parentesi in attesa di ragazzi bravi
a fare il gioco delle coppie con siringa

Milano ora fila sogni disfatti su uno spiedo
sapiente che cucina mucchi di denari
ricchezze povere di dolori e pensieri

Milano infila eppure ancora cortili uno dentro l’altro
che ritrovano in fondo – ancora visibile – il tempo



Quale bellezza

Abbagliato imberbe e senza parole
rimase dalla bellezza trafitto e
reso palloncino panico e afflitto 

gonfio solo della tonda domanda
se la bellezza era questa sconfitta
che taglia alla gola le solite parole.

Poi imparò dai più grandi – Dante etc. – che
ogni scuro squallore e viso sfigurato da
dolori e orrori più atroci ti sfidano

ad accendere segni che come amante
rovescia in luce la fragile clessidra
della bellezza che ti apre al mondo 

E si volse alla bellezza che toglie
parole a chi ne ha paura e si chiude
o ama chiudere nel suo sacco il mondo

scegliendo tra potere e bellezza il polo 
che insiste non si arrende e resiste  
tra la morte e la vita che continua


META!

*
se tu vedessi, amore mio, come splendente
è qui il Mito, come sorridente e trionfante
esplode qui, tra gli orti di Meta l’immagine
del Caos, la sua frondata Fonte e la sua Ombra!

…………………………
 *
si sono arresi dunque al silenzioso caos
emergente da un’origine nascosta
di energia. Si sono arresi come pupille
spalancate da un bagliore non più
capaci di compiere il dovere
di rendere ragione. A imitazione insana di
un’incontenibile miscuglio di levità e
grigiore, d’acquiescenza e insofferenza, di
dolcezza e di violenza, da questo Cono
che ha smesso di fumare e fino al mare
si distende insensato un miscuglio
di scatole chiamate case, informi
insiemi di cose che vagano affollate tra
brandelli di vita verde che non si arrende


*

Così, dalla finestra, la casa
specchiava lo stato delle cose
così invase
                   dalla sospensione
che la corsa affannosa che la casa
correva nell’insieme
                                 squarciava lumaca nel vento
del tempo-lampo
                            che non accompagna
                                                               e non fa in tempo
a costruire una mente





 Qui su Blanc un'altra nota.

6 commenti:

  1. Ottimo Adam !
    Buon Natale Stefano :-)

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  2. è un po' che leggo e rileggo.. perché con qualche testo fatico.. altri invece mi hanno subito catturato al piacere.. in particolare il primo e 'lo scalpellino'..

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  3. mi permetto (da non totalmente profano) una qualche critica alla forma di queste poesie. Non voglio dilungarmi, né osare paternali a chi, anche solo per l'età, potrebbe tacciarmi di essere irrispettoso; ma quella presenza, in fine di verso, prima dell'accapo, di preposizioni, congiunzioni, addirittura articoli, mi sembra indice di una certa mancanza di cura. la forma non è mai tutto, ma la troppa libertà finisce per svilire la bontà insita in questi testi, barattando l'accettazione della prosaicità di buona parte della poesia odierna con l'orgoglio della vera poesia, che non scende (o non dovrebbe) a patti con il gusto contemporaneo

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