domenica 26 ottobre 2014

Daniela Raimondi


La regina di Ica (Il ponte del sale, 2012) di Daniela Raimondi è un libro bellissimo perché capace di parlare di morte, di malattia e di violenza non in astratto o con piglio moraleggiante, bensì con la ricchezza metaforica e il mistero con cui Garcia Marquez ci racconta la vita e la morte a Macondo in Cent’anni di solitudine.
“Rubavo la saliva ai passeri” dice di sé la regina di Ica, mummia regale della civiltà Nazca, in Perù, e “ora riposo. Sterile, perfetta”. L’immagine lapidaria fa da totem al libro e dialoga, con fili quasi invisibili, con un totem della cultura contemporanea, un’icona maledetta perché suicida e per la scia di lutti che ha disseminato accidentalmente in seguito: Sylvia Plath. Con queste due matrone dell’altrove, Daniela Raimondi costruisce un discorso sulla morte e sulla malattia, sulla famiglia e le sue crepe, ma anche sui legami e la speranza, sulla volontà di vivere che pervade gli esseri malgrado tutto sia indirizzato alla sfacelo, tutto, come scrive Leopardi nel Canto del gallo silvestre, abbia come unico oggetto il morire. All’altro vertice del triangolo metafisico c’è Dio, in incipit Padre onnipotente, a chi chiedere “una morte bella”; nella chiusa, magnanimo benefattore che concede la vita, i “suoni tranquilli del mattino”. A parte questa presenza, che rimane nella cornice del libro, e qualche altra rara apparizione maschile avvolta in un alone mitico (il figlio Patrick nato dopo una corsa sorvolando i continenti; Nicholas, il figlio suicida della Plath, che “ogni sera tornava caricando sulle spalle / il cadavere di un cervo”, Ted Hughes, marito di Sylvia, che l’andava a trovare, ancora nubile, “con i tasca / pesci vivi, oroscopi e poesie”; Diego Rivera che sigillo le stanze private di Frida Kahlo, imprigionandoci le cose e le tracce degli amori vissuti), La regina di Ica è un viaggio nella natura complessa del femminile, alla sua forza ambivalente, che tiene le briglia al cielo, partorendo, accudendo i malati, sacrificandosi in nome di una parola libera (come la poetessa afgana Nadia Anjuman, assassinata dal marito) ma anche all’inferno, soprattutto all’inferno, governando la morte altrui – come faceva fino al 1952 la “femmina accabbadora” preposta in Sardegna, nel segreto fuorilegge degli affetti familiari, a donare una morte quieta al malato, stringendo “tra le gambe la testa moribonda”– ma anche la propria, come appunto la Plath e la sua sfortunatissima rivale, quell’Assia Wevill suicida e matricida con il gas, in un gesto simile alla poetessa americana.
“I’m fragile – Please Handle Whit Care” scriveva quasi in principio di Ellissi (Raffaelli, 2005), il suo primo tardo libro, in una poesia dove la madre depressa dell’amica Helga, “la domenica, tre pillole nella gola”, mette “un arrosto nel forno”: immagine in cui si specchia, in una poesia de La regina di Ica, la testa di Sylvia Plath dentro la bocca del forno, che “è un animale buono, / lo sbadiglio di un cane sdentato”. C’è dunque una coerenza profonda nella scrittura di Daniela Raimondi, uno scavo continuo dal silenzio mortale delle cose, per ricavarne un suono che sia condivisibile, qualcosa che dia un senso all’insensata corsa verso il nulla di ciascuno, come ci confessa in un corsivo preludiale di quest’ultimo libro: “la pagina che scrivo è per colmare il buio, il nero-nero che porta solo morte.” Ed è una pagina di luce, un lungo “viale di magnolie che ci riporta a casa”. In senso antropologico, quale via del ritorno che risolve l’esilio originario (e una poesia di Inanna – Moby Dick 2006 – lo dice con chiarezza: “Tornerò alla sorgente di tutti i fiumi. / Con le unghie scaverò la terra / per ritrovare il primo battito”), ma anche, per lei  che si muove tra l’Italia e l’Inghilterra da decenni, in senso biografico. Poesia come spazio reale, da abitare autenticamente. Ed è qui che lo stile soccorre ad arredare le stanze, a popolarle di oggetti, animali, persone, vestendole di un amorevole realismo, magico non per intervento divino, bensì per il potere demiurgico della parola, che vivifica il mondo, altrimenti neutro, freddo, lontano.


La regina di Ica 1


i.         

Rubavo la saliva dei passeri,
una malinconia di muschio e acacia.
La parola cantava
raccoglieva il vento, il seme, il polline.
A ogni luna moltiplicavo
l’offerta del grano e delle rose,
ma il vento ogni volta moriva.
In me cresceva la frattura del sangue,
e il gelo,
un’ampolla di vetro soffiato.

Oh le mie mani di cenere,
mia lingua poverissima!
Lasciavo nel mondo
una foglia d’argento, echi
terra rossa
e il germe della mia povertà,
due fanciulli dalla bocca vergine.

Di quei giorni ricordo solo
un caos di sogni e lune bianche
la scarsità dell’acqua,
la cura minuziosa dei giardini.
C’era una scia di luce conficcata nella carne
e in fondo agli occhi
un cielo siderale.


ii.

La morte è stata piccolissima:
una seta sul viso,
la carezza rovente della sabbia.
Hanno svuotato il corpo,
estratto le mie viscere.
Brillavano
fredde e contorte come serpenti.

Ho visto la forma esatta del cuore.
È un muscolo fatto di fiato e sangue.
Solo un organo rosso, ridicolo.
Qualcosa, credetemi,
non più grande di un pugno.

Ora riposo.  Sterile, perfetta.
Dormo rannicchiata nell’ombra
le ossa leggere, il viso verso l’Est.
I merli mi svuotano gli occhi
ma non importa.
Il dolore era altro, altra la pena.
Restava a cuocere nel sole,
estirpata dal rosso incantesimo.

Intorno a me i doni per il viaggio:
cocci, monili, la ciotola di miele
un tintinnio di giade e lapislazzuli.
Un uccello ha fatto il nido
nel buio centro del mio petto.
Ogni mattino batte le ali
e canta e canta
là, dove un giorno era il cuore.


iii.

Il tempo ha cancellato le impronte digitali.
La sabbia ha intessuto nella carne
la sua trama d’oro.
Non sento la fatica,
pascolo la mia morte senza nessun rimpianto.
Ora so che il paradiso non esiste
e rido, rido.
Senza più mani o piedi, rido.
Senza più cuore, o voce.
Sdentata come una vecchissima bambina
            io
            rido. 

Rido senza curarmi del disegno oscuro delle stelle,
rido brillando cieca nella polvere.
Ferma nel tempo come una pietra nera,
con i capelli in fiamme,
con i capelli in fiamme
io rido.



S’accabbadora 2


La chiamavano quando faceva buio
e la morte gridava
nel becco spalancato di un corvo.
Arrivava vestita di nero,
il viso nascosto da un lembo di stoffa.

Sotto il letto del moribondo
avevano messo il giogo dei buoi
e sopra il cuscino
immagini sante, pietre bianche del fiume.
Lei mandava fuori figli e parenti,
poi chiudeva la porta. 

Nascondeva i rosari,
le immagini sacre e i crocifissi.
Infine abbracciava il corpo martoriato,
gli offriva il suo povero seno. 

Oh notte d’inverno,
oh nerissima notte.
Il pane raffermo nella madia,
le stelle immobili nel cielo.

I figli attendevano nel campo.
Intagliavano cuori di legno,
piccole croci d’ulivo.

Era giunto il momento.
Lei s’accucciava al capezzale,
stringeva tra le gambe la testa moribonda.
Bastava poco per terminare l’agonia:
chiudere la bocca col palmo della mano,
stringere le narici con due dita.
Oppure un solo, secco movimento
ed era tutto finito.

Lei usciva e annunciava:
‘La casa è a lutto’.

Ripartiva coprendosi la faccia
e senza scambiar saluto.
Non riceveva compenso
se non un po’ di farina,
un gallo dalle piume d’oro.

Lasciava sul letto un corpo tranquillo.
Sul volto aveva solo l’ombra di un piccolo spavento.
Qualcosa che somigliava a un sogno,
forse un sorriso.



Le stanze segrete di Frida 3


La casa blu, la pioggia,
un fascio di calle e i quetzal. 4

Un piccone sventra la stanza murata,
strappa la carta dalle pareti.
Il raggio di luce cade su un mosaico di stelle.
Nella grotta segreta splende la lampada di Aladino:
perle e bracciali d’argento, la seta e il broccato,
ametiste e cristalli.

L’oro dei Maya trabocca dalla vasca da bagno.
Ci sono biglietti dell’autobus,
il ventaglio, il rossetto,
le piccole mani di Pablo,
un testo di Trotskij e parole d’amore.

Nel ritratto di nozze, Frida ha il viso di una vergine ebrea.
Alla sua festa di sposa il re sorrideva. 
En las calles corría una música alegre,
un canto suave de pajaros y niños.

Nella penombra, c’è l’armatura di ferro
di una regina dalla schiena spezzata.
Su una sedia, la sua sottoveste di raso
e scialli di lino, il rosso e il cobalto,
le ciprie e i gioielli.
Nell’aria una polvere bianca, una polvere bianca.
Odore di muffa.  Odore di urina.
Un gatto fugge dal vetro rotto di una finestra.

Sul tavolo, c’è il giornale stampato
nel giorno della sua morte
y la foto de un cuerpo de nacar y miel:
i suoi occhi da cerva,
il lenzuolo abbassato sui fianchi
e sotto il lenzuolo la gamba di legno.

Nel fondo delle pupille
Frida conserva il ricordo di un feto senza polmoni,
il dolore delle anche malate,
la neve a New York.
Ella cerraba los ojos del niño
y la nieve caía,
la nieve volaba en el cielo de Brooklyn.

Uno schizzo a matita.
La donna bionica cerchiata di ferro,
la foto di Georgia premuta sul cuore.5
Il capezzolo rosa e Parigi, la nebbia.
L’amore di Diego. 
L’amore e il dolore.

Nella stanza segreta
resta un poco di cenere sul fondo dell’urna.
Se ascolti, senti ancora il respiro,
il suo cuore che pulsa
fra i fiori e la colla della parete.



Alfonsina vestita di mare 6


Mi Buenos Aires querida, adesso smetti di cantare.
Alfonsina vuole dormire,
stendere le sue ossa fra il buio delle tue case. 
Fa’ chiudere le tangherie,
nascondi in cantina le scarpe coi tacchi,
i capelli di feltro, le tue fisarmoniche.
Lei ha aperto la finestra sulla tua selva di luci.
È nuda sul letto, i seni amputati.
                        
Mi Buenos Aires querida,
Alfonsina è tornata ai tuoi porti.
È tornata sola, come la prima volta.
Un tamburello batteva lungo le strade
E dentro la valigia lei portava solo
due vestiti a fiori, le prose di Ruben Darío. 
Aveva un corpo selvatico
e in fondo agli occhi
brillava l’ombra dei boschi ticinesi. 

Venticinque anni e i capelli tutti bianchi.
Una furiosa meraviglia
che schiariva la notte intorno al suo viso. 
La parola feriva il suo corpo,
lo apriva sulle note tristi di una milonga.

Adesso è leccata dal male,
tagliata da una lama pulita.
Una Santa Agnese
coi seni su un vassoio d’ospedale.
Due cicatrici le crescono sul petto
grandi, vive come pesci. 

Mi Buenos Aires querida, ora lasciala dormire.
Domani stringerà tra le braccia un fascio di rose,
avrà fra i denti l’azzurro degli oceani.
Solo poche parole scritte con l’inchiostro rosso
e poi camminare sul fondo del mare,
i piedi celesti,
in apnea.



I.         L’amante  7


                                                           Jealousy can open the blood
                                                           (Sylvia Plath)


Il suo corpo d’ariete mi lava e mi ingrassa.
Ha l’odore del sesso
il suo artiglio mi infilza la parte infetta del cuore.

Addenta.  Mi inghiotte boccone a boccone:
prima un dito, poi un occhio, la spalla;
risucchia un’arteria, il muscolo dolce.

Sua moglie è la lupa di Romolo e Remo,
il volo nuziale dell’ape regina.
Depone bambini grassi sulle rive dei fiumi;
è la grande madre terra – sempre pregna, pregna.
Per ogni amore
io partorisco piccoli gnomi di pietra.
Ogni volta che amo, impasto una nuova morte.
Non sono più vera
di un sogno che bagna il lenzuolo.

Il fauno mi chiama
batte lo zoccolo sotto la luna.
Lo aspetto da sempre,
appesa a un gancio nel retrobottega.



II.        Marionette


I saw the dreamer in her
had fallen in love with me and she did not know it.
That moment the dreamer in me
fell in love with her, and I knew it.
Ted Hughes



“Vede, Signora,
io sua figlia l’ho sempre amata.
Arrivavo ogni mattina con in tasca
pesci vivi, oroscopi e poesie.
Ma la sua bambina aveva nel corpo
lune insanguinate,
viveva nell’impronta infangata di uno stivale.
Il suo odio fermentava con le mele in cantina.
Il suo odio cresceva, strangolava la casa.

Vede, signora,
sono nato in una valle di fantasmi;
un paese di morti dove la notte
le divise dei soldati marciano vuote lungo le strade.
E ogni sera la sua bionda bambina
mi chiedeva di morire.
Ogni volta lasciava un cadavere nel letto.

È che un uomo ha in bocca la fame dei lupi:
ha sempre bisogno di mordere,
di succhiare il sapore selvatico.
Il mio sperma impazziva nei lombi.
Non cercavo un’amante, lo giuro. 
Fu lei a trovarmi
seguendo un’orbita errata di stelle,
nuotando e nuotando contro corrente.
Allargava i suoi occhi nel buio,
fiutava il mio odore col ventre.

La chiamai dalla riva.
Era un luccio gigante,
una cornucopia che splendeva
nella marea del mattino.
Guizzò nell’aria:
aveva un feto nell’iride dell’occhio,
si dibatteva con furia
contro l’uncino del mio sesso.
Non ero che un baco senza pupille.
Lei mi chiuse le palpebre,
mi avvolse con un filo di bava
nel suo bozzolo d’oro.

E a casa la sua bambina bella
cadeva fra i narcisi. 
Si rompeva in mille pezzi,
pura e dolorosa come un grido.
Un crack fra le mie mani, così. 
La vita le usciva da un fianco,
il sangue tornava alla terra.
Io non centro, lo giuro. 
Fece tutto da sola.”



IV.       Gas


                                                           and from our opposite continents we wave and call.
                                                           Everything has happened.
                                                           Sylvia Plath


La bocca del forno è un animale buono,
lo sbadiglio di un cane sdentato.
La cucina è igienica come un crematorio.
Il gas è una sciarpa di seta,
ha l’odore pungente delle ascelle di Ted.

Shura dorme attaccata alla mia schiena.
È il mio piccolo innesto,
una farfalla avvolta nel tepore della coperta.
Il suo respiro è una garza.

Fuori la luna imbianca
la potatura senza sangue degli alberi.
Il prato è cangiante come una pellicola esposta.
Due pastiglie, perfette come una comunione
e orbito fuori dal mondo.
Ultimo volo sullo Zeppelin
contro l’irriducibile flusso delle maree.

Apro le orchidee dei bronchi
e respiro, respiro.
Un airone mi picchia dentro il cervello.

La casa è un polmone chiuso.
Il dolore ha il sibilo azzurro del gas.



L’operazione


i.          Odissea Notturna

Un corpo un numero un nome.
Qui non ci sono fiori.
Non ci sono ombrelli, cappotti rossi, bambini.
È un mondo muto, puro come il sale.

Spengono le luci. 
I malati scendono nel ventre delle sotterranee.
Hanno mani bianche, orecchie di carta velina.
Trascinano lentamente i corpi ricuciti.
Sono fantasmi sotto le luci azzurre dei corridoi.
Osservano muti le file di cuori sotto spirito,
la solitudine dei feti nei vasi di cristallo.

Questa è una prigione di donne, 
un gineceo di lamenti e corpi sterili.
Le vecchie rantolano nei loro astucci bianchi,
si agitano come bambine nei vicoli dei sogni.

Qualcuno russa.  Muove nel buio la lingua di cenere.
Sento l’aprirsi e il chiudersi,
l’aprirsi
e il chiudersi             
faticoso         
dei polmoni.

Una donna grida.   
Gli angeli della morfina hanno calze nere,
mani preziose. 
Le portano in dono poche gocce d’amore.
L’ago entra nel braccio come una fiaba
e la donna si scioglie, è di zucchero.
La testa ricade soffice come una pesca.

Dormono le donne magre, gli anemici,
gli esseri soli della terra. 
Dormono i senza figli, i senza corpo,
i corpi di cera infilati nei pigiami.
Giù nel cortile i topi divorano foglie di cavolo,
garze, croste di pane. 
Le loro code guizzano dentro ai cassonetti.

Vegliano i portieri di notte,
gli occhi di scimmia dietro le tende a fiori.
E vegliano le bocche sigillate degli insonni,
i cuori inamidati delle infermiere.


[…]

(Homerton Hospital, Londra, febbraio 2007)



La città dei vivi


Torniamo sempre alle città dei vivi
lasciandoci dietro le porte sprangate,
e avanzi di cibo, le persiane aperte nel vento.
Torniamo di notte,
come le piccole luci dei presepi,
quando i cortili si riempiono di buio
e sentiamo il polso inalterato
immuni alla nostalgia dei nomi,
o al disordine lasciato nei letti dell’amore.
Torniamo soli,
come agnelli trascinati dentro ai fiumi
e cerchiamo la sosta sotto le grondaie
la fine della pioggia, l’odore dell’infanzia.

Di notte i corpi non fanno rumore.
I passi cadono come pezzi di pane nel latte.
E torniamo con le ossa stanche, il cuore azzurro.
Quel che resta
è  il cielo chiarissimo delle stagioni fredde.
Sono gli oggetti di rame,
la gioia dei piccoli gesti quotidiani.
Quel che resta
sono i mobili di noce che durano nel tempo,
le rughe profonde dell’acqua.

Torniamo nell’ora buona e splendida
ad aspettare alzati
l’impronta del sole sul muschio,
il gioco bianco del mattino
sulle lenzuola stese ai balconi.
Torniamo a cercare
le stanze di luce sulle rive del mare,
la tregua nel sonno tranquillo dei figli.
Lontano dal peso notturno dei sogni,
lungo il viale di magnolie che ci riporta a casa.

Note ai testi:

1.        La regina di Ica
Ad una trentina di chilometri dalla cittadina di Nazca, Perù, si può visitare l'affascinante Cimitero di Chauchilla, una pianura cosparsa di ossa, teschi, frammenti di vasi e mummie.  I reperti risalgono al periodo tra il 1000 e il 1300 D.C.  Fra loro, una mummia dalla bocca aperta e un ghigno terribile, simile a un’amarissima risata.

2.           S’Accabbadora

Da tempi antichissimi, in Sardegna era compito di sa femmina accabbadora procurare la morte a persone in agonia. E S'accabbadora era una donna che, chiamata dai familiari del malato terminale, provvedeva a ucciderlo ponendo fine alle sue sofferenze. Un atto pietoso nei confronti del moribondo, ma anche un atto necessario alla sopravvivenza dei parenti, soprattutto per le classi sociali meno abbienti.  Negli stazzi della Gallura e nei piccoli paesi lontani da un medico molti giorni di cavallo, questa figura serviva a evitare lunghe e atroci sofferenze al malato.  S'accabbadora andava via in punta di piedi, quasi avesse compiuto una missione, e i familiari del malato le esprimevano profonda gratitudine per il servizio reso al loro congiunto offrendole prodotti della terra. Quasi sempre il colpo finale era diretto alla fronte, da cui, probabilmente, il termine accabbadora, dallo spagnolo ‘acabar’, terminare, che significa alla lettera dare sul capo. In Sardegna s'accabbadora ha esercitato fino a pochi decenni fa, soprattutto nella parte centro-settentrionale dell’isola. Gli ultimi episodi noti avvennero nel 1952.
(Informazioni tratte e adattate dall’articolo le ‘Terminatrici’, dal quotidiano La Stampa del 1/5/52.)

3.           Le stanze segrete di Frida

Mexico City, 1954. È irremovibile Diego Rivera alla morte della moglie: la casa di Frida veniva trasformata in museo aperto al pubblico, tranne per due piccole stanze da bagno che lui stesso fece murare. Le “stanze segrete” di Frida.  Sigillate nel 1954, e rimaste tali per oltre cinquant'anni, le stanze murate della Casa Blu sono state riaperte nel 2004.  A partire dal 1930, e per più di vent΄anni, nella Casa Blu erano passati gli amici più cari di Frida e di Diego, artisti rivoluzionari e amanti segreti.  Fra questi Lev Trotsky, André Breton, Pablo Picasso, e con loro, un pezzo di storia artistica e politica del Novecento.  
4.      I Quetzal sono gli uccelli mitici dei Maya.
5.      La fotografa Georgia O’Kieffe, la sola donna di cui si sia trovata prova scritta che fu amante di Frida Khalo.

6.           Alfonsina vestita di mare

Alfonsina Storni nacque nel Canton Ticino, in Svizzera, il 29 maggio 1892.  Si trasferì in Argentina con la famiglia all’età di quattro anni. Alfonsina scriveva poesie, faceva l'attrice e studiava per diventare maestra.  A 20 anni ebbe un figlio ancora nubile.  Ragazza madre, femminista e socialista, pubblicò diversi libri raggiungendo molto presto un grande successo di critica e di pubblico.  Con le sue poesie ha cantato l’amore e la solitudine, ma anche l’ansia di vivere e la voglia di libertà e di emancipazione.  Malata di cancro al seno, si suicidò il 25 ottobre del 1938, all’età di 46 anni, lasciandosi trasportare dalle onde dell’Oceano Atlantico a Mar del Plata.

7.           L’amante

Assia Wevill viene menzionata nelle biografie di Sylvia Plath, come la causa del divorzio fra Ted Hughes e la poetessa americana.  È spesso considerata anche come l’artefice principale del suicidio della Plath.  Nonostante Assia Wevill abbia vissuto accanto a Hughes per sei anni (lo stesso periodo di tempo che il poeta inglese trascorse con Sylvia Plath), e nonostante gli avesse dato una figlia, è praticamente assente dalle biografie del poeta e non venne nominata nelle interviste che Hughes diede durante la sua vita.  La sua presenza fu praticamente cancellata dalla sua storia personale.

Assia nacque nel maggio del 1927 a Berlino, da una famiglia di origine tedesca, russa ed ebrea.  Trascorse la sua gioventù a Tel Aviv e in Canada.  Sposata al poeta canadese David Wevill, la coppia si trasferì a Londra dove Assia lavorò per un'industria pubblicitaria.  Nel 1961, la casualità volle che Assia e David affittassero l’appartamento degli Hughes in Chalcot Road, mentre Sylvia e Ted si trasferivano nella casa appena acquistata nel Devon.  Furono invitati dagli Hughes a passare un fine settimana in campagna e, poco dopo, iniziò la relazione tra Assia e Ted.  Scoperto l’adulterio, Sylvia cacciò il marito di casa. 
Al momento del suicidio della Plath, Assia era incinta di Ted, ma abortì.  Poco dopo, Ted e Assia si trasferirono insieme ai figli di lui a Court Green, la casa nel Devon acquistata per Sylvia. 
Assia era perseguitata dal ricordo della rivale.  Leggeva con ossessione i suoi scritti e cominciò addirittura a usare oggetti che erano appartenuti alla Plath.  Il 3 marzo 1965, diede alla luce una bambina, Alexandra Tatiana Eloise, soprannominata "Shura". Ma, nonostante questo, non fu mai accettata dai genitori di Ted che iniziarono una campagna di ostilità nei suoi confronti.  La situazione domestica a Court Green col tempo divenne insostenibile.  Assia fu spinta da Hughes a tornare a Londra con la figlia.  Qui visse il resto della sua vita insieme a Shura, figlia che Ted riconobbe ma che non trattò mai allo stesso livello dei due bambini avuti dalla Plath.

A Londra, Assia vedeva Ted solo sporadicamente, vivendo in uno stato costante di ansia e tormentata dal terrore di essere abbandonata.  Si trovò isolata, dovendo anche affrontare serie difficoltà economiche.  Negli anni scivolò sempre più profondamente nella depressione.  Spesso menzionava agli amici il suicidio come unica alternativa alla solitudine e alle difficoltà che vedeva costellare il suo futuro e quello di Shura.
Il 23 marzo 1969, Assia Wevill si uccideva insieme alla figlia di quattro anni in un modo che ricorda molto da vicino il suicidio di Sylvia Plath.  Dopo aver trascinato un materasso in cucina, sigillò porta e finestra, depose sul materasso la sua bambina addormentata, aprì il rubinetto del gas del forno e si stese accanto alla figlia ad aspettare la morte.  Il suo suicidio fu ignorato dalla stampa inglese, che mise a tacere ogni connessione fra la sua vita e quella dell’ormai celebre poeta.


Daniela Raimondi è nata in provincia di Mantova e ora divide la sua vita fra Italia ed Inghilterra, paese dove ha ottenuto una laurea in Lingue e Letterature Moderne e un Master in Hispanic Studies presso il King's College, University of London. 
Ha ottenuto il Premio Montale per una silloge inedita e numerosi premi nazionali e internazionali sia per la poesia che per la prosa e il teatro.  Suoi testi sono stati tradotti in spagnolo, inglese, tedesco, ungherese e serbo-croato.  E' stata selezionata per rappresentare l'Italia all'European Poetic Tournment in Maribor (Slovenia), dove ha ottenuto il Premio Del Pubblico (2012).
Ha pubblicato: ELLISSI, (2005); INANNA (2006); MITOLOGIE PRIVATE (2007); il monologo in versi ENTIERRO (2009); il libro-CD DIARIO DELLA LUCE (2011) LA REGINA DI ICA (2012), SELECTED POEMS (2013) e AVERNUS (2014)


15 commenti:

  1. Credo che le recensioni siano utilissime, non solo ai lettori di poesia, ma agli stessi autori. Mi riconosco in quello che scrivi, Stefano, e sento molte verità in questa tua bellissima nota critica, verità che spesso l'autore solo percepisce nei contorni, che scaturisce spontanea nel flusso creativo, ma che solo l'occhio attento e sensibile del critico può catturare e analizzare in modo preciso e distaccato. Sono felice di essere su questa pagina, e non posso che ringraziarti per il tempo e l'attenzione che hai dedicato non soltanto alla Regina di Ica, ma anche ai miei libri precedenti. Concodo che li unisce un filo tematico che ha cucito il mio tessuto poetico di questi ultimi anni. Grazie e un saluto, Daniela

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    1. autore e critico lavorano insieme per dare massimo risalto alle possibilità della parola. Grazie a te per la bellezza del libro che ci hai donato.

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  2. ecco qualcosa che sa parlarmi strattonandomi il braccio..
    tornerò a leggere per il puro piacere di farlo..

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  3. Complimenti a Daniela e alla lettura di Stefano.

    Francesco t.

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  4. Ciao Francesco, un saluto e ben ritrovato! Daniela

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  5. Felice di trovare qui da te Daniela, Stefano!

    "La regina di Ica è un viaggio nella natura complessa del femminile, alla sua forza ambivalente, che tiene le briglia al cielo, partorendo, accudendo i malati, sacrificandosi in nome di una parola libera "

    in questo passaggio cogli benissimo quello che anche io trovo essere il punto fondamentale della struttura del libro.

    Nel suo percorso che dura da molti anni, Daniela ha sempre cercato di comunicare proprio la voce più fonda del sentire femminile declinato in tutte le sue forme.

    Ciao Stefano e bentrovata Daniela!
    iole

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  6. Ciao Iole, la mia scrittura è cresciuta anche insieme a te, e a te devo molto. Grazie per le tue parole e un abbraccio. Daniela

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  7. E' bello leggere questo vostro dialogo, care Daniela e Iole, vuoi che siete parte della poesia italiana contemporanea, ma non ne fate uno sgabello su cui pavoneggiarvi (come capita talvolta ai poeti maschi)

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  8. Ho provato almeno 6 volte a commentare questo post da un mobile ma non mi dà esito positivo.

    Ho sempre apprezzato la poesia di Daniela perché temi difficili da mettere in poesia, qui sono scritti in immagini così lineari e leggere che pare irreale. Daniela è sempre molto brava in questo. È un lavoro di grande consapevolezza della propria scrittura e del proprio io. Ammiro molto questo tipo di scrittura.
    Complimenti!
    Anila

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    1. Grazie Anila per il commento. Non so perché a volte questo server impedisca i commenti. Spero non ti succeda più.
      Ciao!

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  9. ciao Anila, grazie per il passaggio e per le tue belle parole. In effetti non tratto i temi piu' facili, ma sai bene che quando la poesia arriva, lo fa nei modi pi'u' inusuali e imprevisti. Un abbraccio e a presto. Daniela

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  10. Seguo il percorso di Daniela, ammirata dalla sua capacità e sensibilità tutte femminili di mettere in poesia il dolore.

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  11. Grazie, Liliana. Sai che la stima e l'ammirazione è reciproca. Un abbraccio. Daniela

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  12. La scrittura di Daniela è unica nel panorama italiano. Per quell’ancestrale senso del femminile che la pervade, per lo sguardo sapiente su vita e morte, per la speranza disseminata sulla nostra realtà, malgrado la devastazione, come bene osserva Stefano. E poi, quell’incanto del ritmo e della levità della parola. Un libro questo, che ci parla e vive, da tenere accanto.
    Un saluto caro a Daniela e Stefano,
    Annamari a Ferramosca

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  13. Ti ringrazio del passaggio e delle tue parole, Annamaria, e ti mando un abbraccio. Daniela

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