venerdì 14 marzo 2014

Guido Cupani






Dice benissimo Francesco Tomada, presentando Guido Cupani al festival “Acqua di acque”: le sue “parole spesso partono dalla quotidianità e dalla terra, per poi liberarsi e cercare da sole il loro compimento. Ne deriva una poesia rastremata, leggera e densa al tempo stesso, in cui si aprono epifanie improvvise come porte per accedere ad una interiorità possibile”.
Astrofisico, Cupani mette l’eccitazione tremula della giovinezza entro la cornice nitida dello sguardo da scienziato, per declinare il mistero irrazionale dell’incontro. Nei versi del poeta friulano, l’accadere – anche il più banale –  si dà in un’eccedenza cui nessuno può rendere conto, nemmeno la scienza. Un’eccedenza che ci immette, piuttosto, nel tempo del lavoro e della festa, simultaneamente. Cupani insomma ci racconta che ogni cosa, accadendo, fonda l’immisurabile dell’origine, l’unità avveniente che la parola poetica fa sbocciare nel cerchio del senso, collocandoci così nella prassi. Non c’entra Dio in quest’apertura: a metterla in essere è appunto l’incontro, la cui verità diventa felicità, pur parziale e temporanea: “Una felicità intera / è improbabile.” E comunque s’accompagna sempre con l’ombra che l’eccedenza porta con sé.

Pur consapevole dell’immedicabilità del vivere, egli evita il tono drammatico, alleggerendo il dettato con un’autoironia appena percettibile, ma capace di creare spazio estetico e morale tra il sentire e il vedere. “La vita è questa cosa che si è rotta” scrive in un recente inedito, “ma forse ora riparte” aggiunge quasi subito. Questa cognizione, tuttavia, non è soltanto frutto dell’intelletto o verità mutuata dai libri. Leggendo Le felicità, (Samuele Editore, 2011) e Qualcosa di semplice sulla neve, (Culturaglobale, 2013) si sente l’animo gentile dell’autore, che ha trovato un equilibrio, anche espressivo, tra la rivelazione dell’attimo immisurabile e la certezza sperimentale, tra la lingua delle cose e l’alone imprendibile inscritto in esse, tra la frase colloquiale e il guizzo vagamente lirico che la scardina dal contesto, per sottolinearne il peso. La poesia di Guido Cupani, in effetti, non canta, ma ci cammina a fianco e ci parla come un fratello maggiore.



Cosmologia minima


Una ragazza piange.

Un pianto improvviso
come una scarpa slacciata fra un passo
e l’altro, in piena regola, a capo chino,
sola, le due mani sul viso.

Io che le passo
accanto e vorrei farmi albero o mosca o muro, imparo
che il pianto è prima di ogni motivo,
quotidiano, dimenticabile,
qualcosa di noto e sacro, che accade

sulla terra, un mercoledì, lungo la strada.



Appunti per una scienza
da inventare

Mi chiedo se sia possibile teorizzare
una termodinamica del dolore.
Capire come esso trascorra da un corpo o mente
a un altro corpo o mente e se qualcosa
vada perso nel mezzo e si degradi
in dolore più elementare. Sperimentare come
si possa espandere un dolore compresso
per attenuarne il morso. Ricondurre
il tutto a una statistica di innocue
particelle indolori in movimento
e ipotizzare un punto di riposo
– uno zero assoluto di dolore –
irraggiungibile come il bordo del cielo
e la mattina di ieri. Misurare
il dolore. Stimare se su questo pianeta opaco
il dolore totale prodotto sia più o meno
di quello consumato. E magari poi scoprire –
– scoprire che anche nel dolore

l’Universo è un sistema isolato.



Liturgia

Religioso il sacchetto di lattuga,
l’olio, l’aceto, il sale,
e religiosa la tua voce che mi chiede
per favore
mi aiuti a mescolare?

Il mio carisma è stringere
l’insalatiera celeste della cena
con ambedue le mani
mentre consacri a forchettate
il doppio prodotto alimentare
di tu più io elevato alla seconda.

Ecco fatto, esclami.

E ogni cosa è al suo posto
nell’angolo rituale di universo
che stasera ci compete.



Fantasia

I

Poco fa telefonato la vita
con la sua voce plurale di formica
ha chiesto se c’era un tale ha detto
di aver sbagliato numero in fretta
ha riattaccato


II

Hai visto nella folla la vita?
Agitava la mano nella nostra direzione
come in fondo a un cannocchiale capovolto
a ben guardare da un vago
spaesamento del volto direi che
forse non salutava noi ma qualcun altro
per caso alle nostre spalle


III

Ti ricordi della vita?
Lei così alta e sottile un viso
non del tutto proporzionato
quel che si dice un tipo
è vero i dettagli le contingenze
l’erosione continua del tempo – ma la vita
la vita tutta intera che ci eravamo promessi
come puoi non ricordarla?



In memoriam R.P.W.

Considerate un momento
Robert Pershing Wadlow

che torreggiava
sulle prime quattro lettere di Illinois
e aveva un letto lungo un weekend
da venerdì a lunedì

ma piedi fragili
come la statua che vide in sogno
Nabucodonosor

Di certo era gentile
e sebbene il libro dei record non ne parli
lo si immagina facilmente in primo banco
a cantare le lodi
ripiegato come un metro da falegname

Portava in giro desideri
non più leggeri dei nostri
in un’aria più leggera
e sorrideva ai fotografi
perché ognuno deve fare il suo lavoro

Forse doveva risparmiare sul tempo
quel che aveva sprecato in altezza
e morì ventiduenne
(dissero i dottori) ancora intento a crescere

Lasciò soltanto la sua scarpa destra
a Mr Snyder di Manatee
vuota come un punto di domanda

E forse non seppe mai
perché Dio l’avesse mandato qui
ad essere il più alto
e niente più



Atacama

L’astronomo:
Stelo verde che tremi
sopra la scorza secca del deserto
spero
che tu non abbia nome.

La pianticella:
Ero.
Sono.
Il vento, il vento. Mi trapassa un dolore
che non posso provare.

L’astronomo:
A momenti usciranno le stelle. Cresceranno stanotte
più di ogni altra notte.
Oh,
essere come te,
stelo, e non saperle.

La pianticella:
Chiedo
solo
di vivere ancora. Lo chiedo
fino all’ultima foglia.

L’astronomo:
Il gelo che ci attende è più profondo.
Cadiamo in ogni direzione
verso il gelo. Non capiremo.
Passeremo
senza diventare familiari all’universo.
Stelo,
non ho più baveri da rialzare.

La pianticella:
Tendere in alto
senza volerlo.
Ecco il mio nome.

L’astronomo:
Salutarci. Solo questo ci è dato.

La pianticella:
Sono.
Sarò.



(Inediti)


Le margherite


Come un bimbo volevo regalarti le margherite più belle del mondo

E il mondo aveva invece solo queste margherite
scampate alla battaglia con la pioggia sotto il cellofan del negozio

Mi dirai che sono belle
Il tuo sorriso è dove le cose smettono di deludere

Una margherita sopra l'orecchio questa sera
Vedrai, ne spunteranno ancora
I tuoi capelli splendono quanto più sono pieni di nuvole



Ryôan-ji


C'è una fontanella che gocciola
dall'altro lato del pianeta

Pietre occupano lo spazio
più leggere dell'aria

Vorrei chiedere ai turisti
di abbassare la voce almeno nel ricordo

da quaggiù
quasi non sento lo squittio dei listelli
quando passano i monaci
come insetti sull'acqua


Guido Cupani è nato a Pordenone il 29 giugno 1981. Abita a Trieste, dove lavora presso l’osservatorio astronomico. Ama le coincidenze, la grammatica, i quasar, il pomeriggio, la birra, gli insetti di cui non conosce il nome. Ha esordito nel 2011 con la raccolta di poesie Le felicità, pubblicata da Samuele Editore. Sempre per Samuele Editore ha curato nel 2012 il volume Lettere – a te e, nel 2013, la traduzione della silloge Nel santuario di Patrick Williamson.

15 commenti:

  1. Mi fa un particolare piacere trovare qui le poesie di Guido Cupani, perchè penso che sia un autore davvero molto bravo. Mi aveva colpito la sua scrittura già prima di conoscerlo di persona, ma per me, che sono ancora legato con convinzione al concetto - forse adolescenziale - che diatro alla bella poesia ci sia una bella persona, Guido è stata una importante conferma: è come lo si legge, ed è animato da una sincera voglia di imparare e di confrontarsi, dote rara nella vita e dunque nella letteratura. Immagino che anche questa possa essere intesa come garanzia di quel "valore di verità" di cui parlavi tu, Stefano, nei tuoi saggi critici come strumento per valutare il valore della poesia.

    Francesco t.

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  2. In questi testi circola una naiveté ( non trovo i due puntini sulla i ) subito percepibile , che si fa apprezzare perché sorgiva spontanea autentica .
    Nulla di riconducibile all'ingenuità e alle sue ricadute effimere , bensì un "respiro" che si autoalimenta soltanto della sua "grazia"e della sua pulizia linguistica .

    leopoldo attolico -

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  3. Com'è difficile leggere belle poesie come queste quando tua figlia (due anni e mezzo) gioca e canta con l'amichetta, tua moglie fa da "moderatore" e tu cerchi invano la concentrazione.
    Hai modo (e tempo) appena per carpirne l'autenticità. Ti riproponi di ritornarvi e pensi: quanti bei versi in rete, buon poeta!

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  4. Chiedo scusa, ancora una volta avevo dimenticato la firma:
    giesse (alias Giuseppe samperi)

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  5. Ringrazio Stefano per aver colto così bene il senso dell'incontro, come io stesso non ero riuscito a definirlo. E ringrazio anche gli altri lettori dei gentili commenti! Come Francesco, sono anch'io convinto che la ricerca poetica non ha senso se non è un cammino spirituale di apprendimento e miglioramento continuo. La naïvete è la meta di un percorso che parte dall'ingenuità, attraversa i territori della confusione e dell'artificio e si ricollega dopo un lungo giro ai passi dell'inizio (come diceva Borges: «non la semplicità, che non è niente, ma la modesta e segreta complessità»). Sono contento di essere riuscito almeno ad evocarla. Queste osservazioni sono un bello stimolo a riprendere il cammino senza stancarsi.

    Guido Cupani

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  6. L'universo è un sistema isolato...

    viene da pensare a quanto le stelle distino tra loro, e distino da noi...
    eppure a volte capita di sentirci molto vicino all'universo stellare...perchè?

    ecco, questo è il tipo di poesia che sembra avvicinarsi alla scienza ma che mantiene intatta la sua origine di poesia, cioè descrittiva, di particolari stati dell'animo in cui si ritrova l'individuo ...e che ci fa sentire *eterni*.

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  7. Dostoevskij riteneva l'uomo del sottosuolo un prodotto "necessario" della sua epoca. Un po' allo stesso modo, queste poesie mi appaiono un prodotto quasi necessario di una tipica configurazione - sostanzialmente fortunata - di intelligenza, sensibilità e cultura, ma anche di bellezza sufficente a vivere un buon amore, ed energie in avanzo sulle urgenze della vita combinate al tempo libero necessario ad "investirle", sopra un solco culturale complementare ad una professione pur sempre "scientifica", anche se altamente romanticizzabile. Un prodotto gradevolissimo, che sorprende in una misura difficilmente valutabile: forse un po' troppo "comprensibili" o "indossabili"? Ovviamente rimane il dubbio di non saper percepire quei "valori formali" che forse, ad un orecchio più accorto, offrono decisive esaltazioni del "senso" evocato. Ma l'impressione è un po' quella di una birra analcolica - gradevolissima quando si ha sete ma incapace di portare quell'ebbrezza in cui in fondo si spera sempre un po'. Forse manca quella "ferita" che tanto spesso è necessaria alla formazione di una perla, forse si tratta quindi di una poesia troppo "sana".

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  8. non lo so se non c'è la ferita. Talvolta questa agisce per venature segrete, diventando fiore. E' anche vero che la poesia e l'arte in generale quali conseguenze di un trauma personale sono un mito del moderno. Sono quindi espressione di una cultura, prima che necessità intrinseca alla parola poetica, che può darsi in tanti modi, anche piani. Poi uno può legittimamente preferire il tellurico e l'urticante. Un cordiale saluto!

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  9. La ferita c'è, ma è dissimulata (anche se non in tutti i testi: Atacama, ad esempio). Dell'arte mi attira la potenzialità poietica, non tanto la capacità di veicolare uno sfogo (il che è un portato del Romanticismo, tutt'altro che universale, come giustamente sottolinea Stefano). Mi riesce difficile esprimere in versi l'angoscia senza diventare stucchevole o ridicolo. L'ebbrezza che cerco è quella dell'epifania: mi sforzo di costruire senso abbinando concetti lontani fra loro, in un'estensione della metafora dal piano delle immagini a quello delle idee. Pure, come rilevato da Elio, c'è il rischio di fissarsi in una maniera. A lungo andare, gli espedienti perdono forza. Per questo ho cercato, ultimamente, di lavorare anche sullo spazio oscuro della vita che finora avevo accuratamente evitato. Ma è un percorso soltanto abbozzato.

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  10. Condivido le note di F. Tomada e di Stefano Guglielmin, ma anche quella di Elio C. : una voce "giovane" nel senso di nascente, ancora privilegiata, lucente, perché non investita dalla finitezza (la ferita dissimulata, intravista ma non ancora realizzata). In bocca al lupo, c'è bisogno di persone come Cupani ad investigare la forma partendo da una formazione razionale, che io spero non si risolva nel solito senso creaturale di tanti scienziati che tornano infine alla parola. Saluti. Giuseppe

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  11. Ringrazio tutti per l'autorevolezza degli interventi, utili senz'altro all'autore per proseguire il suo cammino.

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  12. Confermo quel che ha scritto Stefano e ringrazio a mia volta!

    Guido Cupani

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