lunedì 1 luglio 2013

Marco Furia su Antonio Prete


Vivide meditazioni

La poesia è un mondo che è anche la maniera di costruire quello stesso mondo: ecco un virtuale (non breve) sottotitolo di Meditazioni sul poetico, complesso e affascinante libro di Antonio Prete.
L’universo dei poeti esiste perché i poeti esistono: non è banale dirlo.
I versi, in genere, concedono molto e poco alla descrizione.
Molto, perché la loro creatività consiste in un esprimere per via di parola, poco, perché il loro rivolgersi a un oggetto è del tutto originale.
Faccio un esempio.
Descrivere un sentimento è arduo e pure, in apparenza, facile: l’interiorità umana è ricca di molteplici tratti intrecciati, ciononostante si trovano nel linguaggio, senza difficoltà, vocaboli che si riferiscono a sensazioni, emozioni, eccetera.
Il poeta, per Prete, sta come nel mezzo: adopera le parole essendo ben consapevole della magmatica complessità dell’esistere.
Non rifiuta la logica, la supera; non usa uno strano e incerto idioma, è preciso fino all’intransigenza.
Leggo a pagina 84:
“La parola nostalgia comincia a sfumare dall’ordine clinico all’ordine di un sentire che, se è ancora turbato, ha tuttavia elementi di affettiva, e talvolta dolce, rammemorazione. La nostalgia da malattia diventa sentimento”.
Le parole sfumano e, modificandosi, rappresentano e sono la nostra vita.
Il poeta, più che al rappresentare, punta all’essere e, anche se talvolta sembra schivo, non si dimentica mai degli altri, al contrario, partecipa con intensità a un esistere che avverte quale tendenzialmente coincidente con una lingua multiforme, aperta.
Leggo a pagina 133:
“Allontanandomi nel viale, tra le piante, il libro tra le mani: come lo straniero. Come lo straniero che non sa ancora quanto irrevocabile sia l’addio appena consumato”.
Non pochi pensano che gli uomini siano sempre un po’ forestieri sul pianeta Terra:
il nostro autore, però, si riferisce a ben altro.
Ogni addio è irrevocabile come ogni gesto, poiché lo scorrere del tempo rende unici tutti gli istanti.
Ma “lo straniero” non lo “sa ancora”: tuttavia quando scrive (e quando il lettore legge), lo sa.
Una mancata conoscenza e il suo contrario si riflettono reciprocamente in poche righe.
Affiora un’ambivalenza che non affonda le sue radici in un cortocircuito logico (la forma è piana e comprensibile), bensì in una vivida modulazione della scrittura come della vita.
Leggo a pagina 138:
“Il “luogo” che si cerca ha rifrazioni infinite, sta innanzitutto dentro di noi e ha il ritmo del ricordo, o anche del sogno”.
Siffatte “rifrazioni infinite”, come, in genere, tutti i riverberi, sembrerebbero a prima vista incapaci, da sole, di definire uno spazio, nondimeno, se abbiamo abbandonato certi rigidi e impoverenti canoni, scopriamo che è proprio così e che “innanzitutto”, l’umana interiorità non è priva di luminosa ampiezza.
Il “luogo” è anche “ritmo del ricordo” e “del sogno”: occorre riconoscersi appieno in tutti i propri aspetti per comprendere davvero la natura dell’esistere.
La poesia, dicevo all’inizio, è un mondo che è anche la maniera di costruire quello stesso mondo e, aggiungerei, consiste in un’invenzione che è un vedere meglio quello che c’è già, in un soffermarsi con affettuosa e creativa consapevolezza sugli attimi persistenti e infiniti di cui si compone la vita.
Le “Meditazioni” di Antonio Prete, per via del loro pregnante soffermarsi su temi generali e specifici, su singoli poeti e su numerose opere, per via della loro partecipe complessità capace di sciogliersi in intensa empatia, mostrano, in maniera chiara, una volta di più, che la poesia è anche una forma di vivida conoscenza.

                                                                                               Marco Furia


da Antonio Prete, Meditazioni sul poetico (Moretti & Vitali, 2013, pp. 187, euro 16,00)


Un tappeto per il passaggio dell’ombra verso il volto, dello straniero verso il tu. Risonanza nel silenzio dell’io, di una voce che mostra l’invisibile che unisce l’io e il tu, il vivente che è riverbero di confini, trasognata appartenenza all’impossibile.



Nell’espressione “lingua materna” si dispiega un’esperienza affollata di voci e gesti, di scoperte e incantamenti, di malinconie prive di nome, di attese spaventate dai fantasmi dell’inaccaduto. Esperienza di un tempo che, in un certo senso, non è ancora tempo: al di qua, dunque, della scansione, del traguardo, del passaggio. Tempo senza orologio, immobile: ma, in quella immobilità, si aprono ventagli di suoni, sinopie di ricordi, inseguirsi di voci.



Nella metafora ci sono tracce dell’intesa tra il vivente e il linguaggio. Per Vico la tentata riduzione del mondo ai sensi, e la descrizione delle cose a partire dall’universo corporale, sono i due movimenti con i quali il linguaggio si costituisce, la conoscenza si forma. Il corpo come recinto di una mutazione del vivente sensibile nel vivente linguistico, ma anche come opaca transenna che divide l’enigma della physis dalla sua morfé, dalla sua apparenza, dal suo mostrarsi, e separa l’energia dell’universo dalla sua lingua. Le “cose insensate” da una parte e il senso e la passione dell’uomo dall’altra si incontrano nello specchio del corpo. Ma in quello specchio si riflettono anche, in una vertigine d’angoli e di colori, le figure sfuggite all’oblio.



Anche la parola di Char come quella di Leopardi (uno dei suoi “ascendenti”) è sorvolata da stelle, “der sternüberflogene wort”, per usare le parole di Celan. Ma non c’è in Char una crittografia stellare, un enigma stellare: nessuna devozione da decifratore. L’elemento astrale è sulla terra, sulle acque, nei colori delle albe. Le stelle dormono sopra i cespugli e sopra le sabbie. Non sanno del destino, sanno della fatica dell’uomo.



Di Yves Bonnefoy potrei dire quello che Nietzsche diceva di Leopardi: amo i poeti che pensano. Infatti la poesia di Bonnefoy è un pensiero che mentre evoca presenze interroga i confini stessi del pensiero. Mentre ospita un albero, una pietra, uno spicchio di cielo, un colore scrostato di pittura, si spinge sulla soglia dell’invisibile, leggendo le sue ombre. Mentre ascolta un passo nella sera, un rumore di vento o d’acqua, mentre accoglie figure provenienti da un sogno, cerca un radicamento nel qui, nella opacità della terra. E allo stesso tempo libera l’ala dell’altrove, il pensiero dell’impossibile. E tutto questo accade nel ritmo aperto, da adagio meraviglioso, del verso. O nel ritmo di una prosa che ha portato la tradizione francese dell’essai, del saggio, verso forme nuove. Verso forme in cui la descrizione di un’opera d’arte è racconto, il ricordo è meditazione, l’analisi è evocazione di figure e di luoghi, insomma la scrittura è esercizio di una libertà inventiva estrema, ma anche discreta, quasi confidenziale: esperienza che mette in campo un sapere conoscendo la fragilità del sapere, la sua debolezza dinanzi alla presenza insondabile del vivente.

                                                                                                 

   

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