martedì 16 agosto 2011

Giuliano Mesa



Leggo solo ora della scomparsa di Giuliano. E' un puro caso che oggi abbia deciso di riaprire Blanc con lui. Ho scritto queste cose in questi giorni. Anche questo è un caso. tutto il resto, invece, è tristezza.


La resistenza alla deriva post-moderna, nell'accezione più reazionaria, costituisce il nucleo militante della poesia di Giuliano Mesa. Il primo esplicito riferimento lo troviamo in Nove macchine morte (ne I loro scritti ora in Id., Poesie 1973-2008, La Camera Verde 2010), un testo nato, spiega in nota l'autore, come reazione a chi ha voluto "disfarsi delle maschere teleologiche", per seppellire l'evidenza oscena del potere, sotto una "immane varietà disposta orizzontalmente", manipolabile "al momento opportuno" per garantirsi il dominio. Tale assunto sarà ripreso nel saggio Frasi dal finimondo (Akusma, Metauro 2000), in cui "il postmodern a-critico", glorificando la metropoli, ha reso "impronunciabile" l'orrore che realmente in esse si perpetua. Perché è appunto questo il discrimine: tanto più la parola si destoricizza, quanto più essa nasconde la propria natura ideologica, nella misura in cui veste le cose, che diventano merci, nascondendone il loro destino mortale. Pur dandogli ragione intorno al postmoderno più ingenuo o contiguo al potere, credo che la sua scrittura sia non soltanto l'effetto dello scarto tra significante e significato (operazione che ha innumerevoli padri), ma, più profondamente, parli a partire da un silenzio inavvicinabile, perduto da sempre, ateologico, da un "nulla" zanzottiano, come giustamente rileva Baldacci nella densissima prefazione a Poesie, che è la cifra del pensiero postmoderno più ricco, nel quale lo stesso Adorno dei Minima moralia può essere inserito, laddove ci racconta che nessuna verità è a tutto tondo e definitiva, ma si mostra nell'eccesso, nel suo darsi asimmetrico, dislocante, infettivo. "Il tutto è falso" adorniano, apre appunto alla disseminazione delle esistenze sotto il segno del loro inesorabile estinguersi, che è proprio quanto sostiene l'ontologia della differenza (che fonda il post-moderno più interessante) e ribadisce il verso tragico di Mesa, declinato nella certezza che "non ci sarà ordine né per me né per te / c'è sempre sangue che sgorga".

L'attenzione in Mesa non insiste tanto sull'origine ontologica del disordine, su quel "nulla" che ha radice nell'aprirsi stesso delle esistenze, oscillanti emotivamente fra l'attesa e il lutto, in un perpetuo interrogare il senso dell'essere, quanto su quel "sangue" reale che impesta la storia e che il postmoderno, parlando di fine della storia, pare rimuovere. Diversamente, io penso che liberarsi dall'idea di superamento, di nuovo che sostituisce il vecchio (implicita anche nel pensiero dialettico) non sia negare movimento al processo, bensì la via più feconda per pensare il tempo storico nel suo darsi eventuale, senza la facile illusione (che in Mesa non c'è, occorre dirlo) che sia possibile un'azione palingenetica, un rifondare l'esistente scardinandone l'ingiustizia e la violenza intrinseche.

Rimane comunque il fatto che il "sangue" e l'impotenza della letteratura a coagularlo in pane sono il seme stesso di chiunque scriva con consapevolezza, al di là delle poetiche. Questo rovello, è infatti centrale anche in Mesa sin dalla prima raccolta e trova in Da recitare nei giorni di festa il suo nucleo biografico originario: in questa silloge il dettato s'illimpidisce, diventa corale, avendo al centro la deportazione del padre nel campo di sterminio di Fullen, traccia che sfuma via via nella violenza parigina della polizia contro i sans papiers, come a segnalare uno stato permanente di guerra (la guerre, la guerre –scrive Celine, citato da Mesa – ne passait pas), che è l'urgenza da cui mai l'autore si congeda e che altrove egli tiene viva immergendola in un'aria beckettiana, post-umana, dove una "sorda sirena" annuncia il "suono della fine", come recita l'incipit di Quattro quaderni, opera in cui la parola, pur arrendendosi al sangue, fonda la fiducia nella comunicazione, sulla scorta del libro precedente. Se prima, le macerie della storia avevano disgregato anche la possibilità del discorso, ora il poeta rilancia la scommessa sulla parola proprio a partire dal suo disastro. Lo svuotamento del significante, il suo suono fasullo, diventa qui partitura, con temi e variazioni ("varianti" e "ripetizioni") entro un mondo falso quanto più crede di essere vero (in ciò riprendendo le Moralia adorniane), al quale tuttavia, scrive Mesa, occorre resistere, non fuggendo, ma stando in ascolto di qualcosa di intrinseco al mondo stesso: ancora il pensiero eventuale che si affaccia (penso alla lichtung heideggeriana) e che egli traduce così: "è vero questo approssimarsi. / è vero che a qualcosa, sempre, / noi ci approssimiamo". Qualcosa che, alla fine dei Quaderni, "trema" dentro il tempo, un residuo, un fiato a cui siamo essenzialmente legati, la rivelazione che siamo-per-la-nostra-fine come ben sa la tragedia greca. E che Mesa ha in mente sin Dai loro scritti e mette in scena in Tiresia, viaggio fra le catastrofi contemporanee viste con l'occhio di un veggente che assomiglia a Cassandra, allegoria forse dell'impotenza della letteratura a salvare gli uomini e dalla quale il poeta, in un dialogo ideale, vorrebbe liberarsi: "dire le ultime parole? / e quali?". Un dubbio risolto all'ultimo verso, che pare il morso del pastore al serpente nello Zarathustra nietzscheano: "ti lascio qui". Detto da Tiresia-poesia a Persefone, dea del "narciso" e del "croco", della ciclicità preclusa alla poesia moderna, ma anche congedo del poeta al proprio avatar, con la forza di chi sta uscendo dall'Ade, per un'altra "penombra", sulla soglia del "dolore". Questa volta accompagnandosi a Celan, "dans l'eau", con le parole nell'acqua, in prossimità della morte, in ascolto del mulinello, del gorgo, dove tuttavia la vita è ancora possibile: "uno schiocco di lingua, / uno scroscio, un crepitare - / crepita adesso, ancora, / ricopriti di crepe, di voragini, / di luci // non è vuoto". Non è il vuoto, appunto, ma un porsi radicale al centro del nulla come problema, senza riparo, come nella migliore poesia della soglia (o postmoderna), là dove il sangue e la parola, la fame e il dolore si giocano un senso nuovo ogni volta, fuori dai recinti ideologici e dalle categorie a priori.


alcune sue poesie:
http://www.cepollaro.it/poesiaitaliana/MesTes.pdf

http://rebstein.wordpress.com/2007/08/11/tiresia-di-giuliano-mesa/

http://gammm.files.wordpress.com/2007/04/gmesa_nun.pdf


Giuliano Mesa, nato nel 1957 a Salvaterra (Reggio Emilia), si è trasferito a Roma nel 1982 e ora vive a Vasanello (Viterbo). Ha pubblicato le raccolte poetiche Schedario (Geiger 1978), I loro scritti (Quasar 1992), Improvviso e dopo (Anterem 1997), Quattro quaderni (Zona 2000). Nel 2001, con Agostino Di Scipio, ha realizzato l'opera per poesia e musica Tiresia. Poesie 1973-2008 (La Camera Verde, 2010). È tra i redattori di "Ákusma. Forme della poesia contemporanea" (Metauro 2000)





6 commenti:

  1. che dire? in troppi se ne stanno andando...

    elio

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  2. Grazie, sempre, a chi ricorda i poeti, e invita i lettori pigri a leggere o rileggere.

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  3. è difficile dire altro, in questo momento.

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  4. LA LINGUA PIENA CHE NON HA FONDO, LA POESIA DI GIULIANO MESA
    di V.S.Gaudio

    Nell’Antologia Ante Rem, scritture di fine Novecento, a cura di Flavio Ermini, Giuliano Mesa è nella parte quinta , quella denominata “La persistenza del senso”,che ha per epigrafe: “Noi gettati nell’azzardo infinito”(Rilke).Le altre quattro parti sono: L’inaugurazione del senso; La responsabilità della parola; La conoscenza poetica; La verità frammentaria. La poesia di Giuliano Mesa, dentro la “persistenza del senso”si muove in questo paradigma: “ Proseguire nella ricerca di una nuova lingua significa allestire la scena che possa accogliere l’inquietudine e il dubbio. Il mutamento. Significa promuovere nell’evento linguistico l’inatteso. Va sostenuta la capacità della scrittura di produrre intense rivelazioni e trasformarsi, sottraendosi alla presa di mani troppo stringenti.(…)Unica tra le forme, la poesia parla di ciò che eccede la pura designazione delle cose. Il poeta denuncia l’arbitrarietà del legame fra parola e cosa. Fino a pronunciare una parola destinata a spezzarsi. Affinché in quella discordanza nel respiro il nascosto possa manifestarsi, il tacito dirsi, l’insituato trovare spazio. La parola si muove tra persistenza e mutevolezza nella nominazione. E ne sopravanza la pienezza. Ricadendo così all’esterno della cosa. In onde non estinguibili. Dando luogo a un’altra lingua rispetto a quella del senso comune. L’unica che può giungere a sollevare lembi d’informulato. Una lingua in cui non si scorgono leggi, conseguenze, fondo. Né si distinguono radice ed erranza, silenzio e voce.(…)In un’esperienza radicale del limite che porta il senso a tracciarsi, in quel punto d’incontro dell’inizio e della fine, in cui prende forma la nozione di principio nella sua assoluta atemporalità”(Flavio Ermini, op.cit. Verona 1998:pagg.14-15). Che è, questo paradigma di origine della parola e parola dell’origine, anche quello di Andrea Zanzotto, Roberto Sanesi, Paolo Badini, Valerio Magrelli, Toti Scialoja, V.S.Gaudio, Cesare Greppi, Giuliano Gramigna, Patrizia Vicinelli, Mario Ramous, compagni persistenti nel senso della lingua di Giuliano Mesa.

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  5. grazie Gaudio. Ed è anche il sentiero di molti altri poeti.

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  6. grazie, Stefano, per lo *spazio* (continua ad essere difficile dire altro...)

    fabio teti

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